Una nuova tipologia di guerra: la guerra economica 3a parte
Di GIUSEPPE GAGLIANO
Le armi della guerra economica
La presente sezione sarà dedicata all’analisi dettagliata delle armi utilizzate dagli Stati nella guerra economica per vincerla e affermare la loro potenza. Le prime che prenderemo in considerazione sono le armi di tipo indiretto, che agiscono nelle retrovie e contribuiscono a plasmare il dispositivo di una “guerra coperta”. All’interno di questo insieme molto particolare di strumenti di guerra economica, quello che più agisce a monte di tutti è sicuramente la formazione, che contraddistingue soprattutto i Paesi sviluppati e ha contribuito in larga misura ai loro successi economici. Basti pensare, a questo proposito, all’importanza data dall’Unione Europea a questo fattore, tanto che due degli otto obiettivi della strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva riguardano proprio l’istruzione (riduzione dei tassi di abbandono scolastico precoce al di sotto del 10% e aumento al 40% dei 30-34enni con un’istruzione universitaria). Andando poi a verificare la correlazione di formazione e sviluppo economico, esempi di Paesi come la Germania, il cui sistema di istruzione e formazione è riconosciuto come uno dei migliori al mondo, o il Giappone, dove il tasso di conclusione degli studi secondari si aggira intorno al 95%, confermano quanto finora affermato, soprattutto se si considera le modalità con cui questi due Paesi sono presenti sui mercati internazionali. Naturalmente qui non si tratta solo della formazione di base, per quanto questa sia importante nel porre le basi e dare l’impronta di un certo modo di progredire anche in ambito economico, ma ci si riferisce in maniera particolare alla formazione continua, che dà a coloro che la ricevono le necessarie doti di flessibilità e polivalenza che permettono di essere costantemente aggiornati e mai impreparati ai cambiamenti.
A questo proposito, un altro buon esempio sono le scuole di commercio francesi, delle quali le più prestigiose si classificano ai primi posti in ambito europeo e il cui successo si deve in gran parte a un modello nazionale che prevede una formazione biennale di base ad alto contenuto generalista, quindi non solo scientifico ma anche umanistico, propedeutico alla successiva specializzazione. Una caratteristica peculiare delle élite che si formano in questo tipo di scuole moderne è la loro propensione internazionale, aspetto ben distinto dal carattere marcatamente sciovinista della preparazione militare dei secoli passati di cui tali scuole, se si segue il filo conduttore della guerra economica come versione attuale degli antichi scontri bellici, dovrebbero essere la naturale continuazione. A complemento del discorso sulla formazione iniziale, è necessario parlare del ruolo svolto dalla formazione specialistica e dalla ricerca, cruciali ai fini dell’affermazione della potenza economica. Non è un caso, lo ribadiamo, che l’Unione Europea abbia affermato fin dall’inizio del millennio di voler diventare la prima “economia della conoscenza” e che, ad esempio, la sola Francia conti 160.000 ricercatori, un numero più che raddoppiato nel giro di settant’anni. Il sapere è infatti diventato l’arma suprema della guerra economica e il potenziale della ricerca risulta essere il motore delle trasformazioni del nostro tempo. È per questo che Paesi emergenti come la Cina e l’India, che hanno compreso perfettamente quale sfida cruciale si giochi intorno alla produzione di sapere, sia esso di base o applicato, non rimangono indietro in questa sorta di “corsa alla conoscenza”: se da Pechino arrivano forti e chiare le dichiarazioni di uomini di punta come il Primo Ministro Wen Jiabao, che nel 2005 si spingeva a proclamare il XI come “il secolo asiatico delle alte tecnologie”; nel subcontinente indiano ogni anno prestigiosi istituti tecnologici costruiti negli anni Sessanta sul modello del MIT sfornano un esercito di 170.000 diplomati. Nell’ambito della ricerca è poi fondamentale la cooperazione fra università, scuole e settore privato, il quale si aspetta precisi e puntuali ritorni dal lavoro dei ricercatori; cooperazione che al giorno d’oggi si presenta sotto forma di “cluster” o “poli di competitività”, spazi dove convivono luoghi di ricerca, scuole d’ingegneria e imprese di alta tecnologia e che sono incubatori di una potenza economica straordinariamente innovativa e all’avanguardia. A questo proposito, lo Stato francese si è fatto promotore, dal 2005, di questo tipo di realtà che rappresentano un elemento fortemente attrattivo per il territorio in cui sono insediati, realizzando attività di alta formazione assolutamente all’avanguardia. Ad ogni modo, si registrano ancora divari enormi nelle politiche effettive in favore della ricerca attuate dai diversi Paesi, anche all’interno del gruppo delle nazioni leader: è quasi scontato, purtroppo, riferire a questo proposito il caso dell’Italia dove, pur riconoscendo a parole l’importanza capitale di una ricerca solida, anche