L’odio innegabile degli Stati Uniti per la Repubblica Islamica
di LIMES (Federico Petroni)
Burocrazie e opinione pubblica americane coltivano una radicata repulsione per il regime iraniano, emblema del Male. L’oltraggio dell’occupazione dell’ambasciata Usa a Teheran non è dimenticato. Le componenti ideologiche ed emotive dell’ostilità.
Carta di Laura Canali
Il nemico è diventato il nostro capolavoro.
J.P. White, «Thinking about the Enemy»
1. Gli Stati Uniti intrattengono una latente rivalità geopolitica con l’Iran che l’ossessione per la Repubblica Islamica trascende in ostilità esistenziale. In quanto unica superpotenza, l’America è predisposta a contenere le ambizioni egemoniche mediorientali che periodicamente promanano dall’antica Persia.
Ma per il suo attuale regime prova un odio profondo e innegoziabile. Germinato all’alba stessa del governo degli ayatollah, con la crisi degli ostaggi all’ambasciata di Teheran nel 1979. E sedimentato negli anni Ottanta a colpi di rapimenti, attentati, sfide senza quartiere fra spie, feroce retorica antiamericana, guerra aperta nel Golfo in conseguenza dell’immane conflitto Iran-Iraq (1980-88), riavvicinamenti mancati se non proprio ustionanti – come lo scambio armi per ostaggi passato alla storia come scandalo Iran-contra e quasi costato a Reagan la presidenza.
Con l’incedere dei decenni, approcciarsi a Teheran è diventata opzione tossica, tabù, l’equivalente di un’arma chimica per la scena politica e amministrativa di Washington. Tale da impedire di affrontare la questione senza rischiare grosso in termini di consenso e senza presupporre un tono altamente bellicoso. Calcificando la reciproca inimicizia.
Quando parlano della Repubblica Islamica d’Iran, gli americani non lesinano le iperboli. Ogni anno dal 1984, con sole otto e peraltro mai casuali eccezioni, il dipartimento di Stato la descrive come «peggior sponsor del terrorismo» o variazioni sul tema 1. «È una grande civiltà, ma al potere ha anche un’autoritaria teocrazia antiamericana, antisraeliana, antisemita con cui abbiamo un’intera gamma di differenze reali e profonde», diceva nel 2015 Barack Obama dallo Studio ovale 2. Ritratto quasi coincidente con quello offerto dalla nemesi dell’allora presidente, l’influente senatore repubblicano dell’Arkansas Tom Cotton: «Questa è la minaccia che abbiamo di fronte: una tirannia teocratica con un impegno ideologico profondamente sedimentato a causare morte, caos e devastazione nei confronti degli Stati Uniti» 3.
Ideologia islamista, spregio dei diritti umani e della democrazia, odio per Washington e Israele, sostegno al terrorismo: così dipinto, il regime iraniano è il nemico per antonomasia. Bestia idealtipica per la demonologia a stelle e strisce. Profilo che concorre ad attribuirgli due patenti. Quella di attore malvagio e maligno – evil e malign sono forse i due aggettivi più impiegati nella rappresentazione americana – e come tale indegno di venire a patti con l’impero del bene americano.
E quella dell’irrazionalità. Quasi gli ayatollah si sottraessero alla regola che costringe l’operato di uno Stato nello spettro di opzioni compreso fra ampliare l’influenza e conservare sé stesso. Quasi bramassero la Bomba per scagliarla un attimo dopo su Israele, consegnandosi all’apocalissi nucleare. Non è estraneo a una nutrita schiera di analisti statunitensi attribuire, in piena sbornia induttiva, il seme dell’irrazionalità alla ricorrenza e alla glorificazione del martirio nell’immaginario sciita 4. Garantendo così circolazione alle parole del contestato storico Bernard Lewis, tuttora paladino dei circoli strategici più reazionari: «La classe dirigente dell’Iran è costituita da un gruppo di musulmani estremamente fanatici convinti che siano arrivati i propri tempi messianici» 5. Nella parafrasi senza appello del senatore repubblicano della South Carolina Lindsay Graham: «Penso che siano pazzi» 6.
L’accecante ostilità per il regime iraniano impedisce a una nazione già poco avvezza a mettersi nei panni altrui una dolorosa ma necessaria introspezione. Rovesciando la domanda, presupposto di ogni analisi geopolitica, «perché ci odiano?» in «perché noi odiamo loro?».
