A 20 anni di distanza dal primo insediamento di Hugo Chavez alla Presidenza della Repubblica Bolivariana del Venezuela, vi sono senz’altro le condizioni per trarre un significativo bilancio di un processo politico che ha segnato profondamente il destino del Paese caraibico e dell’intero sub-continente latino-americano, un processo che in una prima fase non aveva mancato di diffondere grandi speranze di riscatto in buona parte dei Paesi del sud del mondo ma che oggi vive un momento di crisi dai contorni così inquietanti e drammatici al punto da rischiare di compromettere in modo irreversibile la credibilità dell’intera esperienza storica del cosiddetto socialismo del XXI secolo.

A queste latitudini, qui in Europa, si registra una diffusa e generale difficoltà ad inquadrare con obiettività di giudizio le caratteristiche salienti del processo politico bolivariano, giacché dalle nostre parti prevalgono in modo schiacciante due opposte tendenze, entrambe di segno ultra-radicale, tra loro non comunicanti e paradossalmente complementari l’una all’altra.

Un primo atteggiamento, ampiamente impostosi in tutti i canali comunicativi del “politicamente corretto” dominanti in occidente, tende a demonizzare alla radice l’intera vicenda del socialismo venezuelano, relegandola nell’ambito del caudillismo alla sudamericana o comunque inquadrando tale esperienza politica nella categoria concettuale – al tempo stesso semplicistica e fuorviante – di dittatura. Una seconda tendenza, alquanto minoritaria in termini assoluti ma non trascurabile per l’influenza indiretta che essa ha esercitato sul processo politico in discorso, è riconducibile a quel poco che in occidente residua delle vecchie correnti marxiste-leniniste, i cui epigoni si sono illusi di potere finalmente riscattare la tragica sconfitta del comunismo novecentesco, investendo nuove energie emotive nel chavismo venezuelano, pensando di trovare in esso, dopo i tristi anni successivi al crollo del Muro di Berlino, un nuovo motore etico atto a ri-alimentare la mai del tutto spenta fiamma utopica del sol dell’avvenire.

Chi scrive ha avvertito a lungo un notevole interesse attrattivo verso l’intera vicenda politica del socialismo bolivariano, inaugurata da Hugo Chavez alla fine del secolo scorso e vi si è accostato con la viva speranza di trovarvi un nuovo laboratorio politico capace di ripensare l’idea stessa e la pratica del socialismo nonché con l’auspicio di cogliervi soprattutto degli elementi di decisiva innovatività e discontinuità rispetto alle ideologie egualitarie affermatesi nel secolo passato.

Diverse esperienze di viaggio nel sub-continente latino ed una pluriennale attività di studio e di contatto diretto con la società e con gli ambienti filo-governativi del Venezuela bolivariano hanno posto lo scrivente – dopo anni di generosa apertura di credito al chavismo – nelle condizioni di addivenire oggi, suo malgrado, ad un convincimento di amara disillusione nei confronti di un processo politico così polarizzante e per certi versi seducente.

Non è di secondaria importanza precisare doverosamente che, a prescindere dal giudizio netto su alcune caratteristiche più che discutibili del regime politico-militare incarnato dall’attuale Presidente Nicolas Maduro Moros, resta in ogni caso intangibile il diritto del popolo venezuelano di costruire il suo futuro in condizioni di libertà, sovranità ed autonomia rispetto a qualsiasi intervento di destabilizzazione esterna, a cominciare dalle esplicite minacce di invasione che ultimamente provengono dai Governi dell’ultradestra insediatisi al potere nelle nazioni vicine, con lo scontato supporto degli USA che da sempre considerano quella parte del mondo come il proprio “cortile di casa”.

Juan Guaidó si autoproclama presidente del Venezuela

Operando una lettura combinata di tutti gli aspetti salienti e per molti versi contraddittori di questo ormai lungo processo, è triste giungere alla conclusione di dovere affermare che il socialismo venezuelano ha purtroppo tradito una buona parte dei suoi propositi ed oggi non può più costituire un modello positivo di giustizia e di benessere per i popoli oppressi di tutto il mondo.