finanziata dal settore privato, per poter dotare le imprese di tecnologie a elevate prestazioni e consentire loro, di conseguenza, di essere concorrenziali sui mercati internazionali, il numero di ricercatori impiegati nelle aziende è cinque volte inferiore a quello di Stati Uniti, Giappone e Svezia. Per non parlare poi della fuga di cervelli, che decidono di lasciare l’Italia per trovare migliori opportunità di lavoro e stipendi più alti oltreché la valorizzazione di merito e competenze a scapito di raccomandazioni, burocrazia e scarso turnover. Per ogni “cervello che fugge”, però, c’è senz’altro un Paese pronto e ben felice di accoglierlo e ve ne sono alcuni che fanno dell’attrazione del personale altamente qualificato e specializzato una vera e propria arma di guerra economica: è il caso degli Stati Uniti, che a più riprese nel corso del XX secolo sono stati un porto d’approdo delle menti migliori dei quattro angoli del globo, a cominciare dalle élite ebraiche in fuga dall’Europa nazifascista, proseguendo con le decine di fisici e matematici ex sovietici arrivati negli anni Novanta e, infine, arrivando fino ai giorni nostri, in cui le università statunitensi sono popolate di ingegneri ed economisti indiani e cinesi. Se si considera il fatto che tre quarti di loro si stabiliscono definitivamente negli Stati Uniti una volta terminati i loro studi, si può dedurre facilmente il vantaggio che ne deriva per l’economia americana. Direttamente collegata con la ricerca è l’innovazione, motore propulsivo di fondamentale importanza per le imprese e su cui lo Stato ha tutto l’interesse di investire. L’esempio dei brevetti mostra quanto la collaborazione fra questi due attori possa rivelarsi fruttuosa. La classifica mondiale delle potenze in termini di deposito di brevetti certifica il primato cinese, il cui ufficio brevetti dal 2013 è ormai il primo al mondo con un quarto del totale delle richieste, seguito a ruota dagli Stati Uniti, mentre il ruolo dell’Europa perde progressivamente di rilevanza a discapito di una massiccia presenza asiatica, dato che le altre prime posizioni sono occupate da Giappone, Corea e India. La maggior parte dei brevetti depositati in tutto il mondo è a opera di imprese del settore privato (Matsushita, Philips, Siemens, Huawei, Bosch, Toyota, Microsoft, solo per citarne alcune) che però senza l’azione dello Stato – soprattutto in epoche passate (ci riferiamo qui al ruolo decisivo in termini di ricerca e sviluppo dei comandi militari americani, o del MITI giapponese) – non avrebbero mai potuto raggiungere i risultati odierni. È pur sempre opera dello Stato perfino la predisposizione di un ambiente normativo favorevole e sufficientemente tutelato in questo settore, per cui la ricerca dei brevetti può essere considerata a tutti gli effetti un affare nazionale, una garanzia di produttività, insomma: un’arma decisiva per gli scontri commerciali fra nazioni. Passando dall’ampio campo della gestione della conoscenza nelle sue diverse forme quale strumento di guerra economica a quello della competitività, possiamo affermare che su questo terreno lo Stato può giocare a pieno tutte le sue carte. È nel suo massimo interesse, d’altronde, far sì che le sue imprese siano dotate il più possibile della capacità di affrontare la concorrenza sui mercati esterni e interni. In un momento storico come quello che si sta attraversando, in cui i travolgimenti nell’ambito delle posizioni di potenza sono di notevole portata, vediamo come a fronte dell’avanzamento imponente di alcuni Stati sui mercati internazionali (negli scambi a livello globale, la percentuale cinese è passata dal 2% al 9% nel giro di poco più di vent’anni) altri, storicamente ben piazzati, indietreggiano (è il caso della Francia, che nello stesso arco di tempo è passata dal 6% a circa il 4%), mentre altri ancora mantengono le proprie posizioni (la Germania è esempio di notevole continuità, dal momento che mantiene saldamente il primo posto con una quota che si aggira intorno al 10%). Il ruolo dello Stato è qui quello di coordinatore, di fornitore di strumenti di lettura, comprensione e interpretazione del terreno degli scambi internazionali, possibile grazie alle conoscenze nei più disparati ambiti che almeno una parte dei suoi funzionari dovrebbe avere degli altri Stati. Prendendo l’esempio della Francia, questo ruolo viene svolto in gran parte dal Segretariato di Stato per il Commercio estero, impegnato in questi anni di crisi economica soprattutto a contenere l’erosione della quota francese sui mercati mondiali la quale, seppur imputabile a cambiamenti per lo più inevitabili e che coinvolgono tutti i grandi Paesi occidentali, resta tuttavia preoccupante per la bilancia economica nazionale. A questo scopo, è stata recentemente riformata l’Agenzia nazionale di promozione dell’esportazione, Ubifrance, incaricata di promuovere le esportazioni grazie all’apporto delle proprie competenze ed expertise nei confronti delle imprese francesi. In Italia, l’organismo con funzioni