Circa “Una domanda” di Giorgio Agamben. Cronache del crollo.
Di TEMPO FERTILE (Alessandro Visalli)
Il noto filosofo Giorgio Agamben, reso molto noto ben oltre i lettori dei suoi libri dalle sue radicali posizioni negazioniste sulla pandemia in corso, ha nuovamente scritto una invettiva sul tema. E’ una domanda, e dunque è cortesia rispondere.
Avvia il suo testo con un pezzo di Tucidide (II, 53) che dalla mia traduzione di Pietro Rosa suona assai diverso; diverso in modo indicativo: “e nessuno era pronto a soffrire per ciò che veniva considerato degno, dal momento che non poteva sapere se sarebbe morto prima di raggiungerlo”, recita il mio testo[1]. “Nessuno era più disposto a perseverare in quello che prima giudicava essere il bene, perché credeva che poteva forse morire prima di raggiungerlo”, dice la traduzione di Agamben. Qui cambia il soggetto che esprime la forma verbale composta. Mentre nella mia traduzione è un ente collettivo quello che considera “degno”, in quella di Agamben è l’individuo che considera “il bene”.
L’individuo.
E’ più di un mese che, nella solitudine della sua casa che immagino confortevole, il buon Agamben “non cessa di riflettere” su una domanda. La domanda è: “Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?” Domanda soppesata, dice, parola per parola. Il paese, è per lui ‘crollato eticamente e politicamente’, e, segue spostando inavvertitamente, l’abdicazione ai principi etici e politici è “propria”[2]. Si abdica, per come scrive, ai “propri” principi. E lo si fa precisamente quando si supera il limite oltre il quale non vi si può rinunciare. Ovvero oltre il quale, se vi si rinuncia, si è “barbari”.
Il limite è duplice.
1) Come si è potuto accettare che le persone morte siano state lasciate a morire da sole e che i cadaveri siano stati bruciati senza funerale?
2) Come è stato possibile limitare la libertà di movimento? Come è stato possibile accettare di “sospendere di fatto” i nostri rapporti di amicizia ed amore, “perché il prossimo era diventato una fonte di pericolo e di contagio”.
In entrambe le formulazioni ricorre ossessivamente una formula, “soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare”, che è la cifra della sua negazione della sostanza della cosa. Agamben ritiene che la malattia non sia certa e provata. E ritiene, mostrando limiti definitori ed epistemologici non alla sua altezza, proprio che “il rischio” sia da “precisare”. Non è molto chiaro come si renda esatto, ovvero “preciso” un “rischio”. Il “rischio” è in effetti una ragionevole eventualità. Non può dunque essere “preciso”, ché, altrimenti, non sarebbe rischio ma certezza. Purtroppo, nella logica scientifica ci può essere consenso (maggioritario), non ci può essere, a rigore, “certezza”. Ciò vale a maggior ragione per una scienza umana e sociale complessa come la medicina. E vale per una materia antica ma drammaticamente incerta come l’epidemiologia, nella quale si incontrano virologi, clinici, epidemiologi, pneumatologi, esperti di medicina di emergenza, esperti di medicina preventiva, e poi, pertinenti altri saperi come sociologi, urbanisti, economisti, ingegneri dei trasporti, statistici, e via dicendo…
Dunque, in sostanza, Agamben che si è espresso male, ritiene che tutte le misure fino ad ora assunte siano prese siano in nome di un “rischio che non sussiste ragionevolmente”. Ritiene, insomma, che i morti siano normali[3].
Ma c’è di più. Compie nelle sue due elencazioni di limiti superati, alcune affermazioni che chiedono, per essere accettate di essere vere: che i poveri morti siano morti da soli, e che nessun funerale sia stato compiuto; inoltre che mai, nella storia, ciò sia avvenuto, addirittura “da Antigone ad oggi”[4]. La seconda è che la limitazione degli spostamenti sia anche essa mai avvenuta nella storia d’Italia[5]. Sono vere? Don Luca Peyron, sentendosi chiamato in causa, risponde di no[6], i poveri morti hanno lasciato questa vita insieme ai conforti cristiani, e circondati dai medici, anche se non dai parenti che avrebbero corso rischi personali molto gravi (del resto non è del tutto insolito, mia nonna è stata nella sala di rianimazione dell’ospedale venti anni fa mentre noi la potevamo guardare solo da un vetro e da molto lontano). E i funerali sono stati celebrati, in forma privata e solo con i parenti stretti, nelle cappelle dei cimiteri alla presenza dei sacerdoti a ciò preposti. Inoltre, dire che mai ci sono stati morti senza funerali nella storia è un’iperbole che si commenta da sola.