Cionondimeno, si tratta di un processo politico che, almeno in una sua prima fase, è stato contraddistinto da alcuni elementi estremamente positivi e che dunque, anche solo per tale ragione, merita senz’altro di essere analizzato in tutte le sue sfaccettature controverse, con l’obiettivo di provare a capire che cosa non ha funzionato in Venezuela alla luce della drammatica situazione in cui oggi versa il Paese che dette i natali al Libertador Simon Bolívar, un personaggio passato alla storia quale nemico giurato del colonialismo ispanico.

Una vista dei quartieri popolari di Caracas

I grandi ed indiscutibili meriti del processo politico bolivariano: sovranità nazionale, funzione “sociale” del petrolio, integrazione latino-americana, anti-imperialismo

La presa del potere a Caracas da parte di Hugo Chavez, a cavallo fra il 1998 e il 1999, ha simboleggiato per l’intero continente di Neruda e Garcia Marquez la più grande sfida di discontinuità storico-politica rispetto alla lunga notte neo-liberista vissuta per alcuni decenni dall’America Latina fin dall’avvento delle dittature militari negli anni ’50, ’60 e ‘70 del novecento e per tale ragione è naturale che il chavismo abbia suscitato una grande ondata di legittime speranze fra tutti i popoli non solo del continente ma, più in generale, del sud del mondo.

Ex ufficiale paracadutista dell’esercito venezuelano – un esercito che, a differenza di molti altri eserciti della regione, ha storicamente avuto una composizione sociale prevalentemente popolare anche nei suoi ranghi più alti – Chavez, autore di un fallito tentativo di colpo di Stato nel 1992 ai danni dell’allora Presidente in carica Carlos Andrés Pérez, riesce in pochi anni a fare coagulare attorno a sé tutti i migliori sentimenti e le aspirazioni di riscatto delle fasce sociali medio-basse del suo Paese, fino a quel momento escluse dal godimento dei profitti della “Venezuela saudita”.

Di formazione politico-culturale eclettica, Chavez elabora una ideologia dal carattere originale e composito, che attinge tanto al panamericanismo di Simon Bolívar quanto all’umanesimo socialista di ispirazione massonica caro a Giuseppe Garibaldi e a Salvador Allende. Innegabili influenze sulla formazione politica di Chavez provengono altresì dal pensiero di Antonio Gramsci e dalla prassi rivoluzionaria di Ernesto “Che” Guevara e Fidel Castro.

Cuba rivoluzionaria, la piccola isola che da decenni resiste ad un crudele embargo degli USA, per Chavez costituisce un esempio di dignità ed un prototipo da emulare soprattutto sotto il profilo dell’indipendenza nazionale e della lotta all’imperialismo a stelle e strisce. E proprio a partire dagli accordi di mutua assistenza con la Cuba di Fidel – petrolio in cambio di medici – Hugo Chavez, poco dopo essersi insediato alla Presidenza del suo Paese, inizia a costruire sapientemente il suo modello di integrazione politica latino-americana attorno ai principi generali di cooperazione, equità e solidarietà.

Nei suoi scritti economici, il “Che” Guevara aveva a suo tempo denunciato la maledizione dei Paesi dell’America Latina, storicamente condannati a programmare le loro economie non in base ai propri bisogni interni bensì in rapporto agli appetiti famelici dei loro Paesi dominanti, che fin dall’epoca del colonialismo ispano-portoghese avevano imposto a ciascuno di quei territori un modello “rentista” o mono-culturale, tutto basato sulla estrazione a costo zero di materie prime di cui il sottosuolo del continente era (ed è tuttora) ricchissimo e grazie al cui prelievo forzoso sarebbero state edificate le basi dello sviluppo industriale e capitalistico dell’Occidente.

Fin dal suo esordio alla Presidenza del suo Paese, uno dei principali meriti politici di Hugo Chavez è stato quello di sottrarre il controllo dell’oro nero del Venezuela a quella ristretta borghesia compradora fortemente compromessa col capitalismo a stelle e strisce e che per decenni, dopo essersi appropriata della rendita petrolifera, era stata abituata a delocalizzare sistematicamente i suoi profitti a Miami, umiliando il Paese estrattore con delle infime royalties e con dei contratti-capestro.