praticamente sovrapponibili a quelle di Ubifrance è l’Agenzia ICE, che ha il compito di agevolare, sviluppare e promuovere i rapporti economici e commerciali italiani con l’estero, in particolare delle piccole e medie imprese, e che opera per incentivare l’internazionalizzazione delle imprese italiane nonché la commercializzazione dei beni e servizi nazionali sui mercati internazionali. Anche il ruolo attivo dello Stato nella negoziazione di grossi contratti di produzione rientra nella più generale promozione della competitività e concretizza quella cooperazione con le imprese spesso invocata ma sempre di difficile attuazione: il partenariato fra gli Stati Uniti e le imprese di armamenti e del settore dell’aeronautica è un buon esempio di questo aspetto. La competitività è un indice applicabile alle imprese; l’attrattività invece è una caratteristica propria dei territori: attirare investimenti esteri diretti significa produrre occupazione nazionale e beneficiare di un ritorno fiscale. Politica fiscale, gestione del territorio e cultura ne sono le componenti. Per quanto riguarda la politica fiscale, abbiamo già visto in precedenza come questo sia un nodo dolente dell’attrattività italiana, anche se altri Stati europei, in particolare il Belgio e la Francia, hanno tassi d’imposta sulle società non molto distanti. Al contrario, il caso dell’Irlanda è esemplificativo del fatto che una politica fiscale “leggera” nei confronti delle imprese funge fortemente da incentivo agli investimenti diretti esteri: con una tassazione che si aggira intorno al 15%, peraltro fortemente osteggiata dall’UE, la “tigre celtica” è riuscita così ad attirare soprattutto imprese straniere nel settore delle alte tecnologie e informatico (da Adobe a eBay, passando per Yahoo!), sostenendo in gran parte la propria crescita economica. La Cina invece, in questo ambito, ha sviluppato una politica di istituzione di aree economiche speciali nelle province di Guangdong, Fujian e Hainan e di sviluppo di regimi fiscali particolarmente attraenti da applicare proprio in queste aree alle imprese straniere che scelgono di insediarvisi. Per quanto riguarda la gestione del territorio, si intende qui il livello di sviluppo delle infrastrutture necessarie alle imprese per rifornirsi di materie prime, per portare ai quattro angoli del mondo i risultati della produzione e per comunicare fra di loro: collegamenti aerei, ferrovie ad alta velocità, strade e porti, connessioni internet ad alta velocità e copertura per la telefonia mobile, che ha ormai quasi ovunque soppiantato la rete di telefonia fissa e in intere parti del mondo, ad esempio nell’Africa subsahariana, dove ne rende addirittura inutile l’estensione. Per quanto riguarda, infine, la cultura, si tratta dell’elemento più impalpabile ma non per questo meno sfruttabile del soft power, come lo definisce Joseph Nye. A differenza di molti altri elementi analizzati, questo è indubbiamente una caratteristica che l’Italia possiede pienamente e da cui può trarre profitto, come ripetutamente si è prodigato a ripetere e promuovere il suo attuale Primo Ministro e come ha saputo dimostrare in occasione di Expo 2015, dove l’“Italian way of life” fondato su un benessere alleato del gusto e della bellezza non ha mancato di attrarre una vasta platea di potenziali investitori. L’ultima arma strategica che prendiamo in considerazione qui, nell’ambito della guerra coperta, è l’intelligence economica, che l’Alto Responsabile presso il Segretariato Generale della Difesa francese Alain Juillet definisce come una modalità di governance focalizzata sul controllo dell’informazione strategica e che mira alla competitività e la sicurezza sia dell’economia che delle imprese. Altri due grandi esperti di guerra economica, Christian Harbulot ed Éric Delbecque, hanno proposto le loro definizioni di intelligence economica. Il primo l’ha definita come la costante ricerca e interpretazione delle informazioni accessibili a tutti, con l’intento di decifrare le intenzioni degli attori e intuire le capacità. Il secondo invece l’ha individuata nella cultura di lotta economica, ossia nella competenza –intesa come l’insieme di metodi e di strumenti di sorveglianza, di sicurezza e di influenza–e nella politica pubblica, che mira ad accrescere la potenza tramite l’elaborazione e l’attuazione di strategie geo-economiche, oltre che tramite azioni in favore del controllo collettivo dell’informazione strategica. L’intelligence viene qui naturalmente intesa nella sua accezione originaria di derivazione anglosassone, ossia come raccolta di informazioni per sapersi muovere meglio sul terreno, qualunque esso sia, e non tanto negli aspetti esacerbati dello spionaggio e degli agenti segreti tipici dell’epoca della Guerra Fredda, in cui ciò che si privilegiava era una cultura dell’informazione ad appannaggio di pochi, oscuri esperti e incurante dell’illegalità dei mezzi utilizzati (trasferimenti di tecnologia, furti di materiale informatico, licenziamenti di quadri strategici, ecc.). Analizzando