La cortina fumogena della narrativa ufficiale sull’economia globale nasconde una realtà drammaticamente diversa. Ecco i dati
di BUSINESS INSIDER ITALIA (Mauro Bottarelli)
Quando negli Stati Uniti si vuole definire una situazione, quasi sempre in ambito politico, di chiara dissimulazione e creazione di una cortina fumogena, si usa l’espressione wag the dog (gioco di parole sul paradosso di agitare il cane, invece che quest’ultimo la coda). Poteva Hollywood farsi sfuggire un’occasione simile? Ovviamente no e nel 1998 uscì nelle sale l’omonimo film, giunto in Italia con il titolo di Sesso e potere, protagonisti Robert De Niro e Dustin Hoffman. Basica ma brillante la trama: per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica da uno scandalo sessuale del presidente Usa, un team di spin doctor e agenti segreti, capitanato da un produttore cinematografico senza scrupoli, inventa una fantomatica guerra contro l’Albania, con tanto di profughi ed eroi in battaglia.
- Una scena di Wag tge dog (Sesso e potere) con Dustin Hoffman e Robert De Niro.
Ora, al netto di ogni possibile speculazione o dietrologia, di fronte alla piega presa dalla narrativa mainstream rispetto allo stato di salute dell’economia globale (Usa in testa) e dei mercati, viene da chiedersi se non sia in atto un qualcosa, magari inconsapevolmente, di simile. Niente Spectre o burattinai occulti, semplicemente il sistema – politico ed economico – che cerca di autotutelarsi da un’esplosione di panico generalizzata stile 2008, sperando che nel frattempo qualcuno riesca a mettere una toppa.
Ad esempio, la Fed
Viene da chiederselo, perché questi tre grafici ci mostrano altrettante realtà decisamente inquietanti, se poste in prospettiva di quanto avvenne soltanto dieci anni fa dall’altro capo dell’Atlantico e poi propagatosi come un’epidemia a tutto il globo. Dieci anni, non un secolo. Il primo fa riferimento a un indicatore molto tecnico di mercato ma che ha una sua implicazione decisamente “reale” come impatto sulla vita quotidiana e sulla percezione politica del momento. Per la terza volta da quando Donald Trump è diventato presidente, lo spread fra il tasso del Libor a 3 mesi (di fatto, ciò che in gergo viene definita la fonte di finanziamento del mondo reale) e il rendimento del Treasury a 2 anni (la cartina di tornasole della percezione di mercato riguardo il ciclo della politica monetaria) si è invertito.
- Zerohedge
Peccato che, questa volta, le implicazioni siano un po’ differenti rispetto ai primi due casi: questo accadimento ha di fatto azzerato tutta la crescita economica implicita registrata dall’arrivo del tycoon newyorchese alla Casa Bianca. Di più, passato lo scoglio del mid-term di novembre, la percezione è quella di un mercato che pare arrendersi all’evidenza di un destino ineluttabile: ovvero, pare che né l’inquilino di Pennsylvania Avenue, né la stessa Fed possano fare qualcosa di risolutivo. Certo, come anticipato, si tratta di un indicatore molto tecnico, quindi non adatto alla lettura su un quotidiano generalista o all’apertura del Tg della sera.
Gli altri due grafici, però, sì.
Il secondo ci dice che per i titoli azionari statunitensi, il mese di dicembre che volge al termine è stato il peggiore dal 1931, dalla Grande Depressione!
- Zerohedge
Soltanto il 1980 si è avvicinato come negatività ma ben distante: anche solo come immagine da vendere all’opinione pubblica, questa pare decisamente prestarsi di più a una diffusione di massa.
Il terzo grafico è ancora più impietoso. Perché se la narrativa generale è quella di una situazione economico-finanziaria globale cambiata drasticamente negli ultimi due mesi, a causa dell’acuirsi della guerra commerciale fra Cina e Usa e per il contraccolpo del mese horribilis di ottobre sui mercati, il grafico parla un’altra lingua: la messe di dati macro negativi a livello quotidiano, da inizio anno, è stata una fra le più alte in assoluto da quando viene tracciata la statistica.
