La Cina si sta ‘americanizzando’: consumi in forte crescita, risparmio in calo e richiesta di capitali dall’estero
di BUSINESS INSIDER ITALIA (Mauro Bottarelli)
Chinese people queue up outside a bank as they wait to buy convertible bonds issued by Bank of China, in Beijing on June 1, 2010. Bank of China began to issue 40 billion yuan (5.9 billion USD) in convertible bonds on June 1 after the government called on lenders to beef up their defences against bad debt. AFP PHOTO/Franko Lee (Photo credit should read Franko Lee/AFP/Getty Images)
Una delle espressioni più generalmente utilizzate per descrivere uno stato di indigenza indotta da crisi è restare in mutande. Non è un caso, quindi, che un uomo di studi economici come l’ex governatore della Fed, Alan Greenspan, si sia inventato il Men’s Underwear Index, un indicatore economico riconosciuto che basa la sua scientificità su un dato: durante i periodi di rallentamento economico, gli uomini tendono a comprare meno mutande, utilizzando fino alla consunzione quelle che già posseggono. Di converso, nei momenti di boom, la dinamica si inverte. E’ il caso di quanto accaduto nella provincia nord-orientale cinese di Liaoning, dove non solo la vendita di intimo da uomo è aumentata ma, addirittura, si starebbe concentrando ormai da mesi su capi di qualità migliore. Insomma, stando alla metrica poco ortodossa inventata da Greenspan, l’economia cinese non sarebbe affatto in crisi. Lo testimonierebbero slip e boxer di un certo pregio che vanno a ruba.
E se il dibattito vi sembra demenziale, come in effetti è, pensate che a scatenarlo sono stati due quotidiani non proprio di livello parrocchiale come il Wall Street Journal e il Global Times, pubblicazione cinese ma in lingua inglese: la questione ha assunto toni così aspri e ufficiali da costringere il giornale di Pechino a una piccata smentita finale della tesi, sentenziando che gli indicatori che vanne bene per la società americana non calzano invece per quella cinese (http://www.globaltimes.cn/content/1133881.shtml).
Sicuri che sia così? Solo una questione di abitudini relative all’abbigliamento intimo? Non la pensa allo stesso modo e per argomenti decisamente più seri nel complesso, lo stesso Wall Street Journal, il quale in vista della visita della delegazione Usa in Cina alla ricerca di una soluzione alla guerra commerciale e alla luce del taglio delle stime di profitto di Apple sul mercato del Dragone, capace da solo di mandare fuori giri gli indici borsistici di tutto il mondo, ha realizzato un’inchiesta a largo spettro, la cui conclusione è invece la seguente: la Cina si sta americanizzando. Anzi, rispetto a certe dinamiche macro fondamentali, è già il clone fiscale degli Usa. Non a caso, nell’articolo dal titolo The China Story That Is Far Bigger Than Apple, il quotidiano della comunità finanziaria Usa parla a chiare lettere di “scostamento tettonico nell’economia del Paese che è stato largamente non notato dagli investitori”.
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L’intera narrativa prende le mosse da un evento spartiacque occorso lo scorso agosto e, in effetti, non eccessivamente enfatizzato dai media: per la prima volta nella sua storia moderna, come ci mostra il grafico
- Fonte: Deutsche Bank/Safe
il bilancio di conto corrente cinese per la prima metà del 2018 mostrava un dato in deficit. Nonostante tutti gli osservatori concordassero sulla natura quasi esclusivamente simbolica dell’accaduto, predicendo per fine anno un ritorno a un seppur modesto surplus finale, Ubs nel suo report di novembre scrisse che “per la prima volta, Pechino dovrà scegliere fra stabilità esterna e crescita”. Ora è il turno del Wall Street Journal, a detta del quale quanto sta accadendo sotto traccia “sta silenziosamente cominciando a sconvolgere il sistema finanziario globale”.
L’analisi parte da un cambiamento in effetti tanto drastico quanto epocale: dopo essere stata per anni e anni la campionessa mondiale del risparmio e dell’acquisto onnivoro di assets esteri, la Cina si è trasformata da inizio 2018 in grande centro di spesa, con i consumi personali che hanno inciso ancor più che negli Usa, economia dove questa voce ancora oggi pesa per il 70 del Pil. E con l’enorme popolazione cinese in continua crescita che spende in patria e all’estero, ecco che questo grafico
- Fonte: Ceic/Wall Street Journal
ci mostra come il suo surplus commerciale totale sia ormai frazionario rispetto al dato monstre di partenza. Ovviamente, Pechino resta un peso massimo dell’export internazionale ma il suo bilancio commerciale in continuo calo comincia a diventare una seria preoccupazione in prospettiva. Ad esempio, il surplus cinese si è contratto di un terzo in soli tre anni, visto che nel 2015 la Cina ha esportato beni per un controvalore di 150 miliardi di dollari in più di quelli importati. Nel terzo trimestre del 2018, quel surplus era già sceso a 100 miliardi. Sempre cifre record ma una dinamica chiara. Insomma, il cinese medio risparmia meno e spende di più.