Fino a quel momento, gli immensi giacimenti petroliferi – che secondo alcune stime farebbero del Venezuela la prima riserva mondiale di greggio – non avevano mai consentito al Paese di trarre risorse per investimenti sociali e allora Chavez, fin dall’inizio del suo mandato presidenziale, mostra un evidente cambio di passo con degli interventi dal significato oggettivamente radicale: anzitutto sottopone la compagnia petrolifera PdVSA (Petróleos de Venezuela, S.A.) al totale controllo dello Stato, investendo per la prima volta immani risorse nell’avvio di missioni sociali funzionali al miglioramento della qualità della vita delle fasce più povere della popolazione.

Al contempo, facendo un abile gioco di sponda con l’iracheno Saddam Hussein e col libico Muʿammar Gheddafi, Chavez riesce rapidamente a condizionare in modo decisivo la linea politica dell’OPEC, imponendo una generale restrizione dei volumi di estrazione del greggio ed il conseguente rialzo generalizzato dei prezzi della materia prima sul mercato globale.

In compagnia di un indigeno alfabetizzatosi con la Mision Robinson nella regione del río Orinoco (foto del 2007)

Destinare la rendita petrolifera alla spesa assistenziale finalizzata ad appianare le gravi diseguaglianze sociali del suo popolo ha costituito indubbiamente l’atto maggiormente rivoluzionario compiuto da Hugo Chavez lungo il suo percorso di Presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela. I grandi interventi nel settore sociale che nei primi anni duemila prendono il nome di misiones sono funzionali, tra le altre cose, a fornire servizi sanitari anche nei barrios più poveri delle grandi città del Paese nonché ad alfabetizzare milioni di venezuelani, compresi quelli dei gruppi indigeni che fino all’avvento del chavismo spesso non risultavano finanche censiti dallo Stato e non godevano di alcun diritto civile o politico.

La nuova Costituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela, approvata nel 1999 e fortemente voluta da Chavez, contiene sulla carta alcuni principi inediti che possono fare da insegnamento anche alle democrazie più avanzate, essendo fondata su una netta ripartizione fra diversi poteri e avendo contemplato dei molteplici strumenti di partecipazione democratica diretta del popolo alle scelte più decisive per il Paese, tra cui si segnala l’istituto del referendum revocatorio, che consente perfino una eventuale interruzione anticipata della carica di Presidente della nazione, appena dopo il raggiungimento della metà della durata del suo mandato, mediante il ricorso ad una consultazione popolare indetta dal basso.

Inoltre, la nuova carta costituzionale contempla l’intangibilità di Madre Natura quale soggetto (e non più oggetto) titolare di diritti e sancisce il diritto sacrosanto di conservare la propria identità etno-culturale a tutte le comunità di nativi amerindi presenti nel Paese, facendosi così portatrice di un generale messaggio di rinascita dell’orgoglio indigeno sopito da secoli di sottomissione ai conquistadores ed ai gringos.

Il primo decennio del chavismo è contrassegnato da un risveglio delle coscienze del popolo venezuelano e da una straordinaria voglia di partecipare a riscrivere la storia del proprio Paese da parte di milioni di persone fino ad allora del tutto escluse dalla scena politica ed incapaci perfino di intendere lo stesso concetto di cittadinanza: solo gli osservatori più prevenuti possono avere fatto finta di non accorgersi della reale genuinità che ha connotato i primi anni del processo politico bolivariano, contraddistinti da un fermento rivoluzionario autentico, che lo stesso scrivente ha toccato con mano nel corso dei suoi viaggi in Venezuela, restandone ammirato ed anche profondamente emozionato.