Per provare a fornire una risposta occorre prima fissare i contorni della rivalità fra le due potenze. Per cogliere come l’America non compete con la Repubblica Islamica perché la detesta. Né è necessariamente vero il contrario. Solo così si potranno individuare i fattori del disprezzo e le loro conseguenze geopolitiche.
2. Gli Stati Uniti rivaleggerebbero con l’Iran anche se la Repubblica Islamica non fosse mai esistita – o precipitasse nel baratro, come le augurano quasi tutti a Washington. La grammatica imperiale impone alla superpotenza di impedire l’ascesa di un egemone regionale che detti al Numero Uno la propria agenda in un consistente spicchio di globo. Obiettivo basilare che innesca inevitabili frizioni con l’anelito persiano a vedersi riconosciuto un ruolo appunto egemonico in Medio Oriente. In una regione di paesi senza Stato o di proprietà private di clan regnanti – con le eccezioni di Turchia e Israele – l’Iran è convinto di possedere la profondità demografica, culturale, storica, istituzionale e morale per plasmare i destini dei territori già nell’orbita degli imperi persiani. Tanto da percepirsi «perno dell’universo» – qiblat al-‘ālam, la direzione verso cui il globo prega – solo uno, neppure il meno modesto, degli innumerevoli titoli di cui si fregiava il trono del pavone 7. Altissima idea di sé frutto della percepita continuità fra i domini succedutisi sull’altopiano iranico nel corso dei millenni. Dal mitologico Gaiumart – primo uomo sulla Terra dunque primo re di Persia, nella narrazione del poeta nazionale Firdusi – a Mohammad Reza Pahlavi. Così lo scrittore Kader Abdolah immagina lo scià cagiaro Naser al-Din entrare trionfante nella Herat riconquistata agli inglesi nel 1856: «Pensava a Serse e alla sua felicità quando aveva sentito per la prima volta sotto i piedi il suolo d’Europa»8.
Tanta esuberanza, comune ai popoli ambiziosi, spinge a trascendere i confini e basta a qualificare chi la esprime come attore geopolitico primario – dunque a costringere Washington a (pre)occuparsene. Soprattutto, è una caratteristica costante della mentalità strategica iraniana, alimentata anche quando il paese apparentemente non dispone di sufficienti mezzi economici. Puntualmente scambiata per fanatismo, è sopravvissuta alla rivoluzione khomeinista, solo cambiando i vettori ideologici (alcuni, non tutti) della ricerca d’influenza. Così, per esempio, l’ultimo scià non diede mai priorità all’elemento sciita nella proiezione di Teheran, al contrario degli ayatollah. I quali tuttavia non sono stati i primi nella storia persiana a coltivare i rapporti con gli sciiti del Libano, preceduti dalla dinastia safavide in esplicita funzione antiottomana.
L’Iran non si è mai sentito alleato degli Stati Uniti. Può sembrare paradossale, vista la reciproca dipendenza fra le amministrazioni americane e Mohammad Reza scià – «Proteggetemi!», gli gridò Nixon nel 1972, prima che nel 1978 Carter brindasse al re dei re a capo di «una isola di stabilità in un mondo turbolento». Eppure, come dall’altra parte dell’Oceano, il termine alleato non è molto popolare nel lessico strategico persiano. Una lunga storia di invasioni da ogni punto cardinale ha inculcato nella mentalità iraniana una radicata diffidenza delle ingerenze straniere. Così, gli iniziali incontri ottocenteschi con gli americani – 1835, prima missione religiosa a Urmia; 1856, primo trattato commerciale; 1879, prima nave da guerra nel Golfo – erano funzionali ad appoggiarsi a una potenza terza, percepita come distante e disinteressata, per controbilanciare la progressiva perdita di sovranità per mano russa e inglese. Fino a fare di Howard Baskerville, presbiteriano del Nebraska insegnante all’American Memorial School di Tabriz, un eroe nazionale per il suo sacrificio nel 1909 nell’assedio della città durante la rivoluzione costituzionale, vicenda ricordata con un busto del missionario nell’edificio commemorativo della rivolta.
Allo stesso modo, fra l’ultimo scià e Washington vigeva una consensuale e vicendevole strumentalizzazione. Mentre Mohammad Reza Pahlavi riteneva un temporaneo avvicinamento agli americani propedeutico all’obiettivo di accrescere la statura internazionale del paese, per gli Stati Uniti un Iran indipendente scongiurava l’avanzata del panarabismo e dei sovietici in Medio Oriente. Fu solo lo spauracchio del comunismo agitato dai fratelli Dulles a convincere un altrimenti scettico Eisenhower 9 a dare il via libera all’Operazione Aiace di Cia e Mi6 che nel 1953 rovesciò il primo ministro Mossadeq, affronto tuttora vivo nella memoria persiana.
