Globalizzazione 5.0: cosa deve fare l’Europa, secondo Cipolletta
di Il Sole 24 Ore (Enrico Verga)
Oggi con il Covid, la guerra commerciale Sino-americana, la Brexit, partiti nazionalisti in ascesa etc.. è semplice parlare di fine della globalizzazione. Paul Krugman, nel 2019 (pre-Covid) titolava una sua analisi: “Quello che gli economisti (me incluso) hanno capito male sulla globalizzazione”. L’analisi non è un mea culpa, ma semplicemente un’ammissione: un certo tipo di globalizzazione, non è andata esattamente come tutti pensavano.
Volevo approfondire il tema ma il signor Krugman è un teorico. Volevo parlarne con qualcuno che si intenda di grandi scenari, visioni ma che avesse anche i piedi ben saldi nell’economia e nella finanza operativa. Innocenzo Cipolletta è una figura chiave dell’economia e della finanza italiana. È presidente di Assonime (Associaizone fra le Società italiane per Azioni) e occupa numerose altre posizioni di grande prestigio; con la sua esperienza è la persona ideale per comprendere cosa stia veramente accadendo alla globalizzazione.
Le 4 ere della globalizzazione
Nel 2013 Arvind Subramanian and Martin Kessler buttano lì una pubblicazione dal titolo provocatorio: Hyper-Globalizzazione del commercio e il suo futuro. Nella loro riflessione gli autori spiegano che, a partire dal 1990 (circa) il mondo è entrato in quello che hanno definito Hyper-Globalizzazione (o globalizzazione 4.0). Vale la pena una micro cronistoria delle 4 ere che hanno visto questo fenomeno crescere e mutare, per comprendere cosa ci aspetta nella quinta era (o globalizzazione 5.0).
1. Tra il 1870 e il 1914 abbiamo l’era d’oro della globalizzazione. Il commercio globale, come percentuale del Pil, sale dal 9% del 1870 al 16% del 1914.
2. Tra il 1914 e la fine della seconda guerra mondiale abbiamo la grande contrazione: nazionalismi, politiche protezioniste, isolazionismo, militarismo estremo (2 guerre mondiali fate voi!). Il commercio mondiale crolla a un 5,5% del Pil.
3. Terminata la seconda guerra mondiale, ritorna il commercio globale, ma i livelli pre 1914 saranno raggiunti solo verso metà degli anni 70.
4. L’esportazione di beni e servizi è salita oltre il 33% (circa, vedi link sopra) negli ultimi due decenni. Grazie alla segmentazione delle linee di produzione e l’evoluzione dei sistemi di comunicazione oggi abbiamo filiere di produzione, per ogni singolo elemento del prodotto finito, sparse per tutto il globo.
5. 5.0? Questa è una fase da scrivere: potrebbe essere un poco differente da quello che ci immaginiamo. A prescindere da chi vincerà in Usa il fenomeno globalizzazione 5.0 sta entrando in una fase che, per alcuni versi, si potrebbe definire terminale, con l’emergere del grande unico produttore (la Cina, e se vogliamo i paesi ad essa limitrofi).
“La globalizzazione ha avuto dei grandi momenti anche nel passato”, mi spiega Innocenzo Cipolletta di Assonime. “Ma non dobbiamo pensare che la globalizzazione sia un evento che ci è capitato casualmente tra capo e collo. Esso è il prodotto di un grande sforzo, durato 50-60 anni, svolto dai nostri paesi. Dopo la Seconda guerra mondiale, c’è stato un grande impegno per portare lo sviluppo anche nei paesi poveri. Erano quei paesi che chiamavamo, all’epoca, sottosviluppati e che poi abbiamo chiamato in via di sviluppo e che ora sono diventati i paesi emergenti, ossia i paesi di nuova industrializzazione. Per arrivare a questo risultato abbiamo creato molti organismi internazionali, penso all’ONU, alla FAO, alla Banca Mondiale, ma anche al Fondo Monetario Internazionale e molti altri organismi, compresa l’Unione Europea, che hanno avviato politiche di aiuto allo sviluppo. Poi c’è stata l’ondata d’innovazione del digitale che ha favorito l’estendersi del progresso tecnico ed ecco che abbiamo visto emergere dalla povertà nuovi paesi come la Cina, l’India, il Vietnam, il Brasile che si sono presentati sui mercati mondiali con grandi capacità di competizione, determinando quello che abbiamo chiamato la globalizzazione. Possiamo dire che abbiamo avuto successo nella lotta al sottosviluppo e la globalizzazione è in gran parte il prodotto di questa successo e perciò dobbiamo esserne contenti”.