Nel campo geopolitico, la costruzione dell’ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América), il cui stesso acronimo simboleggia icasticamente la presa di distanza dalla tradizionale zona di cosiddetto libero commercio (ALCA) da sempre egemonizzata da Washington, ha costituito uno dei principali bastioni della politica estera di Hugo Chavez, il cui carisma straordinario gli ha consentito in poco tempo di favorire la creazione di uno zoccolo duro di Paesi fortemente connessi da una comune idea di integrazione politica regionale all’insegna della definitiva emancipazione dal giogo imperialista yankee: in pochi anni, a Cuba e al Venezuela si sono presto unite la Bolivia guidata dal lìder sindacale cocalero Evo Morales, l’Ecuador condotto dall’economista Rafael Correa, la Nicaragua sandinista, l’Honduras di Manuel Zelaya oltre ad altri piccoli Stati insulari caraibici.

Poco prima della sua morte – quasi certamente avvenuta per avvelenamento radioattivo messo in atto da non bene identificati servizi segreti di qualche Paese nemico – Chavez è riuscito a portare a compimento la gestazione di un nuovo grande organismo politico di integrazione regionale, la CELAC (Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños), il cui primo storico vertice si è tenuto a Caracas nel dicembre 2011 e la cui nascita ha costituito un primo passo verso la possibile materializzazione del sogno di costruire un’unica Patria grande, un progetto già coltivato da Simon Bolívar e dal Che Guevara e concepito come punto di arrivo dopo 200 anni di battaglie dei Paesi latino-americani per sottrarsi alla dottrina Monroe imposta da Washington.

Al fine di contrastare l’argomento più ossessivo e ricorrente nella narrazione anti-chavista diffusasi tra i canali mediatici di tutto l’occidente, è bene precisare che l’intera fase iniziale del processo politico bolivariano, a partire dalla prima ascesa di Chavez a Palazzo Miraflores e fino alla sua ultima ri-elezione dell’ottobre del 2012, è stata caratterizzata da un ampio processo di partecipazione attiva e di consenso democratico espresso con convinta adesione da una significativa maggioranza del popolo venezuelano. Per trovare la conferma più inoppugnabile dell’altissimo grado di consenso di cui il “Comandante” Chavez effettivamente godeva nel Paese, merita senz’altro di essere ricordato l’episodio del rapido golpe militare consumatosi ai suoi danni nell’aprile del 2002, durato appena due giorni anche a causa dell’ampia mobilitazione popolare subito registratasi nel Paese e che vide una grande massa di persone stringere d’assedio i golpisti asserragliati nel Palazzo Presidenziale a Caracas e rivendicare con forza il pronto rientro in sella del loro legittimo Presidente.

I limiti ideologici e applicativi del socialismo bolivariano: le espropriazioni, il disincentivo alla produzione, gli abusi di potere dei militari, la corruzione endemica, l’uso clientelare e nepotistico delle risorse del Paese. L’uso disinvolto del cambio e la sopravvalutazione del bolívar. L’iper-inflazione stellare.

Nonostante il pensiero politico di Hugo Chavez si sia contraddistinto per una dichiarata presa di distanza dalla dottrina ortodossa del marxismo-leninismo, il processo rivoluzionario bolivariano, dopo i primi anni contraddistinti da una positiva e necessaria distribuzione “a pioggia” dei proventi del greggio in chiave assistenzialistica, in quanto finalizzata a contrastare la povertà più estrema di una parte significativa della popolazione, ha poi miseramente fallito in tutti i suoi principali obiettivi strategici nel campo dello sviluppo socio-economico del Paese. Senza sapere approfittare finanche della lunga congiuntura favorevole connessa al generale rialzo delle quotazioni del petrolio, il cui prezzo è rimasto stabilmente sopra gli 80 dollari al barile fino al novembre 2014, consentendo così a Caracas di disporre per almeno un decennio di cospicue entrate in valuta forte, il Governo chavista non ha mai messo in campo alcuna seria misura per provare a debellare il vero cancro comune a tutti quei Paesi la cui economia, come quella del Venezuela, si basa su un modello “rentista”: la dipendenza dalla estrazione della materia prima quale unica risorsa del proprio modello di sviluppo.