più nel dettaglio in cosa consista l’intelligence economica, ossia le applicazioni concrete di quella che a volte viene definita impropriamente “guerra dell’informazione”, possiamo distinguere tre campi d’azione: la veglia, la protezione dell’informazione e la realizzazione di lobby. La prima, in particolare, si concretizza nella sorveglianza dell’ambiente economico di riferimento in modo da individuare con una certa prontezza eventuali minacce da cui difendersi o occasioni da cogliere; si divide nelle sette tipologie di veglia concorrenziale, commerciale, tecnologica, geografica, geopolitica, legislativa e societaria. Tutto ciò a favore di una crescita di influenza, e quindi di potenza, di quegli Stati in grado di mettere in campo un tale dispositivo. Il punto di vista che qui si propone, infatti, privilegia la capacità dello Stato di usare quest’arma strategica, piuttosto che quella delle singole imprese che la usano allo scopo di ampliare il proprio giro d’affari e di aumentare i profitti. Contemporaneamente strumento offensivo e difensivo, come quando viene usato per prevedere un’alleanza fra concorrenti o praticare la disinformazione, l’intelligence economica è il fiore all’occhiello delle politiche di guerra economica, vista l’importanza assunta dall’informazione nelle economie moderne. È su questo terreno, peraltro, che si rende maggiormente necessaria una stretta collaborazione fra Stato e imprese, sul modello sviluppato in Giappone nell’immediato dopoguerra, quando la fondazione della Japan External Trade Organization si affiancò al lavoro del già citato MITI. L’intensificazione dei legami commerciali con gli altri Stati veniva perciò supportata dagli ampi poteri assegnati a quest’ultimo, in una realtà non solo economica ma anche culturale dove la partecipazione allo sforzo di rendere grande la propria nazione attraverso i primati in termini di innovazione tecnologica e proiezione commerciale è un dovere morale di ogni singolo cittadino. Non a caso, dell’intero budget nazionale destinato a ricerca e sviluppo, una cifra compresa fra il 10 e il 15% viene destinata in Giappone all’informazione scientifica e tecnica. Qualcosa di analogo avviene anche negli Stati Uniti, anche se ancora formalmente mascherato da un discorso ufficiale di competizione leale. L’amministrazione americana ha infatti messo in piedi un servizio di “contro-intelligence”, derivato da un ampliamento delle prerogative della CIA che in questo modo svolge un ruolo attivo nello spionaggio industriale, per fornire alle proprie imprese informazioni segrete relative ai loro concorrenti stranieri. Dopo aver analizzato ampiamente le armi utilizzate nella guerra economica coperta (formazione dei quadri dirigenziali, politiche di competitività e di attrattività, dispositivi di intelligence economica), conviene ora passare in rassegna le diverse armi offensive a disposizione degli Stati.
Nel corso del presente contributo si sono già citate le sanzioni quale forma di guerra economica condotta con finalità politico-strategiche. Una modalità che risulta ancora più soffocante per l’avversario è quella del boicottaggio, quando non del blocco alle vendite: ne sono esempi l’arma alimentare usata dal presidente Carter nel 1979 per bloccare le vendite di cereali all’URSS in occasione dell’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa, l’attuale minaccia di chiusura dei rubinetti del gas da parte della Russia nei confronti dell’Europa, o ancora il boicottaggio a danno dei prodotti francesi in Cina nel 2008 causato dal sostegno dato da Parigi al Tibet, questione peraltro scoppiata alla vigilia dei giochi olimpici di Pechino anche in molti altri Paesi occidentali in seguito alla repressione cinese della ribellione dei monaci tibetani. Un’altra misura che potrebbe essere interpretata come ritorsione è il contingentamento delle importazioni: vietato nell’Unione Europea, è invece ampiamente usato dagli Stati Uniti nei settori più disparati, che vanno dal formaggio alle automobili, misura quest’ultima volta a tutelare le grandi società produttrici americane a detrimento dei prodotti giapponesi, con Tokyo che ha preferito negoziare in questo senso piuttosto che correre il rischio di essere soggetto a restrizioni ancora più sfavorevoli. Vi sono poi i picchi tariffari, ovvero dazi doganali superiori al 100%, spesso applicati sui prodotti agricoli provenienti da determinati Paesi (si vedano ad esempio le condizioni di adesione all’OMC imposte all’Afghanistan nel 2014, alla fine dei negoziati). A queste armi dirette si affiancano, come si vede ora, altrettante armi offensive indirette della guerra economica aperta. Innanzitutto la cosiddetta “diplomazia degli affari” che, pur essendo una pratica dalla lunga tradizione, è stata perfezionata dall’amministrazione Clinton: essa consiste in una sorta di assalto massiccio delle imprese sui mercati esteri, supportata da un’attenta preparazione nel terreno (liberalizzazione degli scambi con il Paese interessato), da un’approfondita