Covid e internet: a che punto è la lotta?
di MicroMega (Mauro Barberis)
Dopo il Covid, ci siamo tutti accorti di quanto internet stia cambiando le nostre vite: dai rapporti interpersonali al lavoro alla politica. Eppure, la maggior parte delle persone non gli attribuisce ancora il peso che merita: i più giovani perché ormai lo danno per scontato, i meno giovani perché lo ritengono una diavoleria che complica l’esistenza invece di semplificarla. Raramente si discute delle grandi scelte da fare a questo proposito, o magari già fatte a nostra insaputa. Negli Stati Uniti se ne parla di più, anche perché l’industria digitale è ormai la principale risorsa del paese. In Italia no: qui non abbiamo i vari Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e Bill Gates, in ordine di ricchezza, e dobbiamo accontentarci delle beghe fra governo centrale e governatori regionali.
È sfuggito ai più, ad esempio, il DPCM di tre giorni fa che amplia ben oltre gli standard minimi Ue l’elenco degli operatori – fornitori di servizi e gestori di infrastrutture – considerati strategici per la sicurezza informatica nazionale. Ogni minuto, nel mondo, partono undicimila attacchi, da parte di hacker, organizzazioni criminali, intelligence pubbliche o private, ai dati sensibili che affidiamo a banche, istituti previdenziali, Asl. D’ora in poi, quando un operatore inserito nell’elenco subirà un attacco dovrà comunicarlo entro sei ore, a pena di multe milionarie, a un’agenzia governativa che potrà intervenire in tempo quasi reale. Certo, per completare lo scudo occorrono ancora due miliardi e mezzo di investimenti pubblici, da reperire grazie a quel Recovery Fund che sembra allontanarsi ogni volta che ne parliamo. Eppure, una volta tanto, non stiamo rincorrendo paesi più avanzati.
A fare notizia sul fronte internet, invece, sono il fallimento della App Immuni e il ritorno coatto all’insegnamento a distanza. Sulla App, che la pubblicità televisiva e i nostri datori di lavoro ci invitano ancora a scaricare, il flop era atteso, benché ci si trattenesse dal dirlo perché la profezia non si auto-avverasse. All’inizio, pareva che per funzionare occorresse che la scaricasse il 60% degli utenti, compresi quanti non possiedono cellulari abbastanza aggiornati. La settimana scorsa, toccato il 16%, si è detto che anche il 15% bastava. Ma intanto s’è capito che un’app serve a poco senza un call center che raccolga le segnalazioni e dica alla gente dove fare il tampone. Oggi siamo ormai oltre la soglia di positivi che permetterebbe al personale delle Asl di gestire tutto questo.
Quanto all’insegnamento a distanza, ci si stanno rassegnando milioni di ragazzi delle regioni interessate, nonostante gli scaglionamenti, le rotazioni di orario, i banchi a rotelle e l’impegno davvero eroico da parte di tutti. Anche all’Università, persino quelle come la mia, che hanno imprevedibilmente accresciuto le iscrizioni e dove le lezioni sono tenute da quasi un mese in modalità blended, con metà del pubblico presente e l’altra metà formato da sigle che si affollano sugli schermi del computer, non so per quanto terremo ancora duro. Di fatto basta che si vieti lo spostamento fra regioni, e per molti docenti fuorisede la lezione in videoconferenza diverrebbe una necessità, per alcuni, anzi, una liberazione. Eppure anche lì, persino quando tutto miracolosamente funziona, con un’audience più matura, formata da millennial dipinti come perennemente connessi, ci si accorge che internet non potrà mai sostituire l’insegnamento in presenza e l’esigenza di rapporti umani fra le persone.
Fonte : http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=30933
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