Lettera ad un europeista di sinistra
Di SENSO COMUNE (Michele Berti)
Caro europeista di sinistra,
è con molta simpatia e grande rispetto che ti scrivo queste poche righe in vista delle imminenti elezioni europee. Ti scrivo per puntualizzare alcune questioni che tu spesso sollevi e, mio malgrado, per evidenziarne alcune contraddizioni.
Il mondo che si affaccia nel terzo millennio, oltre ad essere molto complesso, sempre più interconnesso, è tutt’altro che destinato alla “fine della Storia” e si trova popolato ovunque da nuovi spettri e da nuovi scenari politici sia a livello nazionale che internazionale. Il nostro sguardo, forse troppo occidentalizzato, si concentra sulla nostra Europa in cui ovunque, come spesso descrivi, stanno esplodendo fenomeni nuovi e contraddittori che molto spesso con pigrizia etichettiamo con termini adatti ad ogni circostanza. E’ così che parole come populismo, sovranismo, nazionalismo vengono utilizzate in modo tanto diffuso quanto superficiale. Se desideriamo però veramente stroncare gli inquietanti fantasmi del passato che si intravvedono sullo sfondo, è necessario fare i conti con la realtà mantenendosi lontani da concezioni ideologiche che impediscono di cogliere le contraddizioni più evidenti.
Ha infatti contenuto ideologico l’affermazione di aver avuto settanta anni di pace grazie all’Unione Europea. Primo perché Belgrado nel 1999 era in Europa e secondo perché sono state l’egemonia americana e la Guerra Fredda ad impedire nuovi conflitti, che per altro si sono spostati solamente di qualche migliaio di chilometri, se pensiamo alla Siria e alla Libia.
Parli spesso di populisti e della necessità di una politica”competente”, attenta e consapevole, ma le uniche strutture che generavano classi dirigenti, i partiti, sono stati spazzati via da una visione del partito come comitato elettorale o d’affari in cui formazione, analisi e visioni sono stati sacrificati sull’altare della competizione elettorale mediatica e del consenso fine a se stesso, senza mai elaborare un nuovo progetto di Paese sempre più necessario. Il momento populista che stiamo vivendo in questi anni, con la sua contrapposizione diretta tra popolo ed élite, il diffuso desiderio di protezione, l’austerità e la paura del domani è l’effetto di una Europa sbagliata, l’UE, affetta da un deficit democratico imbarazzante, da una gestione economica cieca che toglie agli Stati le leve della politica economica per poi stritolare intere economie assetate di manovre anticicliche. E’ necessario mettere cause ed effetti nel giusto ordine.
Un’Unione Europea, non uso il termine Europa perché sono entità distinte, che non permette alla sua banca centrale, la BCE, di fungere da prestatrice di ultima istanza degli Stati favorendo di fatto la speculazione di pochi gruppi finanziari. Un’UE che impone il Fiscal Compact e calcola il PIL potenziale attraverso il tasso di disoccupazione che non genera spinte inflazionistiche (NAIRU, non-accelerating inflation rate of unemployment) ovvero il tasso di disoccupazione “strutturale” condannando migliaia di giovani ad una condizione di disoccupazione “prevista”. La fine di ogni obiettivo di piena occupazione e l’accettazione totale del principio liberista del pareggio di bilancio. Riccardo Lombardi diceva sempre che quando la disoccupazione supera il 10% la democrazia è in pericolo. Aveva ragione e oggi la disoccupazione U6 (con i part time involontari) si attesta in Italia attorno al 30%. La disoccupazione e il lavoro mal pagato sono crimini, ma l’UE non si preoccupa della piena occupazione, solo della stabilità dei prezzi.
Il conflitto tra Costituzione e Trattati Europei è evidente nel momento in cui il diritto al lavoro e la piena occupazione non possono essere obiettivi della Repubblica, impastoiata in Trattati che impediscono il ruolo attivo dello Stato in economia come prevede la nostra Carta e come invece proibisce la scuola ordoliberale tedesca. DARE LAVORO! Scriveva Remo Costa nel 1946 dalle pagine del “Proletario”. Lo slogan è ancora e sempre attuale e ci impegna a pensare forme di lavoro garantito di cittadinanza che rendano il diritto ad un impiego dignitoso una battaglia non più rimandabile.
E ancora. Il pensare che gli Stati sovrani come l’Italia non possano concorrere nel mercato globale senza l’UE è un dogma facilmente smontabile dagli esempi di numerosi paesi, europei ed asiatici, che se pur piccoli riescono a sopravvivere benissimo da soli. Questo desiderio di gigantismo economico è un pensiero insano tutto occidentale, che sottende una tendenza distorta alla costruzione di un polo imperialista europeo. La globalizzazione è finita ha detto Trump. E’ vero. La globalizzazione come processo politico prima che economico si è accartocciata attorno alla crisi di egemonia americana che vedeva gli USA protagonisti indiscussi di un mondo globale unipolare. La conseguenza immediata sarà una rinazionalizzazione del conflitto capitalistico ed il ritorno, non se ne era mai andato in realtà, dello Stato Nazione. C’è stato un cambio di fase che deve essere considerato.