Washington tuttavia non abbracciava completamente i sogni di gloria del proprio «pilastro» del Golfo – titolo pudicamente esteso anche agli imbelli sauditi per non inquietare gli arabi circa un ritorno della Persia. Non casualmente il Pentagono ha sempre guardato con scetticismo la noncuranza con cui diplomatici e politici elargivano armi e assistenza bellica a Teheran, spinta fino alla carta bianca data da Henry Kissinger allo scià: «Le decisioni sugli acquisti di equipaggiamento militare dovrebbero essere lasciate primariamente al governo dell’Iran» 10. E quando il reggente del trono del pavone iniziò a vagheggiare un Oceano Indiano libero dalle superpotenze e osò intendersi con Saddam Hussein con gli accordi di Algeri del 1975 senza avvisare gli stupefatti americani, questi si convinsero della necessità di contenere Teheran. Suggerendo a Riyad di aumentare la produzione di petrolio per diminuirne il prezzo e prosciugare le casse iraniane 11. Identica richiesta ora avanzata da Washington ai sauditi. A riprova di come le strade delle due potenze avessero iniziato a separarsi già prima dell’avvento di Khomeini.
Oggi, facendo la tara all’ideologia e alla retorica del regime, è possibile riconoscere in filigrana la stessa ambizione a un ampio margine di manovra internazionale nell’indisponibilità di Teheran ad accettare un Medio Oriente americano. Nella convinzione – tipica di ogni attore troppo consapevole di sé – che da ogni postazione degli Stati Uniti possa scattare la definitiva guerra all’Iran. E nella recondita speranza di sostituirvisi o, al minimo, di usare la pressione come pedina di scambio. Perché se è vero che la Repubblica Islamica è l’attore che più può intralciare gli interessi americani in Medio Oriente, rovesciando la prospettiva è altrettanto vero che gli Stati Uniti sono il principale ostacolo che l’Iran deve superare per affermarsi nella regione.
Osservando la carta delle priorità di Washington nel quadrante, si può cogliere questo contrasto. Con le guerre nel Siraq e l’influenza in Libano, Teheran rivendica un ruolo maggiore di quello nel quale gli Stati Uniti la vorrebbero confitta, in ossequio al mantenimento di un equilibrio fra le quattro vere potenze regionali. È l’unico soggetto al mondo a essere contemporaneamente in condizione di ostilità verso gli americani e a incombere su un vitale collo di bottiglia: lo Stretto di Hormuz. A differenza della Russia con l’ancora poco rilevante Stretto di Bering, della Cina con l’aggirabile (finché Formosa resta al largo) Stretto di Taiwan e di una Cuba non più in grado di giocare un ruolo tra Florida e Yucatán. Sempre nel Golfo, Teheran può ravvivare le braci del dissenso delle maggioranze sciite discriminate in Bahrein, sede della V Flotta a stelle e strisce, e nel forziere petrolifero della costa Est saudita. Infine, tramite i soci libanesi e palestinesi, preme su Israele e, tramite quelli yemeniti, su Riyad.
3. Rivaleggiare non implica odiarsi. Soprattutto, non preclude la possibilità di accomodare interessi e strategie. Specie per gli americani, le cui equazioni inevitabilmente tracimano i confini del Medio Oriente. Men che meno sono argomenti ideologici a innestare i tralci dell’inimicizia. Anche nell’approccio all’Iran, la superpotenza subordina l’ideologia a considerazioni di carattere tattico. Attingendovi come espediente narrativo, a volte inconsciamente, per corroborare una decisione.