conoscenza del campo dello scontro (informazione industriale e commerciale) e da una sapiente regia statale (nel caso degli Stati Uniti degli anni Novanta, l’Advocacy Center informalmente chiamato “War room”, incaricato di sorvegliare costantemente i mercati industriali mondiali). Se si affronta più nel dettaglio il primo di questi elementi, la liberalizzazione degli scambi, vediamo come e quanto sia stato usato soprattutto dagli Stati Uniti come una vera e propria arma. I trattati di libero scambio da essi conclusi, infatti, hanno sempre rivelato la loro potenza offensiva in quanto strumenti di relazione diseguale tra uno Stato forte, da un lato, e uno Stato debole, dall’altro, asimmetria che ha sempre penalizzato quest’ultima controparte, naturalmente. È il caso, ad esempio, delle relazioni commerciali mantenute con gli Stati dell’America centrale (la cui quasi totalità dei Paesi ha concluso simili accordi con Washington): nient’altro che un’evoluzione post-Guerra Fredda dell’idea di manifest destiny, della dottrina Monroe e del corollario Roosvelt. Questi accordi sono spesso molto più intransigenti degli standard dell’OMC ai quali tutti appartengono: la supremazia statunitense si afferma gioco forza per l’importanza rivestita nella bilancia commerciale di questi Stati, di cui sono il primo partner commerciale, e permette di imporre unilateralmente norme sbilanciate in loro favore, ad esempio sui brevetti (allungamento della durata di protezione dei brevetti, oppure allargamento delle condizioni di brevettabilità, che permettono di porre dei brevetti su prodotti già commercializzati) e, di conseguenza, di conservare la leadership. Gli Stati Uniti, dunque, non schiacciano il loro avversario economico con la forza, ma si accontentano in qualche modo di definire regole del gioco favorevoli ai propri interessi. L’ultima evoluzione in termini di armi offensive nella guerra economica sono i fondi sovrani che hanno fatto la loro irruzione sullo scenario finanziario mondiale negli ultimi vent’anni e che, per la portata del loro impatto sull’economia internazionale, ci si potrebbe arrischiare a paragonare a vere e proprie armi di distruzione di massa. Si tratta di fondi d’investimento internazionale del risparmio nazionale che, essendo difficilmente depositabile nei circuiti bancari classici per l’eccezionalità del loro importo (le stime indicano una cifra di più di 16.000 miliardi di dollari solo per i Paesi dell’Asia orientale), viene direttamente controllato dagli Stati o dalle banche centrali. Sono stati pensati in origine come strumenti finanziari destinati a valorizzare un capitale rilevante dello Stato e destinato alle generazioni future (è questo il caso del fondo sovrano norvegese). La maggior parte di questi fondi è stata costituita da Stati esportatori di petrolio, da un lato, e da Paesi dell’Asia orientale la cui bilancia corrente registra saldi dell’ordine del 6,5% del PIL, dall’altro, per investire le loro ingenti eccedenze commerciali e si sono configurati come potente mezzo di intervento negli equilibri economici mondiali soprattutto in seguito alla crisi dei subprime, quando un certo numero di essi è entrato nel capitale di gruppi prestigiosi (Citigroup, Merrill Lynch, Morgan Stanley) allo scopo di salvarli con iniezioni di liquidità. Esemplificativo è il caso di Citigroup: primo gruppo finanziario mondiale fino al 2007, di fronte ai problemi di liquidità derivati dalle speculazioni dei subprime ha fatto appello a diversi fondi fra cui quelli di Singapore, del Kuwait e di Abu Dhabi. Il salvataggio c’è effettivamente stato, ma a condizioni dettate naturalmente dai nuovi investitori: garanzia di rendimenti elevati delle azioni (dal 9 all’11% annuo), prezzi minimi garantiti anche in caso di crollo dei valori e decisioni prese non più nella sede della casa madre negli Stati Uniti, bensì nel palazzo di uno degli emiri proprietari del fondo sovrano, elemento territoriale puramente simbolico ma molto eloquente di qual è lo Stato che ora ne detiene il controllo. Risulta quindi evidente come un tale massiccio intervento non sia affatto neutro e che, di conseguenza, sia a tutti gli effetti una forma di controllo da parte degli Stati di cui tali fondi sono emanazione. Il sospetto è che, anche grazie a politiche e gestioni non esattamente trasparenti, essi servano interessi politici e geopolitici dei Paesi emergenti e vengano perciò percepiti come una minaccia economica importante dai Paesi occidentali. Basti pensare che il fondo di Abu Dhabi da solo avrebbe potuto acquisire, prima della crisi, le prime nove imprese quotate nel più importante indice della piazza parigina e che la China Investment Company, fondata nel 2007, si posiziona già al 6° posto mondiale per quantità di capitale. La miglior prova del fatto che sono percepiti come una minaccia è la recente adozione di misure destinate a ostacolarne la capacità di acquisizione. Questo dispositivo ha una certa tradizione negli Stati Uniti, dove il Committee on Foreign Investments