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Anche all’estero, visto che la spesa netta in servizi turistici è aumentata dai 50 miliardi di dollari del 2015 agli 80 del 2018. E non si tratta soltanto di un modo per eludere legalmente le restrizioni cinesi sui capitali, i cinesi viaggiano davvero. E spendono veramente. Il problema è che la minore propensione al risparmio porta anche a degli squilibri a livello monetario: Pechino non compra più dollari per tenere sotto controllo lo yuan e la crescita infinita, tipo fungo in un sottobosco appena bagnato dalla pioggia, dei ricavi commerciali. Anzi, opera al contrario e questo ha portato ad esempio a un netto calo della detenzione cinese di debito Usa, visto che i Treasuries in mano al Dragone sono passati dal picco di 1,3 trilioni di dollari del 2013 all’attuale 1,1 trilioni, cifra destinata a scendere ulteriormente quest’anno, se non si troverà in fretta una soluzione che ponga fine alla guerra delle tariffe.
E con il deficit americano atteso a quota 1 trilione di dollari nell’anno fiscale in corso e che si chiuderà a ottobre, grazie alle spese in deficit dell’amministrazione Trump e le necessità di finanziarlo con emissioni in continuo aumento, questo cambio di regime in Cina può creare dei seri problemi. Non a caso, forzando la mano sui rendimenti grazie alla politica della Fed, i Treasuries sono diventati l’investimento diversificato preferito dagli americani, Fondi pensione e banche compiacenti con la Casa Bianca in testa, i quali oggi vivono un periodo di giapponesificazione del debito interno, detenendolo in maniera maggioritaria nei portafogli, come mostra il grafico
- Fonte: Deutsche Bak/Frb
Insomma, autarchia indotta: qualcuno, smentendo la tesi del Wall Street Journal, dalle parti di Washington pare essersi accorto con debito tempismo di quanto stava accadendo in Cina. Ma, come anticipato, questa nuova impostazione della società cinese impone un imperativo categorico, attrarre maggiori capitali esteri per mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti, visto che la ristrutturazione della base economica (meno export, più spesa, meno super-produzione e più servizi) e la guerra commerciale rischiano di far deteriorare ulteriormente i conti.
Questo porta a un’altra dinamica senza precedenti e con enormi, potenziali conseguenze macro: l’impatto sui mercati emergenti nel loro insieme. Consumando di più e avendo meno denaro disponibile per investimenti, la Cina deve infatti trovare i capitali necessari altrove: nella fattispecie, all’estero. E come ci mostra questo grafico
- Fonte: Ceic/Iif/Wall Street Journal
le conseguenze non hanno tardato a farsi sentire. Già nel 2018, infatti, gli emergenti hanno patito a livello economico non solo per il netto rafforzamento del dollaro indotto dalla politica monetaria della Fed ma anche per la capacità senza precedenti di Pechino di attrarre flussi di capitali verso i propri mercati azionari e obbligazionari. Stando a dati dell’IIF, l’Institute of International Finance, la Cina ha intercettato il 75% dei portafogli di investimento di non residenti presso i mercati emergenti nell’anno appena concluso e ne assorbirà il 70% in quello appena iniziato, il tutto in netto contrasto con il dato del solo 28% registrato nel 2017. Ecco lo “scostamento tettonico” di cui parla il Wall Street Journal. Solo nel secondo trimestre, la Cina ha attratto flussi di investimenti netti per 61 miliardi di dollari, il triplo di quanto intercettato a livello trimestrale nel 2014. Tutti gli altri mercati emergenti, in contemporanea, hanno vissuto un outflow netto di capitali per il 2018 nella sua interezza pari a 45 miliardi di dollari.
Insomma, Pechino in versione sanguisuga di investimenti altrui. E anche se il nuovo corso della Fed potrà portare nel corso di quest’anno a un indebolimento, anche sensibile, del dollaro, quei Paesi si troveranno comunque costretti ad affrontare una lotta impari contro Pechino per accaparrarsi i capitali di investimento esteri, oltretutto entrando in una fase recessiva o pre-recessiva a livello globale. Ed ecco l’aspetto di maggior americanizzazione in corso. Se il mercato obbligazionario cinese verrà subissato da capitale estero, questo servirà a finanziare i deficit senza far sedimentare pericolosi ammontare di debito denominato in valuta estera. Esattamente, la stessa dinamica statunitense fino a ieri. Tanto che per Morgan Stanley gli inflows esteri necessari alla Cina per far funzionare questo schema sono pari, nel lungo periodo, a 760 miliardi di dollari, per Goldman Sachs a 1 trilione entro il 2022 e per Ubs addirittura 3 trilioni entro la fine del 2020.
Insomma, anche le grandi banche d’affari paiono navigare a vista, spiazzate da questo cambiamento epocale avvenuto silenziosamente e in tempi rapidissimi. Tanto che il Wall Street Journal conclude così la sua inchiesta: “Gli investitori americani la scorsa settimana si sono focalizzati sulla sorprendente notizia del calo delle aspettative di Apple sul mercato cinese, arrovellandosi rispetto a cosa augurarsi per i mesi a venire. Ma nel lungo periodo, ciò che realmente interesserà i mercati globali sarà la grande crescita della domanda di consumi cinese, il grande calo del risparmio di Pechino e l’enorme incremento delle necessità cinesi verso capitali esteri”.
Insomma, un mondo nuovo. Cui non sembriamo preparati. Oppure la guerra commerciale scatenata da Donald Trump, apparentemente solo per fini propagandistici legati al concetto di America first e ancora in fase autolesionistica, sottende una strategia più sottile e decisamente strategica?
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