Brexit, Libia, accordo del secolo: il mondo questa settimana
di LIMESONLINE.COM
Il riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni con commenti di , , ,
L’inizio del Brexit non segna la fine delle tensioni tra Londra e Bruxelles. Con l’approvazione del sudatissimo accordo di uscita da parte del parlamento britannico e di quello europeo, il Regno Unito comincia i due anni di transizione che lo porteranno ufficialmente fuori dall’Ue. Periodo cruciale per la sopravvivenza stessa del paese così come lo conosciamo. Take back control: così i conservatori inglesi giustificano il divorzio. Fra le cose di cui intendono riprendere il controllo − e che l’integrazione continentale secondo loro aveva annacquato − c’è il rapporto con le nazioni celtiche periferiche.
A cominciare dall’Irlanda del Nord. Alla quale il premier Boris Johnson ha promesso in campagna elettorale di smussare i termini dell’accordo con l’Ue che impone una barriera doganale tra Ulster e Gran Bretagna sui prodotti che hanno probabilità di finire in Irlanda e nel resto dell’unione. Una precauzione per non ricreare un confine tra le due Irlande e con esso il fantasma della guerra civile. Ma che diluisce la presa inglese sull’ultimo pezzo dell’isola celtica in suo possesso, essenziale a scopo strategico. Sullo sfondo, la Scozia osserva. Per capire come Londra tratterà l’Ulster, quanti soldi stanzierà per ammansire i separatisti, se rafforzerà la presenza delle forze di sicurezza. Per poi decidere come (non se) chiedere un altro referendum per l’indipendenza.
Quello della disintegrazione dell’impero interno inglese è il principale focolaio del Brexit. Ma non l’unico. C’è anche un accordo commerciale da negoziare con Bruxelles. Qui Londra può sperare nella sponda di Washington. Che, almeno stando al segretario di Stato Mike Pompeo, non è intenzionata a punire l’alleato, nonostante il permesso a Huawei di realizzare la rete 5G – netta sconfitta d’immagine per gli Stati Uniti che non vogliono la tecnologia cinese nella loro sfera d’influenza europea.
LIBIA E ALTRI FRONTI MEDITERRANEI [di Federico Petroni]
Vista dall’Italia, la settimana del Mediterraneo equivale a un bollettino di crisi. Da est a ovest, non c’è stato uno sviluppo che non segnali la difficoltà del nostro paese nel difendere adeguatamente gli interessi nazionali nell’ex mare nostrum. Tornato a essere arena competitiva come mai negli ultimi 70 anni.
A complicare le posizioni italiane sono essenzialmente due fattori. Il primo, emerso di recente, è l’attivismo della Turchia. Il secondo, ormai strutturale, è l’assenza di poteri costituiti nelle Libie in guerra.
Ankara compete per un ruolo semi-egemonico nel Mediterraneo orientale, con perno su Cipro. E per l’influenza in Algeria e in Libia contro le petromonarchie del Golfo, Emirati Arabi Uniti in testa. Ma parla con gli stessi interlocutori degli italiani, rischiando dunque di sostituirvisi. La cautela di Roma, comprensibile, è presa in contropiede anche dalla sfrontatezza della Francia, più abituata a usare lo strumento militare a scopi d’influenza e non per fare la guerra per conto di qualcun altro. Non avendo di fatto alcun interesse in comune coi turchi, Parigi ha gioco facile a spedire navi militari a puntellare l’asse anti-anatolico Atene-Nicosia. Mostrandosi così anche alleato fidato degli americani, che pure non gradiscono le iniziative marittime di Erdogan e soci.
In settimana il dibattito italiano si è concentrato sul rinnovo del memorandum sui migranti con la Libia. Il problema è che non c’è nessuna Libia. Nessuno Stato, nessuna autorità che garantisca i patti. Soprattutto, nessuno che li faccia rispettare in modo umano. Così ci si limita al minimo sindacale: assicurarsi che nuove ondate di migranti non s’abbattano sulle nostre coste. Lavorando con chiunque e a qualunque prezzo. Senza un investimento concreto sulla pacificazione della quarta sponda.
BERLINO PREMIA DRAGHI [di Alessandro Aresu]
Venerdì Mario Draghi ha ricevuto dal presidente Frank-Walter Steinmeier presso il castello di Bellevue, a Berlino, l’onorificenza civile (Bundesverdienstkreuz) per chi ha contribuito all’ascesa pacifica della Repubblica Federale. Riconoscimento preceduto da un prevedibile dibattito sulla stampa e nella politica tedesca a proposito del ruolo dell’ex governatore della Banca Centrale Europea (Bce). Niente di nuovo: accuse di italianità e attacchi per i costi sostenuti dai risparmiatori tedeschi.