può consigliare al Presidente di rifiutare un investimento straniero che minaccerebbe un’impresa americana giudicata strategica. Accanto alle armi, vi sono i dispositivi di protezione e di difesa. Naturalmente, attacco e difesa sono strumenti che concorrono insieme a definire una stessa strategia e perciò il loro uso ha pari importanza all’interno della guerra economica. Libero scambio sì, dunque, ma a patto di poter adeguatamente tutelare il tessuto industriale interno e le ricadute che la sua tenuta ha in ambito politico e sociale; se dunque le varie teorie elaborate dagli specialisti non soddisfano questo principio pragmatico, gli Stati non si fanno alcuna remora a ignorarle e ad agire nel senso protettivo appena indicato. È il motivo per cui non bisognerà meravigliarsi che certi mezzi di difesa presentati qui siano già stati annoverati nella categoria delle armi appena presentate: gli stessi strumenti della guerra economica possono rivelarsi contemporaneamente armi potenti e scudi resistenti in funzione del contesto. I dispositivi di protezione e di difesa che vedremo sono: la moneta, l’unfairtrade, le barriere doganali e tariffarie, le quote d’importazione, le sovvenzioni alle esportazioni, il patriottismo economico sotto forma di consumo patriottico e il soft power normativo. Per quanto riguarda la moneta, la svalutazione è un potente mezzo di stimolo alle esportazioni in periodo di recessione, come hanno dimostrato le azioni della Bank of England fra il 2008 e il 2009 in favore della sterlina nei confronti dell’euro e la svalutazione di yen e yuan. La moneta svolge così il doppio ruolo di strumento difensivo, poiché diminuisce la competitività dell’avversario, e di arma, in quanto consente una più facile penetrazione dei mercati esteri. La questione dell’unfairtrade si richiama a una legge statunitense del 1962, la cosiddetta “301”, che aveva lo scopo di sanzionare Stati e imprese appartenenti al proprio blocco che si rendessero colpevoli di comportamento sleale ovvero, concretamente, commerciassero con l’URSS o con Cuba, e autorizzava il Presidente in persona a rispondere agli atti “ingiustificabili”, “immotivati” o “discriminatori” di questo tipo. Se ciò è facile da comprendere in un contesto di Guerra Fredda, in cui le alleanze politico-strategiche regolavano abbastanza rigidamente le relazioni internazionali, risulta forse meno accettabile in un contesto di distensione e multilateralismo come quello odierno, eppure si tratta di atteggiamenti tutt’altro che desueti. Negli anni Novanta il Presidente Clinton, che in più occasioni si è dimostrato come un forte sostenitore della logica di guerra economica, ha rinnovato la cosiddetta “super-301” emanata nel 1984 allo scopo di individuare gli ostacoli alle importazioni americane e combatterli con misure di ritorsione. Il caso, citato in precedenza in merito al boicottaggio, delle misure di tutela delle grandi case automobilistiche a scapito dei prodotti giapponesi, accettate da Tokyo per non correre il rischio di essere soggetto a restrizioni ancora più sfavorevoli, nacque proprio a causa della minaccia americana di ricorrere alla “super-301”, con sovrattasse anche del 100%. L’istituzione dell’OMC e del relativo organismo di regolazione delle controversie, sorta di arena giuridica dove si affrontano le potenze per far valere i loro diritti, dovrebbe prevenire il ricorso a questo tipo di misure. Il funzionamento dell’Organo di Conciliazione si basa su norme precise e su una serie di scadenze predefinite per l’esame di ciascun caso. La procedura dura in totale al massimo un anno e tre mesi (solo un anno in assenza di appello): le decisioni iniziali sono prese da un gruppo speciale, previa consultazione di entrambe le parti cui viene anche presentato il rapporto finale (entro sei mesi), e approvate o rifiutate dall’insieme dei membri dell’OMC. Tuttavia l’obiettivo dell’organismo, più che essere l’emissione di un giudizio, sarebbe di conciliare, per l’appunto, le controversie e arrivare a una negoziazione consensuale della risoluzione da parte delle due parti in causa; un’eccezione a questa funzione particolare, che peraltro normalmente si realizza nei fatti, è stata la cosiddetta “guerra delle banane” che ha contrapposto i Paesi ACP a quelli dell’America Latina. Negli ultimi tempi, l’Organo di Conciliazione ha registrato un aumento del numero di ricorsi, segno per i suoi funzionari della fiducia che gli Stati riporrebbero nelle sue procedure e decisioni. Tuttavia, in un contesto di competizione sempre maggiore, esso potrebbe anche essere uno fra i tanti mezzi di cui gli Stati si servono per vincere le battaglie economiche che li oppongono e, per questo, un rivelatore particolarmente paradigmatico della situazione di guerra economica al tempo della globalizzazione. Per quanto riguarda le barriere doganali o tariffarie, si tratta dei mezzi difensivi più antichi di cui gli Stati dispongono per tutelarsi contro le strategie offensive sviluppate dai loro avversari. Sono un tipo di misura