Non è fantapolitica. Le avventure di Tartarino di Tarascona applicate al Partito democratico
di Luigi Sanlorenzo – 8 Dicembre 2020
Zingaretti ha promesso che avrebbe domato molti leoni e forse riportato a casa la pelle di qualcuno di questi con cui adornare la sede del Pd. Ma come l’eroe di Alphonse Daudet, promette rivoluzioni su Mes, ius soli e decreti sicurezza, ma intanto si consola con la consultazione della mappa parlamentare, ugualmente abitata da personaggi da romanzo d’appendice.
Nell’entroterra della Costa Azzura, a pochi chilometri da Avignone, sulle sponde del Rodano si adagia Tarascona, una delle mille quiete cittadine della Francia in cui il silenzio è rotto soltanto dal suono delle campane e dallo scalpiccio frettoloso dei passanti che si affrettano verso casa con la baguette sottobraccio. Siamo nella Provenza dai mille profumi.
Il nome trae origine da Tarasca, un mostro gigantesco simile alla chimera, sconfitto secondo la legenda da Santa Marta in un curioso modo che potremmo definire “progressivo”. Ad ogni preghiera della Patrona della città, sbarcatavi nell’anno 48 profuga secondo la tradizione insieme alla sorella Maria dalla Palestina, il corpaccione scaglioso si riduceva sempre di più e quando le dimensioni lo resero possibile, gli abitanti della città poterono ucciderlo a colpi bastone. La santa non era stata molto lodata nel Vangelo rispetto alla più contemplativa sorella, tuttavia in quell’occasione il suo pragmatismo le valse una cattedrale, seppur di provincia.
Meno fantasiosa e ben asseverata è la vicenda accaduta a poca distanza nella regione del Gevaudan, dove per anni imperversò una belva, non classificabile in alcuna specie zoologica a quel tempo conosciuta, che terrorizzava la popolazione e causò molte vittime, ritrovate dilaniate nei boschi. Nella Francia alla vigilia della Rivoluzione si vollero dare molti significati all’evento la cui causa alcuni volevano far risalire a un avvertimento divino volto a contrastare le idee sovversive propagate dall’Illuminismo che minacciavano il potere ecclesiastico. La Vandea in Francia non è solo una regione della valle della Loira, ma talvolta anche una categoria dello spirito.
Chi scrive venne a conoscenza del fatto attraverso il Corriere dei Piccoli che negli anni ’60 ne pubblicò a puntate il racconto e, con la nostalgia dell’infanzia, ne ha rivisto la trasposizione cinematografica nel film “Il Patto dei lupi”, girato nel 2001 dal regista francese Christophe Ganz, con un’inquietante dark lady interpretata dalla sinuosa Monica Bellucci.
Un’accurata documentazione d’archivio riporta i fatti e l’atmosfera di quei giorni lontani, il terrore della popolazione, la preoccupazione delle autorità e l’immancabile invio da Parigi dell’eroe incaricato di snidare la belva ma anche la mistificazione dei moralisti e dei bigotti del tempo che l’avevano prodotta. Come nella vicenda del Mastino dei Baskerville, entrambi i “mostri” si riveleranno essere animali di grandi dimensioni, un leone nel racconto francese, un molosso nel racconto di Arthur Conan Doyle, truccati dai rispettivi padroni e resi feroci dai medesimi per essere strumento di terrore e di morte al servizio di disegni di destabilizzazione e di vendetta.
Entrambi si muovono nella nebbia nella quale la ragione spesso si perde tra gli incubi e – come dipinse Francisco Goja in quel finire del XVIII secolo raffigurando in una successiva incisione anche Don Chisciotte che teme di addormentarsi – genera mostri. La medesima preoccupazione è presente nel grande quadro dipinto da Renato Guttuso nell’agosto di quaranta anni fa, con riferimento alla strage di Bologna e ai timori di quegli anni. Il settimanale L’Espresso, allora diretto da Livio Zanetti, ne fece una storica copertina.
Ma è di un singolare “eroismo” che ora racconterò. E per farlo occorre tornare in quella Tarascona da cui ho iniziato.