Nonostante i mille proclami in tal senso, i Governi a guida socialista non sono mai riusciti ad attuare una diversificazione delle attività produttive del Venezuela ed anzi, attuando una massiccia politica di disincentivo al lavoro delle piccole e medie imprese in tutti i principali settori produttivi del Paese, hanno determinato una contrazione drammatica del prodotto interno lordo, con la conseguenza che la classe media è progressivamente scomparsa e col paradosso per cui oggi i venezuelani conducono in media un tenore di vita clamorosamente più basso di quello che si ricordi anche negli anni più bui della notte neo-liberista dell’America Latina e con una diffusa scarsità di prodotti di prima necessità che oggi forse non si riscontra nemmeno a Cuba, che pure è un Paese ininterrottamente sotto embargo da più di mezzo secolo.

Discorso in pubblico di Hugo Chavez nel corso della trasmissione televisiva popolare “Alò Presidente” del 28 luglio 2007

Nel settore agricolo, dopo i primi anni in cui si è attuata una giusta riforma agraria basata sullo smembramento dei latifondi improduttivi e mono-colturali, con un grande impatto specie nelle ampie pianure fertili de los llanos (la zona centrale del Venezuela), si è poi presto affermata una deriva ideologica di tipo estremistico-velleitario che ha condotto ad una espropriazione generalizzata delle terre anche di media dimensione, al fine di affidarne la conduzione ad improvvisate cooperative di lavoratori che non si sono mai realmente dimostrate all’altezza del loro compito e i cui incarichi di direzione sono stati troppo spesso affidati obbedendo unicamente a meri criteri di fedeltà politica. Il risultato di questo tipo di gestione è stato quello di avere fatto precipitare i numeri della produzione agricola anche per quanto attiene ai più tipici beni alimentari storicamente necessari a sostenere la dieta basica dei venezuelani: riso, farina di mais, frutta, verdura, polli d’allevamento, uova, caffè.

Parallelamente, nel settore industriale, un’analoga degenerazione demagogica del chavismo (nel segno del collettivismo spinto) ha condotto negli anni ad una diffusa e capillare occupazione delle fabbriche e degli opifici privati di piccole, medie e grandi dimensioni da parte di settori disinvolti delle forze armate, i quali, arrogandosi il diritto di agire sempre e comunque nell’interesse del “pueblo” e contro l’odiata borghesia nazionale, si sono molto spesso impadroniti con modalità arbitrarie e violente dei mezzi di produzione, lasciandoli cadere quasi sempre e molto presto in malora, facendo così crollare la produzione anche in quei settori nei quali prima del chavismo il Venezuela riusciva tranquillamente a soddisfare il suo fabbisogno interno, raggiungendo perfino l’obiettivo di esportare una discreta quantità di merci all’estero: ferro, acciaio, automobili, caffè.

Jorge Giordani, ex Ministro di Chavez, figlio di un combattente italiano nella guerra civile spagnola

Ma l’aspetto più inquietante di questo fallimento economico di dimensioni catastrofiche non risiede tanto nei consueti limiti attinenti allo sviluppo insufficiente dei mezzi di produzione, che le economie di tipo centralizzato e pianificato avevano già palesato in tutte le esperienze del cosiddetto “socialismo reale” novecentesco, dall’Unione Sovietica alla Cina maoista, passando per la Cuba castrista. Nel caso del Venezuela, il crollo dell’economia in questi ultimi tre-quattro lustri ha presentato degli aspetti del tutto specifici e che possono apparire clamorosi e inquietanti se si pensa che in questo stesso periodo nel Paese si è sempre registrata una grande disponibilità di divisa forte (il dollaro). In sostanza, per tutto il periodo dell’era chavista – o per lo meno fino a quando non si è registrato il primo sensibile calo mondiale del prezzo del greggio, vale a dire a partire dal 2015 – fiumi di petro-dollari hanno incessantemente e regolarmente fatto ingresso nel Paese in dimensioni sempre cospicue ma a tutto ciò non ha mai fatto seguito alcuna seria politica di investimenti per il rafforzamento delle basi produttive dell’economia venezuelana.

Al contrario, con l’incremento delle esportazioni petrolifere (che, secondo i dati del 2012 e del 2013, costituivano il 95% del totale delle esportazioni) e con l’aumento dell’ingresso di petro-dollari nel Paese, i Governi a guida socialista, anziché approfittarne per implementare un processo di potenziamento e di diversificazione dei settori produttivi, hanno finito per accentuare oltre ogni limite il tradizionale carattere “rentista” dell’economia venezuelana, legandone le sorti in modo irreversibile alla ciclicità dell’andamento del prezzo degli idrocarburi.