attuata soprattutto dai Paesi in via di sviluppo, che la adottano per proteggersi dalle importazioni provenienti dalle nazioni industrializzate (l’economista tedesco propone la definizione, in questo caso, di “protezionismo educativo”). Dal canto loro, i Paesi occidentali si servono delle tariffe doganali per proteggere l’occupazione industriale, il che, se da un lato ha costi elevati in termini economici, dall’altro è politicamente molto favorito in ragione della sua influenza sugli equilibri sociali. D’altra parte, è doveroso ricordare come dalla fine della Seconda Guerra Mondiale le tariffe doganali siano costantemente scese, passando dal 44% degli anni Trenta del Novecento all’attuale valore inferiore al 5%. Già si è parlato del contingentamento delle importazioni, con cui sono strettamente imparentate le quote di importazione, la forma più importante di barriera non tariffaria. Delimitando direttamente la quantità di prodotti di un certo tipo che possono essere importati, esse vengono usate per proteggere determinati settori nazionali oppure per equilibrare la bilancia dei pagamenti. Anche in questo caso, sono gli Stati Uniti a fornirci un buon esempio con la loro quota d’importazione sulle importazioni di zucchero: a fronte di una limitazione ben definita della quantità di zucchero importato e di una conseguente maggiorazione del prezzo sul prodotto finale venduto al consumatore, il settore zuccheriero statunitense, piccolo in termini di numeri di occupati, non conosce crisi. Le quote derivano appunto da una scelta politica, quella di conservare l’occupazione in determinati settori: la razionalità economica liberale imporrebbe la soppressione delle quote per abbassare il prezzo del prodotto finale e diversificare il consumo, ma in guerra economica qualunque teoria non funzionale al mantenimento di una logica di potenza e di indipendenza risulta sostanzialmente inapplicabile. Questa sorta di “nuovo protezionismo” si manifesta, oltre che nelle importazioni, anche nelle esportazioni, sotto forma di sovvenzioni pubbliche a una determinata impresa o settore di produzione. Conosciute anche con il nome di dumping, sono ufficialmente illegali (si veda ad esempio quanto stabilito dal regolamento CE n. 1225/2009 del Consiglio dell’UE), ma spesso vengono attuate in maniera indiretta. In questo senso, rivestono particolare importanza le sovvenzioni agricole: sia l’Unione Europea che gli Stati Uniti erogano consistenti aiuti di Stato ai rispettivi agricoltori, a detrimento di tutti quei Paesi, soprattutto africani, la cui economia si regge sul settore primario ma che, non detenendo alcun potere sullo scacchiere economico internazionale, sono fortemente penalizzati e non riescono neppure ad accedere al mercato mondiale delle derrate alimentari. C’è da dire che, almeno formalmente, sia l’UE che gli USA si sono impegnati a rivedere PAC e varie Farm Bill ma, non essendo stati fissati dei tempi per farlo, la partita non è ancora neppure aperta. Quando si parla di patriottismo economico si fa riferimento a un famoso discorso del 2005 dell’allora Primo Ministro francese Dominique de Villepin, nel quale si affermava la necessità da parte dello Stato di difendere le imprese nazionali strategiche, soprattutto in settori di punta o comunque considerati parte del patrimonio industriale nazionale. In realtà, tale concetto sarebbe nato già negli anni Novanta, sempre in territorio francese, in concomitanza con la fase successiva alla fine della Guerra Fredda di massima espansione della globalizzazione, che rappresentava una potenziale minaccia per le imprese dalla capitalizzazione fragile. La definizione usata da Villepin si rifarebbe invece a un rapporto presentato nel 2003 dal deputato Bernard Carayon su “Intelligence economica, competitività e coesione sociale”, dalla fortuna altalenante (condiviso da politici e imprenditori, ma ritenuto insufficiente nelle sue analisi da molti economisti). In esso viene ampiamente esposta e dimostrata l’esigenza di dare una connotazione maggiormente patriottica alla politica economica francese, definendo a tal proposito tutta una serie di obiettivi da raggiungere: definizione di interessi comuni fra Stato e settore privato, la tutela di questi interessi come misura di legittima difesa dall’assunzione di controllo da parte di capitali stranieri, la successiva conquista di porzioni di mercato mondiale promuovendo l’eccellenza di determinati settori e aumentandone la competitività. È proprio seguendo le idee presenti in questo rapporto che è emanato il decreto del 31 dicembre 2005, voluto da Villepin, sulla protezione della produzione di settori quali la difesa, le tecnologie dell’informazione, la sicurezza privata e i sistemi di intercettazione delle informazioni. D’altra parte, la Francia non è la sola a fare ricorso a questo strumento di difesa nella guerra economica: l’Unione Europea stessa, con l’istituzione nel 2004 della forma giuridica della “società europea”, persegue chiaramente l’obiettivo di consolidare la