Così fu puramente occasionale il famigerato inserimento di Teheran nell’asse del male da parte di Bush figlio, i cui speechwriters necessitavano di un terzo paese oltre a Iraq e Corea del Nord per dare ritmo alla solenne allocuzione presidenziale 12. Così l’iscrizione nel 1984 al parzialissimo registro degli sponsor del terrorismo avvenne quando l’inerzia della guerra Iran-Iraq sembrava spostarsi in favore del primo e, per assicurarsi che i due belligeranti continuassero a dissanguarsi a lungo, Washington decise di colpire la Repubblica Islamica con le sanzioni permesse per legge dall’attribuzione di questa etichetta 13. E così le amministrazioni americane smorzano i toni negli stessi bollettini quando trattano con le controparti iraniane, come nel 1998 fra Clinton e Khatami e nel 2014 fra Obama e Rohani. Allo stesso modo, è evidente il rapporto causa-effetto tra la rivalità geopolitica con Teheran e le accuse di teocrazia, autoritarismo e violazioni dei diritti umani. Altrimenti non si spiegherebbe perché gli Stati Uniti ignorino la presenza di elementi pluralistici nel sistema politico iraniano, ben più numerosi e solidi che presso soci consolidati come le petromonarchie arabe.
Sarebbe tuttavia irresponsabile derubricare come mera propaganda queste esternazioni. Perché l’intensità, l’assolutezza e l’intransigenza con cui vengono pronunciate conducono dritte ai fattori dell’ostilità americana e della sua persistenza. Riassumibili in due categorie: le cicatrici psicologiche e l’affinità per Israele. Vediamole partitamente.
4. L’inimicizia dell’America per la Repubblica Islamica possiede una componente emotiva. Avvelenata eredità dell’umiliazione di essere stata tenuta in ostaggio dal novembre 1979 al gennaio 1981 assieme a 52 funzionari della sua ambasciata a Teheran. Nella più completa impotenza. E con la beffa del rilascio solo nel giorno in cui Carter, sconfitto alle elezioni anche per questo smacco, cedeva a Reagan la Casa Bianca. Unico caso nella storia, s’azzarda a suggerire qualche analista corroso dall’ira, in cui un nemico ha imposto agli Stati Uniti un cambio di governo.
Vale la pena seguire lo slancio di sincerità, non frequente fra i suoi colleghi, di un ex funzionario non certo in odor di colomba, Kenneth Pollack, alla Cia e al Consiglio di sicurezza nazionale prima di farsi campione dell’invasione dell’Iraq: «La crisi degli ostaggi ha lasciato una terribile cicatrice nella psiche americana. È un episodio così frustrante che la maggior parte di noi ha semplicemente preferito dimenticarlo, ignorarlo e minimizzarlo il più possibile. Tuttavia, pochi americani hanno mai perdonato gli iraniani. (…) Non ne parliamo mai apertamente, ma la rabbia residua che così tanti americani provano nei confronti dell’Iran per quei 444 giorni ha caratterizzato ogni decisione al riguardo da quel momento. Ogniqualvolta ha fatto qualcosa di malvagio – ed è capitato molto spesso – questa collera ha amplificato lo sdegno verso gli iraniani. Ogniqualvolta gli iraniani hanno tentato di fare aperture agli Stati Uniti – per quanto rare e problematiche – questa stessa rabbia ci ha spinto a fissare soglie molto alte. (…) Una delle ragioni per cui le varie amministrazioni sono state così reticenti a perseguire un riavvicinamento a Teheran è che questa rabbia latente è così volatile e può essere così facilmente riportata a galla da un oppositore politico che in pochi hanno voluto prendersi il rischio. (…) Se a un certo punto saremo in grado di risolvere le differenze politiche reciproche, dovremo affrontare anche questi ostacoli emotivi. (…) Gli americani dovranno imparare a gestire la propria collera» 14.
I luoghi del potere in cui tanta furia si sedimenta e si riproduce fino a tramutarsi in cultura sono le burocrazie federali. Ossia le agenzie governative cui spetta la difesa e l’esercizio quotidiano della supremazia statunitense. Nonché sorvegliare o aggredire le minacce all’America. Dalle Forze armate ai servizi segreti, passando per la diplomazia e financo per l’unità d’intelligence finanziaria del Tesoro 15, intere carriere di soldati, spie e funzionari sono state spese (o bruciate) con gli occhi fissi sulle controparti della Repubblica Islamica. Ognuno con il proprio peccato originale da imputare a Teheran.