Gli effetti di questa politica si sono percepiti in tutta la loro drammaticità a partire dal 2015, quando il prezzo del petrolio ha subito una prima repentina frenata, comportando una drastica riduzione dell’ingresso di valuta forte nel Paese e con delle conseguenti ed inevitabili riduzioni della capacità di acquistare tutti gli altri principali prodotti che il Venezuela è sempre stato costretto ad importare dall’estero, in proporzioni sempre maggiori man mano che la produzione interna è crollata. E proprio dal 2015 in poi, la scarsità di prodotti sugli scaffali dei supermercati del Paese si è manifestata in modo sempre più crescente ed irrimediabile.

Per quanto il Governo di Maduro si sforzi ogni giorno, tramite i suoi mezzi di propaganda, di giustificare tale situazione attribuendone l’intera responsabilità alla “guerra economica” orchestrata dall’odiato imperialismo yankee, in realtà, il sistema di sanzioni internazionali avviate dall’Amministrazione Obama e inaspritesi con l’avvento di Trump alla Casa Bianca, pure avendo avuto un indubbio impatto sugli investimenti diretti di capitali esteri nel Paese, non è affatto sufficiente a spiegare la gravissima penuria di beni alimentari, medicinali e strumenti tecnologici che affligge l’economia del Venezuela.

Infatti, sotto un primo profilo va detto che il sistema di sanzioni non ha comunque impedito fino a poco tempo addietro alle grosse banche d’affari statunitensi (prima fra tutte la Goldman Sachs) di investire copiose somme nell’acquisto di buoni obbligazionari emessi dalla compagnia petrolifera di Stato PdVSA, un elemento che smaschera tanto l’ipocrisia del capitalismo a stelle e strisce quanto quella della retorica anti- imperialista così tanto sbandierata dal Governo di Caracas. Inoltre, sebbene con il recente inasprimento delle sanzioni deciso dalla Casa Bianca nel 2018, l’acquisto di titoli del colosso petrolifero di Stato venezuelano sia stato per la prima volta interdetto agli investitori nordamericani, pur tuttavia nessun embargo commerciale petrolifero è mai stato decretato da Washington verso Caracas.

D’altro canto, sono gli stessi numeri sul volume delle importazioni ed esportazioni verso l’estero – diffusi dagli stessi organismi statistici ufficiali almeno fino a quando il Governo Maduro non ne ha imposto il divieto di pubblicazione – a smentire la narrazione retorico-propagandistica che punta ad individuare nella “guerra economica” perpetrata dall’imperialismo l’unica causa del crollo dell’economia del Paese.

La verità è che, come bene argomentato da uno studio a cura dell’economista marxista Manuel Sutherland, da quando il Governo bolivariano ha assunto nel 2003 il controllo monopolistico del sistema del cambio e della gestione dei petro-dollari che fanno ingresso nel Paese grazie alle copiose entrate per l’esportazione del greggio, in Venezuela ha preso piede un mastodontico sistema criminale di rapina delle ricchezze nazionali fondato su un’artificiosa sopravvalutazione della moneta nazionale (il bolívar) e su un gigantesco meccanismo di importazioni fraudolente e fittizie di merci prodotte all’estero.

In sostanza, da quando vi è un organismo pubblico centralizzato (chiamato CEVIX o CADIVI) che ha assunto su di sé l’intera gestione del cambio dei dollari necessari per accedere al mercato delle importazioni di beni dall’estero, il Governo centrale ha consentito soltanto ad un ristretto ambito di società riconducibili agli ambienti militari o filo-governativi di accedere liberamente alla moneta forte. La divisa estera è sempre stata fornita a tale ristretta cerchia di società autorizzate con un rapporto di cambio alterato che in questi anni ha sopravvalutato la quotazione del bolívar spesso anche di 100 volte rispetto al suo valore di mercato (per fare un esempio, se in un certo periodo sui mercati internazionali delle valute il rapporto di cambio fra bolívar venezuelano e dollaro USA veniva stimato all’incirca in 1.000 a 1, gli organismi governativi, almeno fino a febbraio del 2018, si sono accontentati, bontà loro, di soli 10 bolívar per ogni dollaro consegnato nelle mani degli enti para-governativi addetti all’attività di importazione di beni dall’estero).

