Non sappiamo a cosa porteranno le recenti frizioni fra Orbàn e le componenti del Partito popolare europeo (il gruppo che comprende oltre al partito del discusso leader ungherese quello di Merkel, Berlusconi, ecc.). Sembra che una eventuale espulsione di Fidesz, il partito del premier ungherese, verrà decisa a breve. Sicuramente il contrasto non si gioca sul piano del modello sociale ed economico-finanziario, e risulta utile una ricognizione in merito per uscire da una polarizzazione utile a molti ma vuota di significato su tale piano. Una polarizzazione fra sedicente sovranismo antisistema (che dipinge Orbàn come leader magari discutibile ma avverso al finanzcapitalismo occidentale) e “europeismo” di establishment (visto come criticabile sul piano economico ma in fondo meno “cattivo” sui diritti umani).
L’Ungheria è stata dominata politicamente dalla caduta del socialismo reale fino al 2010 dal Partito Socialista Ungherese, una versione magiara di socialdemocratici completamente proni al sistema dominante, variamente sostenuti da partitini liberali (ancor più pro-mercato), fino alla crisi economica globale che ha portato il loro bravo governo tecnico (governo Bajnai 2009-10). Il bilancio finale di questa stagione politica era stato massicce privatizzazioni, mercato e soprattutto apertura al commercio estero. Si disegna così una economia votata alla esportazione: l’Ungheria è uno dei paesi con la maggior quota del prodotto interno lordo nel commercio estero, nel 2008 import+export toccava il 160% sul Pil (al confronto Italia solo 55%, Svezia 93%, Francia 57%).
Nel 2010 arriva la destra di Orbàn che imprime un marketing nazionalista alle politiche di mercato. Marginalizzando rapidamente l’imbelle sinistra di establishment e avendo come unica opposizione un partito di destra ancora più estrema, Jobbik (non alieno da rigurgiti antisemiti), il partito di governo approva una riforma del codice del lavoro, finalizzandolo esplicitamente alla flessibilità. Ed intanto riduce i sussidi di disoccupazione (tanto la durata della erogazione quanto il loro contributo). Vara una riforma fiscale con flat tax del 15% per le persone fisiche e del 9% per le imprese. Incassando il plauso della classifica Doingbusiness, una occhiuta misurazione delle regolazioni statali su quanto siano favorevoli al mercato, che senza giri di parole spiega così: “L’Ungheria rende meno onerosa la tassazione diminuendo i contributi sociali pagati dal datore di lavoro e riducendo la tassa sugli oneri d’impresa ad una tassa piatta” (Doingbusiness 2019).
Anche il Sole 24-Ore rimane impressionato: pur non nascondendo i problemi appone alla sua inchiesta un titolo piuttosto celebrativo (“La flat tax di Orban attira in Ungheria una nuova impresa italiana al giorno”). Peccato che non sia vero nulla: come la stessa inchiesta del Sole diligentemente riporta, un gran numero di imprese si era già trasferito prima della riforma fiscale, attirata anche dalla semplificazione burocratica; inoltre mentre un gran numero di aziende apre i battenti, molte altre li chiudono. Il “saldo” è positivo di circa 100 all’anno (che sono sempre tante ma non 365 come il titolista del Sole farebbe intendere).
La riforma fiscale impoverisce il 70% della popolazione (quella meno abbiente), e vede l’innalzamento dell’IVA al 27% (la tassa più ingiusta e quindi più entusiasticamente sponsorizzata da agenzie internazionali come l’OECD). Il regime fiscale è tale che una commissione del Parlamento europeo lo bolla come rapportabile ad un paradiso fiscale, mettendo l’Ungheria di Orban assieme ad altri 5 paesi Ue: Belgio, Cipro, Irlanda, Malta, Olanda e… Lussemburgo. Suprema ironia, il “sovranista” Orbàn in convergenza con il paese retto da Juncker…
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