La seconda poggia sul fatto che il rallentamento dei contatti, abbastanza tipico di ogni epidemia dal 1300 in avanti (inclusa la Spagnola del 1900), sia sospendere i rapporti di amicizia ed amore. Deve essere ben triste Agamben se quaranta giorni senza vedere qualcuno per lui ne sospende i rapporti di amore. Io non trovo che il mio amore per mia madre, per i miei fratelli, sia diminuito dal non poterli incontrare (peraltro loro li vedo già di rado, dato che, come capita a tantissimi, viviamo in città diverse). Insomma, è enfatico.
Gli serve, questo, come artificio retorico per giungere al punto al quale voleva tendere. Questo dispositivo di protezione del corpo sociale gli appare come una scissione di un’unità indissolubile. Quaranta giorni di distanziamento a suo parere scindono, niente di meno che “l’unità della nostra esperienza vitale” che è “corporea e spirituale”. L’avrebbe scissa in una “entità puramente biologica” e in una “affettività e vita culturale” dall’altra. La colpa di questo sarebbe della medicina.
“La più grande delle astrazioni”. Una cosa realizzata dalla possibilità di rianimare i corpi (“So bene che questa astrazione è stata realizzata dalla scienza moderna attraverso i dispositivi di rianimazione, che possono mantenere un corpo in uno stato di pura vita vegetativa.”)
Dal corpo in coma, condizione, è noto, passeggera, Agamben introduce un salto vertiginoso. Se la medicina, con la capacità di prolungare la “nuda vita” (il mero battere del cuore, senza coscienza) oltre la fine naturale della mente, è in grado di separare l’unità dell’esperienza vitale, allora, la stessa medicina nel momento in cui prescrive il distanziamento fa proprio lo stesso. Indifferente al fatto che tale prescrizione la facevano anche i medici premoderni, per Agamben non c’è altro che “una contraddizione da cui non vi è via di uscita”[7]. Non vi è perché proseguirà (anche qui forza la realtà, è comunque “limitato nel tempo”, anche se durasse due anni), in quanto, non si sa chi, a suo dire avrebbe affermato che “il “distanziamento sociale”, come lo si è chiamato con un significativo eufemismo, sarà il nuovo principio di organizzazione della società”. E quindi non vi è via di uscita perché “non potrà essere cancellato”.
Dopo questa apodittica affermazione (non abbiamo noi cancellato le draconiane misure prese a Milano durante le pesti del 1300, 1400 e 1600[8], a Venezia nel 1347[9], e quelle delle città americane del 1919? Neppure le ricordiamo) Giorgio Agamben passa all’attacco della chiesa, provocando la risentita risposta del pastore che abbiamo prima ricordato. La chiesa sarebbe ormai “ancella della scienza”. E poi attacca, con insopportabile artificio retorico, i giuristi colpevoli di accettare che i decreti di Giuseppe Conte siano come la parola di Hitler.
C’è un inconfondibile segno di carenza di argomenti quando si ricorre alla reductio ad hitlerum.
Noi abbiamo oggi più o meno 3.000 malati al giorno in più (poi, per fortuna, contemporaneamente quasi altrettanti guariscono), esattamente come nella fase più acuta in Italia della Spagnola. Ma abbiamo “solo” qualche decina di migliaia di morti (più dei 25.000 ufficiali, probabilmente più del doppio) invece delle 300.000 della spagnola che era più letale (circa il 10%). Ma, mi dimenticavo, il “rischio” non è possibile da precisare.
Dopo Hitler cita Eichmann. E termina con una frase lapidaria: “Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà”.
Torniamoci, ma un attimo di pausa. Alla fine, quale è la “barbarie”? Semplicemente che la “nostra” libertà di movimento è stata limitata. I “nostri” rapporti sono stati sospesi. Come nella citazione di Tucidide si sceglie il significato che è più coerente con l’idea che la fonte della vita buona sia l’individuo. Che questo sia la fonte della normatività e che questa sua originarietà non sia scalfibile da nulla, neppure dalla morte degli altri (anche essi, peraltro, individui). La traduzione è, in altre parole, “soffrire per ciò che viene considerato degno” o per quel che io “giudico essere il bene”? Tutta la differenza del mondo.
Corrisponde al significato di vita degna sacrificare me stesso (anche ciò che in altre circostanze giudicherei essere il bene) per amore del prossimo messo a rischio, in quanto ciò è considerato degno dalla comunità in cui cresco e vivo, oppure la vita degna si chiude nel mio giudizio? Corrisponde al concetto di politica che la protezione comune prevalga sul mero benessere individuale, o no? Che significa “politica” qui? Come avevo commentato[10] rispetto ad un pezzo di Nadia Urbinati la libertà che entrambi rivendicano non è un attributo naturale ed originario dell’uomo, come il respiro lo è del corpo nudamente vivo. La libertà non è originariamente “mia”. Anche i rapporti non sono “nostri” nel senso di un possesso. Io non possiedo affatto gli altri e non possiedo il loro amore.
