La natura e’ un campo di battaglia
di LE PAROLE E LE COSE (Razmig Keucheyan)
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
di Razmig Keucheyan
[Nel giorno di FridaysForFuture, proponiamo un estratto dell’introduzione del volume di Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, uscito da poco per Ombre Corte].
Nell’autunno del 1982, gli abitanti della contea di Warren, nel nord-est della Carolina del Nord, si sono mobilitati per sei settimane contro l’installazione di una discarica di rifiuti tossici[1]. Quattro anni prima, nel 1978, un’impresa di gestione dei rifiuti industriali aveva depositato illegalmente nell’area grandi quantità di policlorobifenili (pcb), una sostanza utilizzata in particolare nei trasformatori elettrici e nella vernice. Una volta scoperte, lo Stato della Carolina del Nord decise di acquistare un terreno per sotterrarle. Furono previsti diversi luoghi, ma alla fine si optò per un terreno vicino alla città di Warrenton. I residenti del luogo, come spesso accade in simili circostanze, si opposero alla scelta, temendo per la loro salute, dato che il pcb è una sostanza cancerogena. Intentarono un’azione legale per impedire che i rifiuti fossero conservati in quel luogo. Due anni dopo, il tribunale distrettuale rigettò la loro richiesta. Fu allora che la protesta iniziò ad assumere una forma extragiudiziale: manifestazioni, sit-in, boicottaggi, disobbedienza civile, marce, meeting, blocchi stradali… Queste azioni portarono all’arresto di più di cinquecento persone, compresi alcuni parlamentari locali e federali. Il movimento non riuscì a ottenere l’abbandono del progetto nell’immediato e il luogo fu decontaminato solo nel Duemila.
Inizialmente, gli argomenti addotti dai contestatori contro la discarica si riferivano all’inquinamento dell’ambiente (acqua e suolo) da parte del pcb e ai rischi che presentava per la salute. Tuttavia, man mano che il movimento si estendeva e diventava più politico, gli argomenti cambiarono natura. Se lo Stato aveva scelto di seppellire i rifiuti tossici in quel luogo, affermavano i residenti e i loro sostenitori, era perché vi vivevano dei neri, dei poveri e soprattutto dei neri poveri. In altre parole, la decisione di costruire la discarica aveva un fondamento razzista. All’epoca, la contea di Warren era composta al 64 per cento di neri. L’area immediatamente adiacente alla discarica lo era sino al 75 per cento. I contestatori facevano osservare che questa ingiustizia nella localizzazione dei rifiuti tossici non si registrava solo nella Carolina del Nord ma in tutti gli Stati Uniti, e dalla fondazione del paese. Nelle sue politiche di gestione dell’ambiente e delle risorse, lo Stato favorisce sistematicamente le popolazioni bianche e le classi medie e superiori, che preserva da questo tipo di inquinamenti. Al contrario, le minoranze, non solo i neri, ma anche i nativi, gli ispanici e gli asiatici, così come i poveri, subiscono la maggior parte delle conseguenze negative della produzione industriale. Ancora oggi, si osserva che negli Stati Uniti le multe per il trattamento non conforme dei rifiuti sono cinque volte più frequenti quando i fatti hanno avuto luogo in prossimità di quartieri bianchi, e non neri o ispanici[2]. Questa discriminazione razziale non è necessariamente intenzionale da parte dei poteri pubblici, anche se spesso è così. È sistemica, scaturisce cioè da una logica in parte indipendente dalla volontà degli individui. Ciò che ha permesso al movimento della contea de Warren di crescere è dunque la sua capacità di generalizzarsi, di “agganciare” una rivendicazione locale a un’ingiustizia globale.
Questo episodio illustra perfettamente la tesi principale di questo libro: la natura è un campo di battaglia. Già oggi è – e lo sarà sempre di più nel futuro, man mano che la crisi ecologica si aggraverà – il teatro di conflitti tra diversi attori con interessi opposti: movimenti sociali, Stati, eserciti, mercati finanziari, compagnie assicurative, organizzazioni internazionali… Nel caso della contea di Warren, il conflitto è il prodotto di una forma particolare di ingiustizia, il razzismo. Ma può nascere da altre tipi di disuguaglianze. La natura non sfugge ai rapporti di forza sociali: è la più politica tra le entità.
Questo approccio alla crisi ecologica contrasta radicalmente con una opinione oggi dominante, secondo la quale, per governare il problema del cambiamento ambientale, l’umanità dovrebbe “superare le proprie divisioni”. Questa posizione è sostenuta dai partiti ecologisti, molti dei quali – non tutti – sono nati negli anni Settanta dall’idea che l’opposizione tra sinistra e destra sia obsoleta o secondaria. In Francia è promossa anche da alcune personalità della società civile, come Yann Arthus-Bertrand o Nicolas Hulot, e loro equivalenti esistono nella maggior parte dei paesi. Il “patto ecologico” proposto da Nicolas Hulot, sottoscritto da molti candidati che si sono presentati alle elezioni presidenziali del 2007 e da alcune migliaia di cittadini, è emblematico di questa concezione dell’ecologia[3]3. Le critiche che accompagnano il ricorrente fallimento dei negoziati internazionali sul clima – quelli di Copenaghen e di Rio sono i più recenti – hanno questa convinzione alla base. Stigmatizzano l’incapacità degli Stati a unirsi almeno attorno ad alcuni comuni obiettivi ambientali.