- Bank of America/Bloomberg
Ovvero, brutte notizie giunte a raffica dalle vendite al dettaglio cinesi come dalla produzione industriale dell’eurozona o dal mercato immobiliare statunitense o ancora dal mercato delle materie prime in Australia. Fioccate quotidianamente, da inizio anno e in numero record: nessuno, di fatto, può dirsi in tutta onestà colto di sorpresa dagli avvenimenti di queste ultime settimane.
Né tantomeno vendere in buonafede la retorica del crollo improvviso della ripresa globale. Almeno, chi opera sui mercati o informa l’opinione pubblica al riguardo. Quest’ultima, invece, sì. Soprattutto se certe notizie vengono nascoste, filtrate o direttamente non diffuse.
Mentre altre, in perfetto stile wag the dog, occupano le prime pagine per intere settimane. E con ritorni ciclici, come ad esempio le interferenze russe nelle elezioni presidenziali Usa del 2016, argomento che ricompare con nuove rivelazioni, spesso non seguite da alcuna conseguenza pratica o riscontro fattuale, quando si avvicinano momenti delicati. Vedi, ad esempio, il caos sui mercati e la disputa fra Casa Bianca e Wall Street da un lato e Fed dall’altro sul rialzo dei tassi. Il Nasdaq che perde il 2% in tre giorni di contrattazioni su cinque non sembra fare notizia, ormai. Anche perché bastano i rimbalzi del gatto morto o gli short squeezes di massa degli altri due giorni, debitamente strombazzati, per controbilanciare la situazione.
E’ il new normal, di fatto un processo di anestesia della crisi che riesce nel miracolo di mantenere sottotraccia, nella percezione pubblica, notizie che prese singolarmente e debitamente riportate avrebbero un impatto ben differente.
Il rischio, ora, è che – almeno negli Usa – stia per terminare il periodo d’oro in cui lo shock fiscale e le sue misure di sussidio/incentivo riusciranno ancora a controbilanciare l’erosione del potere d’acquisto dell’americano medio, sia per i ricaschi interni della guerra commerciale a livello di prezzi dei beni di largo consumo importati, sia per la dinamica illustrata dal grafico qui sotto.
- Bankrate
Se infatti la narrativa su cui dobbiamo fare affidamento è quella di un’economia americana che cresce al ritmo del 4% come nel secondo trimestre di quest’anno, il dato salariale medio appare decisamente deludente per la gran parte dei cittadini statunitensi. E già oggi, il tracciatore in tempo reale del Pil della Fed di Atlanta, il GDPNow, parla di un 2,8% per il mese di dicembre e di un 2,7% per l’intero quarto trimestre 2018. Certo, lunare rispetto alla contrazione già in atto nel’eurozona ma decisamente in trend in calo continuo e da fine ciclo per gli Usa, oltretutto con il boost fiscale ancora attivo ma che entro la primavera perderà del tutto la propria spinta.
E quello che la logica del wag the dog comporta, in fasi simili, è uno scontro frontale fra realtà percepita e realtà reale. Ad esempio quella che il cittadino Usa medio deve già oggi affrontare quando entra in una filiale bancaria. Stando all’ultimo report Senior Loan Officer Opinion Survey (SLOOS) della Fed, infatti, le condizioni di finanziamento e accesso al credito sono stabili per le piccole aziende, mentre quelle per ditte medio-grandi sono addirittura migliorate. Peccato che a contrastare con questa versione ufficiale ci abbia pensato un’ìnchiesta della Reuters, dalla quale emerge una realtà nettamente differente. Già oggi, infatti, le banche Usa stanno operando in modalità molto cautelativa, quasi pre-recessiva a livello di erogazione di prestiti, fidi e mutui. Di fatto, tagliando le esposizioni percepite come a maggior rischio.