Nel 1872 lo scrittore Alphonse Daudet pubblicò un romanzo satirico intitolato “Le avventure prodigiose di Tartarino di Tarascona”, ispirato alla figura di Henri Reynaud, un famoso cacciatore di leoni nelle montagne dell’Atlante in quell’Algeria allora possedimento francese. Individuo pacifico, buontempone, sempre ridanciano e incontenibile pallista, il grassoccio e pantofolaio Tartarino si vanta di essere prediletto dalla dea Diana e narra di mirabolanti avventure venatorie che lo avrebbero visto protagonista durante la vita. Stanchi delle sue balle colossali, i concittadini, in larga parte appassionati cacciatori di fauna locale, lo sfidano a produrre le prove della tanto declamata abilità e lo mettono alle strette: dovrà partire per l’Africa e riportare la pelliccia di una fiera.
Tartarino è terrorizzato, non ha mai sparato un colpo di fucile in vita propria né mai ha lasciato il patrio suolo, ma deve fare buon viso a cattivo gioco e si rassegna a sottoporsi alla prova. Segue il racconto delizioso delle mille esitazioni, dell’acquisto di ogni arma e di altra utile attrezzatura, la scelta di un abbigliamento adeguato alla caccia grossa. Egli spera che nel corso di tali preparativi la pressione dei tarasconesi possa ridursi sino a svanire, ma è inutile: ogni giorno qualcuno bussa alla sua porta per chiedergli a che punto si trovi e quando intenda partire. Il cacciatore immaginario lo rassicura mostrandogli la montagna di attrezzature acquistate, le mappe dell’itinerario che percorrerà, le trappole di sicuro effetto che intende predisporre per costringere le belve a cadere sotto il piombo del proprio fucile dalle dimensioni sesquipedali.
Tutto inutile. Dopo tre mesi di attesa, nel giorno fatale un folla vociante si raduna davanti alla sua casa, detta del Baobab, e lo costringe a uscire. A nulla varranno le nuove rassicurazioni e le promesse di mantenimento dell’impegno richiesto che egli declama dal balcone.
Nel volgere di qualche ora si presenta al popolo, pronto a partire e completamente bardato. Così descrive la scena Daudet: «A un tratto, verso le dieci, fu un gran romore nella folla. La porta del giardino girò violentemente sui cardini. — È lui!.., è lui! — si gridò…. Era lui. Quando apparve sulla soglia, due urli di stupore si levarono dalla folla. – È un Turco! – Porta gli occhiali! Infatti, Tartarino di Tarascona andando in Algeria, si era creduto obbligato di vestire l’abito algerino. Calzoni larghi, sboffanti, di tela bianca; piccola veste attillata a bottoni di metallo; due palmi di cintura rossa intorno allo stomaco; nudo il collo, scoperta la fronte, sul capo una gigantesca cicìa (berretto rosso) con una nappa turchina, lunga lunga…. Oltre a ciò, due fucili pesanti, uno per ispalla, un coltellone da caccia nella cintura, una cartuccera sul ventre…. Sull’anca una rivoltella dondolante nella busta di cuoio. Ecco tutto! Ah, no! chiedo scusa. Dimenticavo gli occhiali, un enorme paio di occhiali turchini che erano proprio quel che ci voleva per adombrare quanto di troppo feroce appariva nella figura del nostro eroe. — Evviva Tartarino! evviva Tartarino! — urlò il popolo. Il grand’uomo sorrise, ma non salutò perchè i fucili 73 glielo impedivano. Del resto, adesso non si faceva più illusione sul favore del popolo; forse, dentro di sè egli malediceva a’ suoi terribili compatriotti che lo costringevano a partire, a lasciare la confortevole casina dai muri bianchi e dalle persiane verdi…. Ma questi pensieri non si vedevano. Tranquillo ed altero, tuttochè alquanto pallido, egli avanzò sul marciapiede, guardò le carriuole, e, veduto che ogni cosa stava bene, prese decisamente la via della stazione, senza nemmeno voltarsi verso la casa del baobab.
Dietro a lui, camminavano, il bravo maggior Bravida, antico capitano di magazzino, il presidente Ladevèze, poi l’armaiuolo Costecalde, tutti i cacciatori e poi il popolo».
Il romanzo è gustosissimo. Ora l’intero testo è disponibile liberamente online e magari lo si potrà leggere ai nipotini per Natale (anche se forse a distanza).
Dopo innumerevoli avventure in mare e in terra d’Africa tra turchi, zuavi, avventurieri e bellissime maliarde, Tartarino affronta finalmente l’ascesa ai monte dell’Atlante in cerca dei leoni .