Di questa posizione ecologista esistono alcune versioni sofisticate. Dipesh Chakrabarty, uno dei principali teorici del postcolonialismo, autore del classico Provincializing Europe[4], ha pubblicato un testo intitolato The climate of history[5], nel quale sostiene che la crisi ecologica consente di ipotizzare per la prima volta che il genere umano come tale, e non una delle sue componenti – gli operai, i contadini, i colonizzati, le donne… –, può diventare il “soggetto” della storia. Noi esseri umani non facciamo mai esperienza di noi stessi come “specie”, nel senso in cui ogni esperienza, foss’anche collettiva, è sempre individuale. Il cambiamento climatico presuppone invece di far emergere le condizioni di un’azione comune dell’umanità, per rispondere alla sfida del riscaldamento del pianeta. In tal senso, deve portare a rivalutare la vecchia nozione di umanesimo, cui conferisce un nuovo significato, e anche le critiche a questa nozione, in particolare quelle che gli rivolge fin dagli anni Sessanta il (post-)strutturalismo. L’“antiumanesimo teorico” di un Louis Althusser o del Michel Foucault di Le parole e le cose assume un significato diverso quando la sopravvivenza dell’umanità è minacciata dagli sconvolgimenti climatici.
Confrontando le crisi economiche e la crisi ecologica, Chakrabarty afferma che “a differenza di ciò che accade durante le crisi del capitalismo, non ci sono qui [vale a dire nel contesto della crisi climatica] delle scialuppe di salvataggio per i ricchi e i privilegiati”[6]. I ricchi riescono sempre a cavarsela durante le crisi economiche. Secondo Chakrabarty, questo non accadrà invece nel contesto della crisi ecologica, perché non ci sarà nessuna “scialuppa di salvataggio” per abbandonare il pianeta. Benché riconosca che questa crisi presenti una dimensione di classe, nel senso che il suo impatto non è equamente distribuito tra la popolazione, Chakrabarty sostiene che essa trascende in ultima analisi questa dimensione e deve portare a riesaminare la questione dell’essere umano. Così, “la crisi attuale ha rivelato alcune condizioni di esistenza della forma di vita umana che non hanno un legame intrinseco con le logiche delle identità capitaliste, nazionaliste o socialiste”. Proveniente dagli studi postcoloniali, che si sono fatti conoscere per il fatto di respingere ogni forma di universalismo, questa idea è a dir poco sorprendente[7].
La nostra analisi parte dall’ipotesi esattamente opposta a quella di Chakrabarty. Se si prende sul serio l’idea che il cambiamento climatico è indotto, a partire dalla metà del xviii secolo, dallo sviluppo economico, e che questo sviluppo si chiama “capitalismo”, è poco probabile che gli antagonismi di classe possano essere superati prima che sia stata trovata una soluzione alla crisi ambientale. In altre parole, è poco probabile che unire la specie umana attorno a degli obiettivi comuni sia una condizione della soluzione di questa crisi. Questa, al contrario, richiede probabilmente la radicalizzazione degli antagonismi, vale a dire la radicalizzazione della critica al capitalismo. L’uno si divide in due, in materia ambientale come in altre.
[1] Cfr. Eileen Maura McGurty, From nimby to civil rights. The origins of the environmental justice movement, in “Environmental History”, 2, 3, 1997
[2] Marianne Chaumel e Stéphane La Branche, Inégalités écologiques: vers quelle définition?, in “Espace, populations, sociétés”, 1, 2008, p. 107.
[3] Nicolas Hulot, Per un patto ecologico, trad. it. di M. Pisani, Aliberti, Reggio Emilia 2008.
[4] Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, trad. it. M. Bortolini, Meltemi, Roma 2004.
[5] Dipesh Chakrabarty, The climate of history. Four theses, in “Critical Inquiry”, 35, inverno 2009.
[6] Ivi, p. 221, traduzione dell’autore. Cfr. anche Penser et agir en tant qu’espèce. Intervista con Dipesh Chakrabarty, testi raccolti da Razmig Keucheyan, Charlotte Nordmann e Julien Vincent, in “Revue des livres”, 8, novembre-dicembre 2012.
[7] Chakrabarty si è soffermato su questo punto. Cfr. Dipesh Chakrabarty, Postcolonial studies and the challenge of climate change, in “New Literary History”, 41, 1, inverno 2012.
[Immagine: Santiago del Cile. Smog].
Fonte: http://www.leparoleelecose.it/?p=35121
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