I marines continuano a rinfacciare agli iraniani la paternità del più grave massacro della loro storia in un sol giorno dai tempi di Iwo Jima: l’attentato del 23 ottobre 1983 a Beirut che costò la vita a 241 di loro. Non è un caso che il generale in pensione (lo si è mai davvero?) Joseph Hoar stabilisca: «La verità è che siamo in guerra con l’Iran a corrente alterna dal 1979» 16. Né che l’attuale segretario alla Difesa James Mattis, anch’egli marine, sia stato licenziato da Obama dal vertice del Central Command perché continuava a ripetere che le sue tre priorità erano «Iran, Iran, Iran», reputandolo «non uno Stato nazionale, ma una causa rivoluzionaria votata al caos» 17. Le forze navali di stanza nel Golfo sono in stato di semibelligeranza da quando i pasdaran seminavano mine e attaccavano le petroliere negli anni Ottanta. Pure l’Aeronautica piange i suoi 19 morti e 372 feriti nell’esplosione alle torri di Khobar in Arabia Saudita del 1996. E l’Esercito ancora rivendica i circa 500 caduti e i mutilati a migliaia in Iraq per colpa degli speciali ordigni che dal 2005 i reparti speciali persiani iniziarono a fornire agli insorti per colpire i veicoli degli americani, così da affrettarne l’evacuazione della Mesopotamia. Nel ricordo del senatore Cotton, all’epoca alla guida di un plotone di fanteria: «I miei soldati e io avevamo a che fare ogni giorno con le bombe per strada, fatte e fornite dall’Iran. Cercavo di rassicurarli, ma non potevo far altro che dire loro di sperare che non fosse il nostro giorno di morire a causa degli ordigni dell’Iran» 18.
Infine, la Cia sconta una cronica difficoltà a penetrare gli arcana imperii persiani. Prima costretta dallo scià a curarsi solo dei comunisti, quindi con la sua rete clandestina ripetutamente obliterata dagli ayatollah 19. Sempre a Beirut, in un presunto attentato suggerito dagli iraniani contro l’ambasciata Usa il 17 aprile 1983, Langley perse otto agenti, fra cui la leggendaria spia Robert Ames. Il cui sostituto a capo della missione libanese, William Buckely, fu poi rapito e ucciso. «Il mio primo giorno alla Cia fu quello in cui esplose la bomba a Beirut», rammenta un’altra stella dell’agenzia, Gary Berntsen. «Odiavamo davvero tanto quella gente» 20.
La collera è moltiplicata dalla convinzione di averla sempre fatta passare liscia alla Repubblica Islamica per le sue malefatte. Di non aver mai davvero esatto la propria vendetta. Di aver subìto ripetute umiliazioni da quello che più d’uno Oltreoceano ritiene un piccolo paese insignificante. Non certo un nano. Ma pur sempre accostato nel bestiario dei nemici alla Corea del Nord, un gradino sotto Cina e Russia, uno sopra gli ineffabili jihadisti. Specchio di un relativo disinteresse per l’Iran, incomprensibile per un popolo invece convinto di essere al centro di qualunque macchinazione americana. Quando in realtà non è mai stato priorità programmatica di nessuna amministrazione. Nemmeno sotto Obama, che voleva impiegare il disgelo con Teheran a scopo tattico per traslare risorse e attenzioni verso il Pacifico. Lasciando a sé stesse le irredimibili mischie mediorientali.
5. L’altro elemento che incide sul disprezzo americano per la Repubblica Islamica è la rivalità fra quest’ultima e Israele. Nata relativamente di recente, addirittura dopo la completa rottura fra Washington e Teheran. Ma non per questo meno intensa, anzi. Ancora fino a fine anni Ottanta, dunque con già gli ayatollah al potere che ne chiedevano la cancellazione dalle mappe, lo Stato ebraico coltivava in segreto il rapporto con gli iraniani, per impedirne una sconfitta contro il comune nemico Saddam Hussein. Applicazione della dottrina della periferia di David Ben-Gurion che ingiungeva a Israele di contenere i paesi arabi che lo circondano con l’aiuto degli attori non arabi più esterni: «Con il proposito di erigere un’alta diga contro la marea nasserista-sovietica, abbiamo iniziato a stringere i nostri legami con diversi Stati al di fuori del perimetro del Medio Oriente: Iran, Turchia ed Etiopia», comunicava il padre della patria a Eisenhower in una lettera del 24 luglio 1958 21.
Quando però le armate di Saddam, ritenute le più formidabili della regione, furono letteralmente spazzate via nel 1990-91 dagli americani, gli israeliani realizzarono che la progressiva evaporazione della soggettività di Baghdad avrebbe finalmente permesso a Teheran d’immaginarsi egemone dallo Šaṭṭ al-‘Arab al Mediterraneo. Così mutarono sensibilmente narrazione. «Alla luce dell’attuale status militare dell’Iraq, oggi l’Iran gode di superiorità strategica e gli ayatollah sono impegnati ad appiccare incendi in ogni paese alla loro portata», scriveva nel 1993 con straordinario candore l’allora ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres. Aggiungendo: «L’Iran odierno – estremista fino all’insanità – vuole distruggere Israele e il processo di pace» 22. La firma di un laburista sull’atto di nascita dell’arcirivalità permette inoltre di rilevare come non sia stato il Likud di Netanyahu a inaugurare la lotta a tutto campo, solo portata dall’attuale premier a livelli parossistici.