Unire e trattare, trovare compromessi, scambiare, fare ponte e connettere. Questa è sempre stata la vocazione del nostro Paese, dalle Repubbliche marinare fino alla contrapposizione USA/URSS, da Mattei fino a Craxi. Mai come oggi il ruolo dell’Italia potrebbe essere egemone nell’area mediterranea per la sua capacità di connettere mondi differenti, come luogo di scambio interculturale e commerciale, come cerniera tra un est emergente e un ovest in declino.
E’ ovvio che temi come la transizione ecologica, il cambiamento climatico, le migrazioni vanno affrontati in sedi sovranazionali, ma questo non è sufficiente per rinunciare alla propria sovranità, principio di autodeterminazione allo stato compiuto. La gestione economica della Res Publica non può in nessun caso essere messa al riparo dal processo democratico come è avvenuto con l’UE.
Molto spesso, caro europeista di sinistra, le tue proposte sono scollegate dalla realtà. Faccio solo notare alcune questioni che le rendono irrealizzabili oggi, in questo momento storico. Primo punto: modifichiamo i trattati per rimodulare la struttura UE. Abbiamo bisogno dell’unanimità dei 27 paesi aderenti, paesi che oggi hanno interessi completamente divergenti (in primis la Germania che ad Aquisgrana stringe rapporti bilaterali privilegiati con la Francia). Secondo punto: il passaggio da Unione Europea ad Europa Federale tecnicamente prevede che tutti gli Stati, come negli Stati Uniti, convergano su un bilancio federale con trasferimenti tra stati ricchi e poveri. Non ci sono le condizioni politiche, di solidarietà tra popoli affinché gli Stati UE del Centro permettano questi trasferimenti monetari. La Grecia è là ad esempio, con la sua mortalità infantile da Terzo mondo, prezzo da pagare per saldare i conti delle banche tedesche e francesi. Terzo punto: l’unione politica. Una democrazia necessita di demos e il demos europeo sempre mitizzato, oggi non esiste o meglio è culturalmente e linguisticamente così eterogeneo da impedire di fatto la formazione di un’opinione pubblica ed una vita politica comune.
Ripensare ad un’Europa confederale è oggi necessario, è il passo indietro che può salvare questa UE “finanzcapitalista” e dare al processo di costruzione di un’Europa unita qualche possibilità di successo nel lungo periodo evitando la frammentazione totale. E’ necessario quindi domandarsi quali sono le situazioni concrete in cui oggi si muovono questi grandi processi politici, analizzando gli equilibri di forze che oggi sono in campo ed i bisogni di milioni di persone che stanno emergendo. Le società governate dai mercati autoregolati sono infatti destinate alla distruzione e sono spinte ad una risocializzazione dell’economia che riguarda sicuramente la dimensione nazionale ma che potrà essere di stampo democratico o autoritario/totalitario. Antonio Gramsci questo bivio cruciale lo aveva descritto bene, parlando della teoria dello Stato integrale e della crisi di egemonia, ovvero la dimensione politica ideologica di una crisi organica come quella che viviamo oggi, da lui imputata al fallimento di grandi imprese politiche su cui la classe dirigente ha imposto, o richiesto, il consenso delle masse e dall’accesso all’attività politica di masse di persone precedentemente passive. Nulla di nuovo dunque, ma se non si farà questo sforzo analitico di presa di coscienza collettiva dei processi in corso e si continueranno ad alimentare sogni tanto belli quanto irrealizzabili, azzerando la fiducia nella politica e nella sua capacità di intervento, si apriranno involontariamente le porte alla seconda opzione, una serie di derive autoritarie, razziste e xenofobe.
L’economia deve tornare ad essere gestita nello spazio democratico che i nostri Padri Costituenti hanno progettato, con una Repubblica veramente fondata sul lavoro, dignitoso e per tutti, aperta al mondo ma gelosa dei propri valori repubblicani costituenti, mai fuori moda. Abbiamo sognato tutti un’Europa dei popoli, abbiamo però costruito l’UE della moneta senza Stato e delle banche sacrificando il destino di milioni di persone che oggi vivono nell’insicurezza e nella precarietà. Possiamo anche continuare a sognare ma tutte quelle voci non ci faranno più dormire.
Un caro saluto e buon voto.
Fonte: https://www.senso-comune.it/rivista/penisola/lettera-ad-un-europeista-di-sinistra/
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