Una volta che tali importatori hanno acquisito i dollari ad un cambio preferenziale e privilegiato, quella valuta forte, ufficialmente necessaria per pagare le merci che si dovrebbe importare dall’estero, ha finito in realtà per alimentare un circuito vorticoso e perverso con cui gli stessi importatori filo-governativi sono troppo spesso riusciti ad occultare clandestinamente sia la valuta che le stesse merci importate (ovvero una parte considerevole di esse): attorno a questo immenso meccanismo perverso di frode valutaria ha ruotato per anni – e tuttora ruota – un sistema che ogni giorno sottrae ricchezza al Paese caraibico e con cui si realizza una continua ed irrefrenabile fuga dei suoi capitali verso l’estero!

Grafico che dimostra la vertiginosa espansione della massa monetaria circolante in Venezuela fra il 1999 e il 2016. Fonte: Banca Centrale del Venezuela – Elaborazione a cura del Centro de Investigación y Formación Obrera (CIFO-ALEM)

Il meccanismo alla base di tale gigantesca attività fraudolenta è estremamente semplice da afferrare: se la moneta venezuelana viene scambiata sui mercati ad un valore reale spesso anche di 100 volte inferiore a quello con cui viene scambiata dagli organismi governativi, tutti coloro i quali sono nelle condizioni di mettere le mani sulla rendita petrolifera, una volta ottenuti i dollari col sistema del cambio preferenziale, ne investono effettivamente solo una parte nell’attività di importazione e al contempo, aiutandosi con delle sovra-fatturazioni di merci fittizie e mai effettivamente acquistate, occultano facilmente delle grandi quantità di valuta forte trasferendole nei paradisi fiscali ovvero alimentando l’enorme mercato nero del dollaro all’interno degli stessi confini del Venezuela.

Per un qualsiasi visitatore straniero che tocchi il suolo del Venezuela è estremamente semplice rendersi conto di quanto sia ampio e diffuso il sistema del cambio in nero del dollaro nel Paese, in quanto appena sbarcati nell’area dei voli internazionali dell’aeroporto La Maiquetia nella capitale Caracas, si viene letteralmente assaliti da vivacissimi agenti del cambio in nero che offrono disinvoltamente bolívar in cambio di dollari o euro secondo un rapporto di cambio molto distante da quello ufficiale. Pertanto, da quando nel Paese si è diffusa la pratica governativa di sopravvalutare artificiosamente il bolívar, il traffico di valuta è diventato di gran lunga il business più redditizio per chiunque, attore piccolo o grande dell’economia nazionale, riesca a venire in possesso di una certa quota della rendita petrolifera incamerata dal Venezuela.

Tale fenomeno ha acquisito negli anni delle dimensioni impressionanti ed incontrollabili ed il suo principale effetto nefasto sull’economia del Paese è costituito dal generale disincentivo verso l’avvio di qualsiasi genere di attività produttiva all’interno dei confini del Venezuela.

L’ex ministro per la Pianificazione economica, l’ingegnere di chiare origini italiane Jorge Giordani, grande amico di Chavez e dimessosi nel 2014 da ogni incarico governativo in polemica con Maduro, ha pubblicamente denunciato il furto, attraverso il meccanismo fraudolento sopra descritto, di almeno 25 mila milioni di dollari dall’organismo governativo CADIVI addetto alle operazioni di cambio su larga scala.