- Primo, oltre la metà delle richieste di nuovo finanziamento per clienti con basso rating di credito è stata respinta nei quattro mesi che si sono conclusi lo scorso ottobre contro il 43% dello stesso periodo del 2017, questo stando ai dati ufficiali della Fed di New York.
- Secondo, le banche statunitensi hanno già chiuso d’imperio il 7% dei conti esistenti e facenti riferimento, per la gran parte, a clientela subprime, il massimo mai registrato dal 2013, anno in cui la Fed ha cominciato a tracciare il dato.
- Terzo, le linee di credito cosiddette home-equity sono calate dell’8% nel complesso del settore bancario, con rallentamenti consistenti delle concessioni in ambiti strutturali per l’economia e i consumi Usa, come carte di credito e credito al consumo, oltre a prestiti verso commercio e industria.
Per ora è solo un trend, un potare preventivamente i rami già oggi troppo secchi ma resta il fatto che questa accelerazione nell’inversione di tendenza è accaduta quasi di colpo, dall’estate in poi. E in un contesto di de-risking globale nei confronti degli Usa, quasi una nemesi rispetto al sentire comune.
Gli ultimi tre grafici mettono la situazione in prospettiva.
Il primo ci mostra come, stando a dati ufficiali del Tic (Treasury International Capital System), le principali detenzioni estere di debito statunitense a ottobre sono calate di altri 26 miliardi, portando il totale al minimo dallo scorso aprile, 6,20 trilioni di dollari.
- Tic
Contemporaneamente, come mostra il secondo grafico, al 14 dicembre scorso i contribuenti americani detenevano per la prima volta dal 2010 più Treasuries della stessa Fed, 2,28 trilioni di controvalore rispetto a 2,24 trilioni.
- Zerohedge
Per la modica cifra di un aumento di rendimento pari a 83 punti base nel corso dell’anno, la Fed ha scaricato agli americani i titoli di quel debito cresciuto a dismisura durante gli anni degli acquisti in seno al Qe, oltre al carico ulteriore di deficit per finanziare lo shock fiscale di Trump. Ironia della sorte e in nome della big rotation fuori dalle equities e nei bond, facendogli anche credere di aver fatto un affarone. D’altronde, è Natale. Quindi, la Banca centrale Usa non solo ha oggi una valida, solida e patriottica alternativa ai detentori esteri ma anche un cuscinetto di ammortizzazione, in tempi di deficit sempre crescente, all’obbligo di ricominciare a stampare a breve, se la situazione peggiorasse ulteriormente. Insomma, ha guadagnato tempo. Il bene più prezioso di tutti, quando davanti c’è una nuova crisi in arrivo. Wag the dog al suo meglio.
E l’ultimo grafico ci dice perché la situazione potrebbe peggiorare. Sempre in base a dati ufficiali riferiti allo scorso ottobre, gli investitori esteri hanno venduto altri 22,2 miliardi di dollari di titoli azionari statunitensi, il sesto mese di vendite di fila e la striscia più lunga in tal senso da quando viene tracciato il dato.
- Tic
Di più, con questo ultimo dato, il quadro generale degli ultimi sei mesi parla la lingua di un altro record: 124 miliardi di controvalore di azioni di aziende Usa vendute da soggetti stranieri. Nulla che sia degno della notte prima del crollo di Lehman Brothers ma un dubbio è sorto nella mente di molti, soprattutto dopo il duro attacco di Xi Jinping all’America nel corso delle celebrazioni per i 40 anni delle riforme economiche varate da Deng Xiaoping: la weaponization of stocks, ovvero l’utilizzo della Borsa come arma estrema nella guerra commerciale.
Sarà questa la prossima mossa e quello registrato a ottobre il suo trailer, restando in ambito cinematografico?
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