Noi non siamo completi e formati prima della società nella quale siamo nati e cresciamo. Non siamo prima delle cose che sono considerate degne. È l’essere immersi in un tessuto di impegni, di ciò che è considerato degno da un demos, e da una cultura e società che ci fa umani. Sono uomo quando comprendo gli impegni. E certo quando li accetto.
Essi mi costituiscono.
Non sono esteriori a me. Non posso “giudicare cosa sia il bene” senza riconoscere la relazione. Posso giudicare perché sono libero, e sono libero perché in un senso molto profondo la mia libertà è creata dal vincolo sociale e dalla solidarietà necessaria che lo fonda. Solo se c’è l’uno e l’altro, posso avere l’illusione di essere un’isola, ma quando ho questa illusione vivo nell’autoinganno. Mi alieno. Proprio Tucidide in questo è maestro.
Allora è proprio vero che “Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà”? E’ un bel gioco di parole, ma è generalizzabile? Si fonda una società su questa o solo Robinson Crusoe può vivere con essa?
Per salvare il bene non rinunciamo mai ad altri beni? Chi è colui che mai rinuncia a nulla per fare un bene più grande? Come lo giudichiamo? Ci piacerebbe starvi accanto? Gli affideremmo noi stessi?
E chi è colui che qualsiasi sua libertà considera insuperabile? Colui che per la libertà, ad esempio, di tornare a Palermo con la febbre alta ed il virus conclamato prende un treno, poi un aereo e infine un Taxi indifferente alla strage che provoca in tutti quelli che tocca? E’ falso e contraddittorio limitare la sua libertà per salvare quella di tutti? O, invece, non la consideriamo inumana?
Non è forse una “barbara”?
Triste è l’umanità che si è persa fino a questo punto.
[1] – Tucidide, “La guerra del Peloponneso”, Rl, 2016, p.223. Peraltro, anche in altre traduzioni, rintracciabili in rete la forma è simile, es. “Nessuno si sentiva trasportare dallo zelo di impegnare con anticipo energie in qualche impresa ritenuta degna, nel dubbio che la morte giungesse a folgorarlo, a mezzo del cammino”
[2] – “La misura dell’abdicazione ai propri principi etici e politici è, infatti, molto semplice: si tratta di chiedersi qual è il limite oltre il quale non si è disposti a rinunciarvi”.
[3] – Qui, naturalmente, non voglio entrare nella triste questione, dovremo attendere che i dati si consolidino, ma quel poco che si vede, più o meno ovunque, è a mio parere sufficiente per invitare alla prudenza.
[4] – “Il primo punto, forse il più grave, concerne i corpi delle persone morte. Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che – cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?”
[5] – “Abbiamo poi accettato senza farci troppi problemi, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di limitare in misura che non era mai avvenuta prima nella storia del paese, nemmeno durante le due guerre mondiali (il coprifuoco durante la guerra era limitato a certe ore) la nostra libertà di movimento. Abbiamo conseguentemente accettato, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di sospendere di fatto i nostri rapporti di amicizia e di amore, perché il nostro prossimo era diventato una possibile fonte di contagio”.
[6] – Don Luca Peyron, “Perché non risponderò ad Agamben”.
[7] – “Ma se questa condizione si estende al di là dei confini spaziali e temporali che le sono propri, come si sta cercando oggi di fare, e diventa una sorta di principio di comportamento sociale, si cade in contraddizioni da cui non vi è via di uscita”.
[8] – Per difendersi le città italiane nominarono funzionari addetti alla salute pubblica, proprio come ora, e ordinarono la chiusura dei mercati, proibirono i funerali (e sì), e isolarono i malati, addirittura a Milano sprangando le case con i malati dentro. Chiudendo i confini e i porti. Imponendo le “quarantene” (dall’insegnamento di Ippocrate).
[9] – Il batterio fu probabilmente portato dalle pulci dei topi, ma i veneziani reagirono imponendo la quarantena a tutte le navi, isolò i malati in zone lontane, e si concentrarono sulla gestione degli spostamenti e delle interazioni sociali, cercando di raccogliere, nel 1300, dati sul sistema urbano. Praticarono in seguito la disinfezione delle merci e costruirono ospedali pubblici specializzati “il nazaretum vecchio” sull’isola di Santa Maria di Nazareth. E poi neo 1468 uno “nuovo”. Ogni viaggiatore doveva, pena la morte, portare con sé una ‘patente’ su tutti i porti toccati. Si veda qui.
[10] – “Circa Nadia Urbinati, Non arrendiamoci a tacere e ubbidire”.
Fonte: http://tempofertile.blogspot.com/2020/04/circa-una-domanda-di-giorgio-agamben.html
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