dimensione europea di queste imprese a discapito di possibili assunzioni di controllo da parte di entità straniere nei loro confronti. Per non parlare poi degli Stati Uniti, dove il Committee on Foreign Investment ha diritto di veto sulle operazioni d’acquisto di imprese americane da parte di società straniere, o ancora della Germania, dove nel 2010 il governo della cancelliera Merkel ha impedito l’acquisizione di Opel da parte di Fiat-Chrysler. Per quanto riguarda il soft power normativo, l’esempio principe che merita di essere preso in considerazione è quello delle negoziazioni commerciali multilaterali. L’OMC è quindi diventata teatro di scontri contrapposti per promuovere e ampliare sempre più il libero scambio, da un lato, e proteggere il vantaggio tecnologico dei Paesi industrializzati, dall’altro. È ovvio che ad esserne svantaggiati risultano soprattutto i Paesi in via di sviluppo del Sud del mondo, perché la mancata liberalizzazione di determinati brevetti in campo medico, ad esempio, impedisce a questi Stati di produrre medicinali a basso costo. Un’OMC ostaggio dei Paesi occidentali, che ha portato fra le altre cose al fallimento nel 2011 del Doha Round dopo dieci anni di negoziati, non è altro che una misura di difesa contro quei Paesi emergenti – India in testa con il suo potenziale di produzione nelle biotecnologie – che potrebbero così aspirare non solo all’indipendenza economica in determinati settori, ma anche a imporsi come leader sui mercati internazionali. Altro terreno su cui si disputa un’importante partita intorno al soft power è senza dubbio il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (TTIP): non un semplice accordo commerciale di libero scambio per la libera circolazione di merci e servizi, ma anche un accordo di tipo normativo, volto a rimuovere le molte differenze in regolamenti tecnici, norme e procedure di omologazione, standard applicati ai prodotti e regole di sicurezza e sanitarie presenti fra Unione Europea e Stati Uniti, che hanno ancora alcune carte da giocarsi in merito. Questo partenariato, qualora e quando entrasse in vigore, creerebbe l’area di libero scambio più grande del pianeta, equivalente a circa la metà del PIL e un terzo degli scambi commerciali globali: tutto il mondo ne gioverebbe e sarebbe ipotizzabile imboccare nuovamente la strada del multilateralismo nella liberalizzazione commerciale, che attraversa un momento di stallo nonostante la volontà di unificare il commercio mondiale. La frammentazione giuridica attuale, infatti, favorisce la costruzione del teatro della guerra economica, con la regola del più forte (del più potente) a prevalere su qualsiasi altra logica razionale. Infine, fra gli strumenti difensivi citati in apertura di questa sezione vi è il consumo patriottico, che consiste semplicemente nel privilegiare l’acquisto di prodotti nazionali, piuttosto che stranieri, nei più disparati settori. Esso può essere incentivato dallo Stato oppure no, ma in entrambi i casi fornisce una difesa efficace contro gli attacchi della guerra economica. Il primo caso è rappresentato dagli Stati Uniti, dove una misura protezionistica adottata in piena Grande Depressione, il Buy American Act promosso da Roosevelt e approvato nel 1933 come una delle misure volte a risollevare il Paese dalla recessione economica, è ancora in vigore a giustificare una politica che accorda ufficialmente la preferenza alle imprese americane. In questo quadro si inserisce, ad esempio, il conflitto fra Boeing e Airbus per la fornitura di una commessa all’aviazione statunitense: l’impresa europea era stata selezionata per le sue migliori prestazioni, ma il Pentagono ha comunque deliberato di annullare l’offerta e di rimetterla alla decisione della prima amministrazione Obama all’indomani del suo insediamento, favorendo così implicitamente Boeing in questa partita. In Giappone, invece, le modalità di consumo patriottico sono completamente diverse: lo Stato non ne ha alcuna responsabilità, ma sono di fatto i consumatori a preferire per la stragrande maggioranza i prodotti nazionali. Ne sono un esempio il mercato dell’automobile, detenuto per il 95% da marchi nipponici, o il recente blocco della commercializzazione di prodotti elettronici targati Samsung nel Paese del Sol Levante, dovuto a una penetrazione difficilissima del mercato giapponese che lasciava all’azienda coreana un misero 1% dell’intero mercato dell’elettronica.
Conclusioni
Questo contributo era iniziato con gli auspici dei grandi pensatori dell’Ottocento circa la realizzazione di uno scenario di pace perpetua dove il libero scambio delle merci e delle idee avrebbe sostituito gli scontri militari fra nazioni per la supremazia politica ed economica. Nonostante le apparenti promesse del multilateralismo degli anni Novanta e una globalizzazione che teoricamente poneva le basi perché questo progetto si avverasse, le lotte a tutto campo per il controllo dei mercati e delle risorse continuano a infuriare.
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