Libia. Convergenze parallele di Italia e Francia al tempo del neoimperialismo ottomano
di BARBADILLO (Alessandro Sansoni)
Al termine del vertice tenutosi ieri a Napoli, tra le molte cose discusse, Italia e Francia non hanno mancato di far sentire la propria voce ufficiale su quanto continua ad accadere in Libia. I due paesi hanno confermato il sostegno “al percorso definito nella Conferenza di Berlino” del 19 gennaio scorso “per una soluzione pacifica del conflitto, guidato dalle Nazioni Unite, nel rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale del paese e condannano tutte le interferenze esterne e la violazione dell’embargo delle Nazioni Unite sulle armi”.
E’ probabile che dopo essersi pestate i piedi a vicenda per anni (in particolare i francesi nei nostri confronti, a dire il vero), le due potenze latine abbiano davvero deciso di riavvicinare le proprie posizioni rispetto al conflitto libico, dove il pericolo maggiore, da un punto di vista strategico, e che Parigi e Roma vedano fortemente rimaneggiato il proprio ruolo. Soprattutto Roma.
Il problema sono le interferenze esterne in generale, ma in particolare e soprattutto la sistematica violazione dell’embargo sulle armi, che di fatto rischia di far fallire il processo adottato con la Conferenza di Berlino, autentica “linea del Piave” italiana ed europea.
La misura dell’efficacia dell’embargo ce la dà una dichiarazione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, rilasciata nel corso di una riunione del suo partito, l’Akp, e raccolta ieri dall’Ansa: “In Libia abbiamo rovesciato la situazione che” prima dell’arrivo della Turchia “era a favore di Haftar”.
Va dato atto ad Ankara di non aver mai cercato di celare più di tanto le sue iniziative in Nord Africa (e in Medio Oriente). Certo anche paesi come Giordania ed Emirati Arabi Uniti sono accusati di violare l’embargo, ma l’impegno massiccio a favore del governo di Tripoli da parte dei turchi è davvero plateale.
Clamorosa è stata la notizia, ampiamente riportata dal Fatto Quotidiano, del sequestro a Genova di una nave, la Bana, battente bandiera libanese e proveniente dal porto di Mersin, nell’Anatolia meridionale, dopo che l’equipaggio aveva scaricato nel porto di Tripoli un grosso carico di armi destinate ai miliziani di Sarraj, composto da carri armati, cannoni, mitragliatrici e sistemi antiaerei.
Il 20 febbraio scorso il Procuratore Capo di Genova Francesco Cozzi ha disposto l’arresto del capitano dell’imbarcazione, Joussef Tartoussi, che dopo aver in un primo momento cercato di negare le circostanze, provando anche a influenzare le testimonianze rese dai suoi uomini, ha poi confermato le accuse e la presenza di alcuni militari turchi a bordo della nave di scorta al carico.
Pertanto, la famosa Conferenza di Berlino richiamata nella dichiarazione congiunta franco-italiana rischia davvero di rimanere lettera morta. Il documento finale sottoscritto da tutti i partecipanti li impegnava a non interferire nel conflitto militare libico, a sostenere il cessate il fuoco, a rispettare l’embargo sulle armi e a sostenere il processo di pace delle Nazioni Unite.
Tutte condizioni di fatto già disattese. Alle esplicite interferenze e violazioni dell’embargo turche, si è anche aggiunta la decisione dei rappresentanti del Governo di Accordo Nazionale (GNA) di abbandonare i negoziati di Ginevra sotto l’egida delle Nazioni Unite e in particolare le sedute concernenti le violazioni dell’embargo da parte di Ankara. Senza contare il reiterato mancato rispetto del cessate il fuoco che, come confermato dalla stessa dichiarazione di Erdogan, ha riequilibrato a favore di Tripoli la situazione sul campo.
Dopo aver a lungo appoggiato il governo di Tripoli, in virtù soprattutto degli importanti interessi di ENI in Tripolitania, dove la compagnia italiana vanta alcuni tra i suoi più importanti impianti petroliferi, da un po’ di tempo l’Italia sembra aver reso più equidistante la sua posizione tra i contendenti, il GNA di Sarraj da una parte e il generale Kalifa Haftar dall’altra. Troppo divergenti gli interessi geopolitici che separano in questo momento Roma da Ankara, ormai il principale alleato di Tripoli.
Tutti ricordano la durissima reazione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio in occasione dell’attacco turco contro i turchi nel nord della Siria. Per non parlare dell’accordo sulle zone marine stipulato da Tripoli ed Ankara sulle zone economiche marine, definito “inaccettabile” dalla nostra diplomazia e nettamente stigmatizzato nel corso di un incontro del titolare della Farnesina con il suo omologo greco-cipriota Nikos Christodoulides. In quell’occasione i due ministri degli esteri accusarono il memorandum turco-tripolitano di violare il diritto internazionale e i diritti sovrani di altri paesi e invitarono l’UE a imporre sanzioni contro individui e società coinvolte nella perforazione di pozzi finalizzati all’esplorazione di nuovi giacimenti di gas nella zona economica cipriota. Non bisogna infatti dimenticare che proprio l’ENI, a largo di Cipro, sta conducendo importanti esplorazioni.
Ma è in generale l’impostazione neo-ottomana della politica estera erdoganiana a doverci preoccupare, anche e soprattutto per le sue ricadute sullo scenario libico, oltre che sul Medio Oriente, dove il nuovo Sultano da anni svolge una funzione fortemente de stabilizzatrice.
Alla base di questa dottrina c’è infatti l’approccio revisionista nei confronti dei confini sanciti dal trattato Sykes-Picot del 1916, alla base dell’attuale configurazione degli Stati nati in seguito allo smembramento dell’impero ottomano. Se in Medio oriente un simile impianto conduce direttamente allo smembramento della Siria e dell’Irak, in Nord Africa implica invece lo smembramento della Libia e la sua tripartizione in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Un’idea condivisa anche dalla Fratellanza Musulmana, estremamente vicina tanto a Sarraj quanto a Erdogan, ma esiziale per i nostri interessi nazionali e la tenuta del nostro ruolo di potenza regionale del Mediterraneo
Alla luce di questo scenario ed anche in virtù di un atteggiamento da parte di Serraj sempre meno collaborativo anche per quanto concerne il contenimento dei flussi migratori, il governo ha avviato una politica del doppio binario, mantenendo aperto il canale di dialogo con Tripoli, ma rafforzando anche quello con Bengasi e il leader del LNA, il generale Haftar (mai, comunque, completamente interrotto). L’obiettivo resta quello di condurre tutte le parti coinvolte nel conflitto libico a un negoziato di pace. Operazione non facile fino a quando le armi non cederanno il passo alla diplomazia, tanto più che non c’è alcuna voglia di intervenire militarmente in modo diretto sullo scacchiere libico, sebbene non si debba mai dimenticare che l’unico paese terzo ad avere ufficialmente in Libia uomini armati è proprio l’Italia, con i suoi 100 carabinieri a protezione dell’ospedale di Misurata.
Il riavvicinamento di Roma e Parigi – che proprio sulla questione libica, come è noto, hanno consumato la loro rottura più profonda degli ultimi vent’anni, con la spedizione del 2011 voluta da Sarkozy contro il nostro storico alleato Gheddafi – può essere un tentativo di uscire dal cul de sacgenerato anche dai contrasti tra i due paesi e di costruire un’efficace impegno dell’Unione Europea finalizzato innanzitutto a rendere effettivamente operativo l’embargo sulle armi e a contrastare le violazioni turche. Sempre che i francesi non si facciano come sempre prendere la mano dallo loro voglia di grandeur.
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