Come già affermato da altri economisti, il percorso della globalizzazione ha tuttavia avuto delle ricadute impreviste. Krugman, accennato prima, è parte di un fronte di sostenitori della globalizzaizone che, ora, ha cominciato a rivalutare alcune scelte, o alcune stime fatte in precedenza. Per dirla semplice lo stesso Krugman ammette che alcune loro stime sull’impatto negativo della globalizzazione attuale (4.0) abbiano avuto ricadute negative sull’economia occidentale: disoccupazione, consumi etc..
“Questo processo ha anche dei risvolti negativi a livello sia dei paesi emergenti sia di quelli di vecchia industrializzazione come Europa e Usa”, mi conferma Cipolletta. “Nei paesi emergenti c’è stata una forte crescita complessiva, ma anche, all’interno di ciascun paese, una maggiore diseguaglianza, perché lo sviluppo non ha riguardato tutti alla stessa maniera. Nei paesi industriali si sono verificate perdite di attività e la necessità di riconvertire processi e produzione, quindi disoccupazione, accanto anche a nuova occupazione. Direi che i fattori positivi superano quelli negativi ma, si sa, chi perde il lavoro o resta indietro non è contento e quindi protesta. Avremmo dovuto intervenire per ridurre i disagi di chi subiva conseguenze negative e non lo abbiamo fatto a sufficienza. In questo contesto, a mio avviso, si inserisce la critica di Krugman: la globalizzazione come qualsiasi altro fenomeno, ha ricadute negative. Dobbiamo avere politiche che riducano i disagi. A mio avviso non serve denunciare i mali della globalizzazione. Ma serve andare avanti e ridurre i disagi prodotti da essa. Invece ci troviamo di fronte a una vera contestazione e a un pericoloso ritorno ai nazionalismi”.
Industria 4.0? Una soluzione da fare per bene
Nell’era pre-covid, si parlava spesso di Intelligenza artificiale, industria 4.0, algoritmi predittivi e, in generale, di tutto un comparto della tecnologia applicata alla manifattura che, nella visione ottimista, sarebbe stato il toccasana per tutti i mali. Pur trovando utile la tecnologia già avevo denunciato, sull’industria 4.0, i rischi di disoccupazione (parliamo di occidente). È quindi importante considerare il fenomeno industria 4.0 in un ottica coerente con uno sviluppo economico equilibrato.
“Ne ho parlato al festival dell’economia nel 2019. I rischi della robotizzazione riguardano soprattutto i paesi che hanno grandi produzioni industriali standardizzate. Cina, India, Vietnam, sono a rischio: essi fanno concorrenza facendo leva sul basso costo del lavoro. Domani saranno le prime vittime dell’industria 4.0. Il tema è differente per i paesi avanzati che, spesso, producono prodotti unici o di alta qualità. Se c’è un lavoro artigianale, con prodotti unici, l’automazione non incide in maniera rilevante. L’impatto dell’industria 4.0 sarà vissuto con maggior criticità nei paesi emergenti. Mentre per i paesi Ocse, che già hanno evoluto la loro produzione, e hanno prodotti avanzati, ritengo che non vi saranno particolari rischi. Ovviamente serviranno politiche nazionali a supporto del cambiamento: il tessuto aziendale italiano, per esempio, è connotato da una forte presenza di Pmi e quindi saranno necessarie politiche di formazione per la transizione da un lavoro ad un altro.”
Sul tema, effettivamente, si è già fatto molto. Si pensi, da Tremonti in poi, gli incentivi per l’acquisto di nuovi macchinari che fossero “in linea” con gli standard dell’industria 4.0 che implica un dialogo continuo da centro di produzione e mercato (la famosa domanda).
Globalizzazione 5.0 l’inizio della fine?
Possiamo cominciare a delineare alcuni aspetti della futura globalizzazione 5.0. II primo aspetto è quello del potenziale reshoring, grazie anche alle tecnologie menzionate, che permettono, a costi ridotti di avere centri di produzione in Europa. Tuttavia il recente cambio di rotta della Adidas fa pensare che non basti il semplice minor costo di personale per avere un ritorno della industria manifatturiera.