Lo Stato ebraico deve assicurarsi che Washington non s’intenda con Teheran. Percependo che pagherebbe sulla propria pelle qualunque disgelo fra le due potenze, essendo sprovvisto della profondità strategica per sopportare anche i più lievi cambi direzionali del vento del deserto. Per garantirsi l’orecchio degli statunitensi, Israele conta sull’affinità fra le due nazioni, sorelle prima che alleate. E sugli intensi legami affettivi fra i due popoli, prima ancora che fra le istituzioni. La profonda empatia per lo Stato ebraico in America supera la semplice condivisione dei valori liberaldemocratici e il suggestivo parallelo fra il pionierismo della frontiera e il modo in cui i sionisti si sono innestati in una terra ostica. Per sfociare nel fondativo senso di missione divina, continuità del progetto di Dio sulla Terra. «Noi americani siamo il peculiare popolo prescelto, Israele dei nostri tempi», enunciava Herman Melville in Giacca bianca. Reciproco riconoscimento su cui gioca lo stesso Netanyahu: «Voi state con noi perché state con voi, perché noi rappresentiamo quella comune eredità di libertà che risale a migliaia di anni fa» 23, scandiva il primo ministro d’Israele alla folla in delirio di un congresso evangelico a Washington nel luglio 2017.
Proprio la ramificata influenza degli evangelici nella società e nella politica statunitense è una straordinaria risorsa per accertarsi che l’America non molli la presa sull’Iran. A conferma di come le comunità ebraiche Oltreatlantico contino molto meno nella strategia di pressione di Israele del sionismo cristiano. Specie ora che solo un quinto dell’elettorato evangelico non apprezza l’operato di Donald Trump 24. Vaste associazioni come Christians United for Israel (4 milioni di membri) e American Christian Leaders for Israel (Acli) hanno fatto campagna contro l’accordo nucleare con l’Iran, a favore del trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, mettendo pure a disposizione le proprie strutture di lobbying per garantire la nomina all’attuale segretario di Stato, Mike Pompeo, noto oppositore del patto con Teheran. Nella lettera dell’Acli a Obama nel 2015 echeggiano gli argomenti più apocalittici a proposito della Repubblica Islamica: «La prospettiva di un’arma nucleare iraniana è da sola la maggiore minaccia alla sicurezza nazionale dell’America. (…) Domani potremmo svegliarci con il regime più pericoloso del mondo in possesso dell’arma più pericolosa al mondo»25. L’ardore evangelico contro l’Iran non si spiega solo con la pur diffusa dottrina del dispensazionalismo sull’assalto a Israele dei suoi nemici, preludio al secondo avvento di Cristo. Certo, i più sfrenati esegeti della Bibbia 26 rilevano come Ezechiele (38:1-16) annoveri la Persia fra gli eserciti avversari che manifesteranno la gloria di Dio. Il vero manifesto del bisogno di parlare per Israele è però più semplicemente Isaia (62:1): «Per amore di Sion non rimarrò in silenzio».
Il Congresso è il luogo in cui confluiscono tali pressioni. Correttamente individuato da Israele come l’istituzione più potente e più ideologica d’America. I cui principali esponenti restano in carica decenni, ben più degli otto anni dei presidenti più fortunati. E hanno la facoltà di prendere iniziative sgradite all’esecutivo. Come l’Iran-Libya Sanctions Act, approvato nel 1996 su proposta del senatore democratico di New York Al D’Amato. Mettendo in difficoltà la Casa Bianca di Clinton, per la quale il doppio contenimento di Iraq e Iran non prevedeva niente di serio per il secondo. O come il fondo, più scenografico che altro, di 18 milioni di dollari per promuovere una sollevazione nella Repubblica Islamica imposto nel 1995 alla Cia dallo speaker (presidente) repubblicano della Camera Newt Gingrich. Furono proprio quelli gli anni in cui, sulla scia del «contratto con l’America» dello stesso Gingrich, l’Iran fece irruzione a Capitol Hill come priorità polemica. Da allora il Congresso, a prescindere dal partito dominante, ha sempre assicurato a Israele e all’elettorato a esso affine di demonizzare Teheran. Ben sapendo che la negativa opinione popolare di quest’ultima ondeggia da trent’anni fra il 79% e l’89% 27. E ben contento di ricevere le munifiche donazioni degli avversari della Repubblica Islamica, come i 960 mila dollari spesi dall’Emergency Committee for Israel per Cotton. Non solo dai filo-israeliani, se è vero che il senatore democratico del New Jersey Bob Menendez ha approfittato di 25 mila dollari nel 2013-15 versati dall’organizzazione dei Mojahedin-e Khalq, considerati «terroristi» dal regime di Teheran.