Il legame col mondo tedesco è stato cruciale negli anni di Draghi al vertice della Bce. Un legame costruito nel tempo con un lavoro di legittimazione sul fronte parlamentare (attraverso diversi incontri e audizioni) e governativo, anzitutto nel rapporto personale con Angela Merkel. Ha contato, inoltre, la stretta relazione di Draghi col decano della socialdemocrazia tedesca Helmut Schmidt, il quale a fine dicembre 2013 era giunto ad affermare: “L’unico che tiene in vita l’Unione Europea è Mario Draghi”. Il giudizio storico espresso ora da Wolfgang Schäuble, un tempo avversario di Draghi, non è poi molto diverso.
Il riconoscimento a Draghi si inserisce nell’ultima fase della metamorfosi dell’economista italiano, da tecnico a tecnocrate a politico destinato a essere chiamato in causa in Italia, se non opterà per un ritiro dorato nel mondo delle università internazionali. Tuttavia, tale giudizio giunge da una generazione al tramonto. Non solo per quanto riguarda le singole figure politiche. Da un lato, l’onorificenza di Draghi mostra che la geopolitica degli stereotipi è ancora viva in un contesto europeo incerto, anche davanti alla figura principale dell’ultimo decennio. Dall’altro lato, ci ricorda la domanda su cosa voglia essere la Germania oggi, stretta tra le pressioni di Washington su Pechino e Mosca e l’elaborazione di un patriottismo industriale in contrasto coi sacri comandamenti dell’economia sociale di mercato.
La campana della cosiddetta ascesa pacifica suona, attraverso Draghi, soprattutto per Berlino.
L’ACCORDO DEL SECOLO [di Dario Fabbri, da “Il mondo oggi” di mercoledì]
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha presentato – accanto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu – la sua “visione” per migliorare le vite dei popoli palestinese e israeliano.
Nella sua dolosa semplicità, il piano trumpiano per il Medio Oriente segnala due notevoli verità e crea uno spinoso dilemma.
Anzitutto, rende palese il senso della legge israeliana sulla nazionalità. Quando questa fu approvata nell’estate del 2018, Limes spiegò che si trattava di una norma di matrice imperiale che, anziché descrivere Israele come Stato-nazione, riaffermava la natura del ceppo dominante per annunciare la prossima annessione dei territori cisgiordani. Dimensione allora ritenuta incomprensibile, oggi finalmente chiara a tutti gli osservatori.
Conoscendo in anteprima il piano statunitense, nelle scorse settimane Netanyahu e Gantz avevano proclamato l’inglobamento della valle del Giordano, laddove vivono anche 60 mila palestinesi. Quindi, la “visione” di Trump pone fine all’ipocrisia riguardante i confini del 1967 e l’impossibile parità negoziale tra israeliani e palestinesi. Molto difficilmente i palestinesi potranno ottenere più di quanto proposto ieri dalla Casa Bianca e ora sono chiamati a ragionare con lucidità sulla base di quanto offerto. Il resto è pura retorica, se non colpevole miopia.
Infine, l’ennesimo intervento americano nel cosiddetto “processo di pace” pone proprio i palestinesi davanti a un complicato dilemma: accettare le dimensioni dello Stato proposto da Washington oppure opporsi a tanto “compromesso” per assistere negli anni alla continua annessione israeliana di altri brandelli di territorio, fino a ritrovarsi cittadini (di rango minore) dello Stato ebraico. Quanto, al di là dell’orgoglio nazionale, molti palestinesi considerano scenario migliore dell’attuale amministrazione autoctona.
CORONAVIRUS [di Giorgio Cuscito, dalla puntata della settimana del “Bollettino Imperiale“]
Il presidente cinese Xi Jinping non può permettere che il propagarsi del nuovo coronavirus (paragonato a un “demone”) destabilizzi il paese e generi sfiducia verso la sua leadership e quella del Partito comunista. Di qui la necessità di bloccare temporaneamente il flusso migratorio verso la costa dei lavoratori cinesi tornati dalle proprie famiglie nelle campagne per celebrare il capodanno cinese il 25 gennaio. Si stima che entro il 1° marzo questi compiranno tre miliardi di viaggi. Se non adeguatamente controllato, un simile movimento interno potrebbe alimentare ulteriormente la diffusione del virus.
Pechino ha messo in quarantena Wuhan (dove in poche settimane saranno costruiti due nuovi ospedali) e altre città limitrofe, per un totale di 60 milioni di abitanti. Inoltre, la fine delle vacanze è stata rinviata dal 30 gennaio a data da destinarsi. Medici da diverse parti del paese si stanno dirigendo a Wuhan per contribuire alle cure. Ciò evidenzia indirettamente le persistenti lacune quantitative e qualitative del sistema sanitario cinese nell’entroterra. Non è escluso che il nuovo coronavirus induca il governo ad accelerare lo sviluppo di tale settore.
Il nuovo coronavirus ha già determinato delle conseguenze di natura politica. Continua a leggere
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