“Questa pandemia ha messo in evidenza il tema delle catene del valore”, spiega Cipolletta. “È stato un colpo diretto non già alla globalizzazione, che implica filiere sparse per il mondo, bensì alle produzioni just-in-time, ossia al sistema delle produzioni con poche scorte e pochi punti di rifornimento, per abbattere i costi. In casi come nella pandemia, in cui era necessario avviare produzioni rapidamente (pensiamo alle mascherine), questo sistema si è dimostrato fragile. Tuttavia, è il ritorno al nazionalismo che può intaccare la globalizzazione 4.0 e il suo futuro proiettato verso la 5.0. L’inno al nazionalismo è stato lanciato dal presidente Trump ma ormai, in occidente, appare essersi diffuso molto. Il mondo va per mode, e sentimenti. Un sentimento profondo, nella percezione della gente di oggi, è che si devono preservare le identità nazionali. È un sentimento molto radicato nella gente, quindi Trump lo ha fatto suo. Abbiamo avuto 40-50 anni di un forte sentimento internazionale che ha avuto molti meriti, e non escludo che potremmo avere 30-40 anni di nazionalismo. Vero è che le aziende private fanno dei loro conti economici, tuttavia nel loro pianificare considerano anche l’influenza che i politici possono apportare all’economia, e agiscono di conseguenza.”
È importante anche comprendere quanto un nazionalismo o un forte regionalismo possa modificare i rapporti tra aziende private e nazioni. Consideriamo le recenti posizioni dell’Unione europea sulla gestione dei bigdata (alla base dell’industria 4.0) e dei cloud nazionali.
“L’economia è fatta di soluzioni al bisogno del momento; non è difficile immaginare che si sviluppino tecnologie che privilegino la vicinanza invece della lontananza. Se andremo verso una crescita di fenomeni nazionalistici avremo grandi macro regioni che si integrano tra di loro. Vale, per esempio, per la gestione dei dati. In Europa il gestire dati sta divenendo un tema caldo. I cinesi si stanno facendo il loro sistema in casa e il fenomeno potrà andare avanti in questa direzione anche in Europa. Le grandi imprese di bigdata non europee fanno ormai paura in molti dei nostri paesi”.
Quello che dovrebbe fare l’Occidente
Riportare in Europa le aziende manifatturiere è possibile. Tuttavia resta da comprendere quanto questa pratica sia effettivamente percorribile. Riportare a casa industrie che avranno una bassa occupazione umana oppure puntare all’innovazione? Diviene rilevante comprendere come l’Unione Europea possa agire per diventare un motore propulsivo di una nuova globalizzazione (appunto 5.0).
“I paesi industrializzati devono assicurare la loro capacità di attrazione, facendo leva essenzialmente sul loro valore come mercato di consumo e competenze su cui investire”, chiarisce Cipolletta. “Come Europa noi siamo il più grande mercato di consumo nel mondo: circa 500 milioni di abitanti, mediamente ricchi, istruiti, per lo più urbanizzati e protetti da sistemi sociali tra i più avanzati. Abbiamo tutte le caratteristiche per essere il più grande mercato di consumo del mondo, e siamo egualmente un mercato privilegiato per le imprese. Il ruolo dei governi europei non è quello di obbligare le imprese a restare nei nostri confini, ma è quello di creare un ambiente adatto per le imprese.
Non mi riferisco al costo del lavoro, vi sono aspetti ben più rilevanti: giustizia certa che tuteli le aziende, sistema fiscale trasparente, buoni servizi pubblici per la gente e per le imprese e poi che vi sia un grande processo d’investimenti e ammodernamenti infrastrutturali.
Se si avviasse un piano di costruzione e ammodernamento di infrastrutture, penso sia a quelle fisiche, come trasporti e logistica, a quelle digitali come reti a banda larga, e conseguenti reti digitali, sarebbe un volano immenso per la crescita e per l’innovazione.
È bene ricordare che le nuove tecnologie hanno una data di scadenza, prima di diventare banali perché utilizzate da tutti. Pensiamo a tutto quello che potremmo creare e perfezionare oggi: ad esempio, l’uso di moderne tecnologie per la cura di antichi edifici, per la digitalizzazione delle nostre città, per la gestione del traffico, per lo smaltimento dei rifiuti e quant’altro. Tutte tecnologie che, se impiegate bene nei nostri paesi, potremmo poi esportare in tutto il mondo. L’idea di riportare a casa i produttori di T-shirt o di prodotti industriali tradizionali è desueta. Per l’Europa il futuro è pensare al futuro”, conclude Cipolletta.
Per decenni l’Occidente ha mantenuto la sua superiorità (tale da definirsi “primo mondo”) grazie alla sua competenza tecnologica. Se la globalizzazione 5.0 avrà un futuro sarà grazie all’evoluzione della tecnologia e della capacità di ricerca e sviluppo dei paesi occidentali. Diversamente sarà semplicemente una lotta all’ultimo 5% di margine e una lotta tra poveri.
Di Enrico Verga. Pubblicato su Econopoly – Il Sole 24 Ore
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