6. Gli Stati Uniti sono potenza troppo compiuta per farsi dettare l’agenda da un alleato. O per cedere alla collera dei ranghi inferiori delle burocrazie. Non faranno la guerra all’Iran perché così supplica Israele. Né perché lo disprezzano. Le agenzie federali non hanno mai approvato un bombardamento dell’Iran, nemmeno all’apice della pressione di Netanyahu, quando sembrava che la Bomba persiana fosse questione di settimane. Esemplare il segretario alla Difesa Mattis, favorevole a mantenere l’accordo sul nucleare che detestava e il cui spregio degli ayatollah non gli impedisce di scorgere che la priorità è ridurre la sfera d’influenza persiana, non rovesciare il regime.
Tuttavia, un conflitto geopolitico non è fatto solo di scelte strategiche. Rappresentazioni, narrazioni, incomunicabilità incidono sull’esito della partita. Magari non per discernere le fasi di debolezza e pericolosità dell’avversario. Bensì per fissare i termini del dibattito, immaginare contropartite dal nemico, scegliere occasione e tono per accomodare interessi e paranoie. L’odio degli Stati Uniti per la Repubblica Islamica offusca tutto questo. E quarant’anni di gesti mal interpretati, commenti smodati, ravvicinamenti offerti nel momento sbagliato da ambo le parti stanno lì a dimostrarlo. Washington sente davvero di averle provate tutte, venendo ogni volta respinta. Trova maniacali atteggiamenti che gli iraniani reputano perfettamente razionali. Non si spiega mai l’altrui operato facendo riferimento alla spiegazione del rivale, ma attingendo alla propria consolidata narrazione. Finendo per imbarcarsi in un soliloquio 28. «Non ci parliamo, quindi non ci capiamo», riconosceva nel 2011 il capo degli Stati maggiori riuniti, ammiraglio Michael Mullen. «Non volevo parlarci perché diventassero nostri amici. Volevo parlarci per evitare di sbagliare i calcoli, ciò che così spesso porta al conflitto», chiariva nel 2010 l’ex capo del Central Command, generale John Abizaid 29.
Barack Obama aveva genuinamente immaginato di passare alla storia come il presidente in grado di relativizzare e superare quest’odio. Riuscendo, dopo un primo rifiuto della Guida suprema Khamenei, a intavolare una trattativa solo sulla carta limitata a congelare – non risolvere – la questione della Bomba iraniana. Mentre il patto siglato nel 2015 doveva restituire a Teheran legittimità internazionale. Obama sottovalutava però la smodata reazione di burocrazie e Congresso, il cui coalizzarsi basta a far naufragare le svolte immaginate dagli inquilini della Casa Bianca. Solo gettando tutto il proprio peso sull’accordo sul nucleare e raffigurandolo come scelta fra la pace e la guerra il presidente riuscì a farlo approvare alle Camere e a prevaricare la lobby saudo-israeliana. Ma al costo di incarognire dibattito e avversari, infine riusciti a ottenere l’abiura di Trump, approfittando dell’estensione dal 2016 in poi dell’influenza iraniana nel Siraq. Beffa del contrappasso: colui che voleva chiudere la parentesi dell’inimicizia ha finito per essere messo egli stesso fra parentesi. Assieme ai suoi sogni di riavvicinamento.
La rabbia americana vieta dunque di riconoscere all’Iran un punto di vista legittimo. Tale è il senso della richiesta di diventare «un paese normale» 30, praticamente di rinnegare sé stesso. Irricevibile per un attore che a ogni trattativa per prima cosa esige rispetto, come tutti gli stigmatizzati dal Numero Uno. Di fronte a requisiti come questo, il panico inevitabilmente si diffonde fra gli ayatollah, che sgomenti si chiedono non che cosa stia facendo l’America, ma perché. Washington comunque assai difficilmente supererà la propria ossessione, alla cui fonte s’abbevera ogniqualvolta ha bisogno di ricacciare indietro Teheran. Coltivare i grappoli del furore assicura capacità di reazione a una superpotenza distratta. Anche al prezzo della lucidità tattica.