Oltre al mercato nero di valuta, vi è più di qualche indizio per sostenere che dell’enorme mole di beni alimentari, prodotti manifatturieri e medicinali che dovrebbero fare ingresso in Venezuela per mezzo del sopra descritto meccanismo di importazioni dall’estero, solamente una piccola parte di essi entra effettivamente nel Paese e prende delle vie d’ingresso legali per la vendita nel mercato interno ed a prezzi generalmente sussidiati, mentre una gran parte di essi va ad alimentare un formidabile e gigantesco contrabbando di merci vendute al mercato nero a prezzi molto più alti di quelli che il Governo si sforza inutilmente di imporre nelle catene di supermercati popolari gestiti dalle stesse autorità ma nei quali purtroppo scarseggia di tutto, dallo shampoo al dentifricio, dal sapone alla carta igienica.

Se tutto ciò non bastasse a descrivere il disastro di un’economia nazionale ormai strutturalmente e capillarmente fondata sul malaffare, sulla frode valutaria e sulla speculazione parassitaria, con un sistema di complicità e protezioni che purtroppo investe anche le sfere più alte del potere centrale, non si può omettere di menzionare altresì la disdicevole pratica della Banca Centrale del Venezuela consistente nell’essere ricorsa in questi anni in misura sempre più massiccia ed irresponsabile alla stampa di carta moneta priva di ogni copertura e valore reale. Secondo i dati statistici ufficiali forniti dalla stessa Banca Centrale del Venezuela, nel periodo compreso tra il 1999 e il 2016 la massa monetaria in circolazione nel Paese è cresciuta di circa il 33 mila per cento!

In tutti questi anni, l’immissione di una enorme massa di dinero inorganico nell’economia venezuelana in quantità esorbitanti è servita a sostenere una immensa spesa pubblica improduttiva (il numero dei dipendenti pubblici è aumentato in forme vertiginose) nonché a compensare l’enorme deficit fiscale del Governo. Sta di fatto che, a causa delle oggettive condizioni di collasso dell’apparato produttivo della nazione, tale enorme massa di liquidità ha finito inesorabilmente per alimentare un’iper-inflazione di dimensioni incontrollabili, che si è attestata per il 2017 a circa l’830% e che per i primi sei mesi del 2018 avrebbe raggiunto il 4.684,3%, un vero e proprio record mondiale.

Per l’intero anno 2018 non si dispone tuttora di dati certi ma stando alle stime del Fondo Monetario Internazionale per la fine dell’anno si prevedeva un’inflazione vicina ad un milione per cento su base annua!

La paralisi economico-produttiva del Paese, l’iper-inflazione, il crollo del valore reale dei salari, la generale impossibilità di procurarsi da vivere lavorando, unitamente al collasso del sistema sanitario nazionale ed alla diffusa scarsità di viveri e medicinali, con il conseguente e drammatico aumento di fenomeni come la mortalità neonatale e la denutrizione infantile, stanno oggi facendo vivere al Venezuela un esodo di proporzioni bibliche dei suoi cittadini verso l’estero, come non si era mai visto nella storia recente del Paese. Tale oggettivo fallimento avrebbe dovuto obbligare da tempo il Governo Maduro ad adottare delle misure in seria e reale discontinuità con le sue politiche economiche errate anziché attribuire semplicisticamente la responsabilità del crollo dell’economia ai nemici esterni al Paese (che esistono ma la cui presenza non è sufficiente, come detto, a giustificare i fallimenti dell’esecutivo nella gestione dell’economia).

Da questo punto di vista, in questi ultimi tempi, l’unica iniziativa di un certo rilievo riguarda l’adozione di una nuova cripto-moneta interamente virtuale, il petro, la cui copertura reale è data dal valore delle enormi risorse energetiche e minerarie di cui dispone il Paese e che nei piani del Governo di Caracas dovrebbe progressivamente soppiantare l’uso del dollaro USA nelle transazioni petrolifere, così consentendo la graduale de-dollarizzazione del Venezuela.

Tale ultima iniziativa, che sembra avere incontrato il sostegno interessato del governo russo e di quello cinese, è auspicabile che conduca nel medio periodo ad una graduale emancipazione del Venezuela dal suo rapporto perverso e destabilizzante con la moneta statunitense anche se ad oggi non è affatto facile prevedere se e come questo tipo di manovra monetaria possa di per sé risultare funzionale ad una ripresa generale dell’economia e possa soprattutto alleviare già nel breve periodo le gravi carenze alimentari e di medicinali che affliggono la società venezuelana.