Manca la forza lavoro, quella a buon prezzo (schiavitù 2.0)
di GERARDA MONACO (FSI Cuneo)
A febbraio, il tasso di disoccupazione generale si è attestato al 9,7% e le previsioni sono apocalittiche: Goldman Sachs stima che raggiungeremo il 17% di disoccupati entro l’anno, visti i danni cagionati all’economia dalle misure restrittive applicate. Eppure, ci si dispera perché non si sa come cogliere frutti e ortaggi. Come potrebbe essere altrimenti in un ordinamento in cui si scarica la competizione sui salari? Ecco che viene scolpito a caratteri cubitali ciò che molti ancora non sono riusciti ad assimilare: i migranti sono, prima di tutto, forza lavoro. No, non lo sta sostenendo un anti-immigrazionista in collera col diverso o semplicemente attento alla questione dal punto di vista socio-economico. Lo affermava già, ben 24 anni fa, una voce più che favorevole ai flussi migratori e perciò degna di nota in questa analisi: il premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa. Egli, in un articolo intitolato «La benedizione degli immigrati», apparso sul quotidiano “La Repubblica” il 10 settembre 1996, si esprime sottolineando la necessità delle frontiere aperte.
Nel libro Io, venditore di elefanti così viene presentato lo scritto del letterato: «Il suo punto di partenza è vedere gli immigrati, prima ancora che come persone, prima che come portatori di diritti e doveri, come portatori di quella particolare merce che è la forza lavoro». Infatti, lo scrittore e drammaturgo elogia l’azione dei migranti nel «prodigioso sviluppo che hanno vissuto gli Stati Uniti nel XIX secolo, così come l’Argentina, il Canada o il Venezuela», siccome esso coincise con le «porte aperte all’immigrazione». Insomma, nulla di particolarmente innovativo sul fronte «no border», ma è bene osservare come nell’articolo tutto ruoti intorno al concetto di lavoro, al rapporto tra domanda e offerta di manodopera che intercorre tra i paesi industrializzati e il Terzo Mondo: non un’osservazione sul diritto a vivere lì dove si è consumato il proprio primo vagito, tanto meno una benché approssimativa analisi sulla concorrenza aspra tra dipendenti esteri e locali di cui beneficiano i datori di lavoro. L’aspetto umano viene relegato a un piano secondario, tuttalpiù adottato a fini propagandistici.
Da ciò, si cristallizza il dovere di non esimerci dal criticare questo sistema che non problematizza il fenomeno dell’immigrazione evidenziando la tragedia che rappresenta il fatto di dover recidere le proprie radici, ma che si bea di questa sciagura per trarne profitto, ai danni dell’umanità tutta.
Non ho capito, quindi si intende dire che le migrazioni devono essere viste non tanto nel loro aspetto umano ma in quello economico? cioè i migranti provocano un crollo soprattutto nei diritti dei lavoratori autoctoni?, una tesi molto Salviniana, ma forse ho capito male.
Credo che l’articolo denunci appunto questa visione odierna dell’immigrato, visto solo come forza lavoro e non come persona costretta ad abbandonare le proprie radici, che appartiene forse più agli anti salviniani che ai salviniani.
È proprio questa la corretta interpretazione dell’articolo, Michele.