Note:
1. Cfr. l’archivio dei rapporti annuali sul terrorismo: www.state.gov/j/ct/rls/crt/index.htm
2. T.L. Friedman, «Obama Makes His Case on Iran Nuclear Deal», The New York Times, 14/7/2015.
3. «A Conversation on the Iran Deal with Senator Tom Cotton», Council on Foreign Relations, 3/10/2017, goo.gl/VDQW2J
4. La lista più argomentata in tal senso in K. Pollack, The Persian Puzzle: The Conflict Between Iran and America, New York 2004, Random House, soprattutto pos. 1585 e 3169 ed. Kindle.
5. Discorso alla quinta conferenza di Gerusalemme, 20/2/2008, Harry S. Truman Research Institute.
6. goo.gl/fLdqrk, minuto 2:27.
7. G.E. Fuller, The «Center of the Universe»: The Geopolitics of Iran, Rand Corporation, Boulder 1991, Westview Press.
8. K. Abdolah, Il re, Milano 2012, Iperborea, p. 186.
9. J.E. Smith, Eisenhower in War and Peace, New York 2012, Random House, pp. 617-627.
10. «Memorandum from the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to Secretary of State Rogers and Secretary of Defense Laird», Washington, 25/7/1972, U.S. Department of State, Foreign Relations of The United States, 1969-1976, vol. E-4, Documents on Iran and Iraq, 1969-1972.
11. A. Cooper, Oil Kings: How the U.S., Iran, and Saudi Arabia Changed the Balance of Power in the Middle East, New York 2011, Simon & Schuster.
12. Cfr. K. Pollack, op. cit., pos. 7364.
13. D. Crist, The Twilight War: The Secret History of America’s Thirty-Year Conflict with Iran, London 2012, Penguin.
14. Cfr. K. Pollack, op. cit., pos. 3725 ss.
15. J. Solomon, The Iran War: Spy Games, Bank Battles, and the Secret Deals That Reshaped the Middle East, New York 2016, Random House, cfr. capp. 6 e 8.
16. Cit. in M. Perry, «James Mattis’ 33-Year Grudge Against Iran», Politico Magazine, 4/12/2016.
17. «The Middle East at an Inflection Point with Gen. Mattis», Center for Strategic and International Studies, 22/4/2016, goo.gl/q1fuiu
18. «Iran Linked to Deaths of 500 U.S. Troops in Iraq, Afghanistan», Military Times, 14/7/2015.
19. T. Weiner, Legacy of Ashes: The History of the CIA, New York 2007, Knopf Doubleday, p. 426.
20. Cit. in J. Solomon, op. cit., p. 35.
21. Cit. in T. Parsi, Treacherous Alliance: The Secret Dealings of Israel, Iran, and the United States, New Haven 2007, Yale University Press, p. 22.
22. S. Peres, The New Middle East, New York 1993, Henry Holt&Company, 1993, pp. 43 e 19.
23. goo.gl/U7NNAR
24. R.P. Jones, «White Evangelical Support for Donald Trump at All-Time High», Public Religion Research Institute, 18/4/2018, goo.gl/sefZF8
25. aclforisrael.com/iran-statement
26. M. Hitchcock, The End: A Complete Overview of Bible Prophecy and the End of Days, Carol Stream IL 2012, Tyndale House Publishers, pp. 293-310; R. Rhoeds, Israel on High Alert: What Can We Expect Next in the Middle East?, Irvine CA 2018, Harvest House, pp. 103-119.
27. goo.gl/GZqsxA
28. Seguiamo qui J.G. Blight et al., Becoming Enemies: U.S.-Iran Relations and the Iran-Iraq War, 1979-1988, Lanham MD 2012, Rowman & Littlefield Publishers, pp. 27-29.
29. Le due citazioni, rispettivamente, pronunciate il 20/9/2011 al Carnegie Endowment for International Peace, goo.gl/peokMi, e cit. in D. Crist,, op. cit., p. 515.
30. Cfr. «Briefing with an Iran Diplomacy Update», U.S. Department of State, 2/7/2018, goo.gl/Sy1NiQ
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