Al termine di tanti inutili tentativi, finirà con l’uccidere un macilento e vecchissimo felino addomesticato, tenuto per compassione presso un convento di trappisti nella boscaglia. Ne seguirà un grande sconquasso. Trascinato in tribunale, dovrà pagare una multa salatissima per far fronte alla quale sarà costretto a svendere l’intera attrezzatura. Gli resteranno solo la pelle del malcapitato leone, poche altre carabattole che spedisce a Tarascona ed un cammello che nessuno vuole comprare. Per la compassione di un compatriota riesce ad imbarcarsi alla volta di Marsiglia e giunge finalmente nella cittadina natia.
A corto di balle fantasiose, è pronto ad affrontare il sarcasmo dei concittadini e ad autoisolarsi per sempre nella casa del Baobab. Con immenso stupore trova invece alla stazione di Tarascona una folla plaudente, la banda municipale ed i notabili. È un trionfo, la pelle di quell’unico leone, giunta via mare settimane prima, era stata considerata come solo una di quelle delle decine di animali certamente abbattuti; il cammello, mai visto da quelle parti, in un primo momento impaurisce perché ricorda la Tarasca ma Tartarino rassicura tutti dicendo:«È una nobile bestia, mi ha visto uccidere tutti i miei leoni!». La sera stessa nell’osteria inizierà il racconto della proprie gesta venatorie: «Figuratevi che una certa sera, in pieno Sahara….». La reputazione è stata salvata e il prode cacciatore diventerà una delle glorie locali.
Un po’ meno per nipotini, beata innocenza, è la somiglianza tra il personaggio di Tartarino e Zingaretti, il segretario del Partito democratico, non l’attore più amato degli italiani cui, probabilmente, fu debitore a suo tempo di tanto consenso nel Lazio ex feudo andreottiano e poi disorientato dalla frammentarietà del fronte degli altri candidati. È il primo presidente eletto due volte nella propria regione. Non ha fatto grandi studi, in fondo non tutti gli odontotecnici sono oltre il Po e tre solitari esami di filosofia non lo aiutano molto con Massimo Cacciari. Nel partito ha fatto strada, battendo alle primarie del 2018 Maurizio Martina, missing in action, e il mite Roberto Giachetti, già radicale e considerato troppo renziano per i gusti di quell’anno.
Un caustico ritratto di Nicola Zingaretti è stato dipinto sul Fatto Quotidiano da Vincenzo Bisbiglia il 18 marzo del 2019, quando la liaison con il Movimento Cinque Stelle era ancora lontana. Vi si ricorda come il segretario fosse stato definito per anni il “sor tentenna” e “er saponetta”, appellativi che Daudet troverebbe appropriati per l’esitante Tartarino.
Da quando l’inquilino del Nazareno è parte non piccola pur se insufficiente della maggioranza giallorossa, ha promesso con la consueta piacioneria che avrebbe domato molti leoni e forse riportato a casa la pelle di qualcuno di essi con cui adornare la sede del partito. Ora sembra essere rimasto all’addiaccio sotto le stelle dell’Empireo di Chigi. Come l’eroe di Daudet, promette che presto partirà per l’Atlante ma intanto si consola con la consultazione della mappa parlamentare, più ridotta certamente ma ugualmente abitata da personaggi da romanzo d’appendice.
Ogni tanto esibisce il trombone con cui sterminare i nemici, ma la cilecca è sempre in agguato. Caduto nelle sabbie mobili del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, assicura di essere pronto a vendere la propria pelle per portare casa come ieri lo ius soli oggi il Mes sanitario e intanto i suoi ascari di quel proponimento fanno orecchie da mercante algerino, per tacere del principale alleato di governo che ogni giorno gli avvelena i pozzi e gli somministra calici di fiele.
Disperato, si è spinto a imparare i dialetti locali e se non fosse in bassa fortuna la piattaforma Rousseau, probabilmente ne editerebbe una versione anche per il partito che fu di Moro e di Berlinguer. In fondo, visto il livello, anche nella sua casa politica “uno vale uno”. Gianni Cuperlo a parte, ovviamente, ma quello non alza un voto.
Intanto i mesi passano e dal suo popolo sempre più lontano gli giungono richieste pressanti di notizie circa l’esito della caccia. Continuando di questo passo, potrebbe esibire anche lui la pelle tarlata di qualche provvedimento a debito, rivendicare qualche briciola di Recovery Plan caduta dalla tavola dell’Epulone che presto ne gestirà ogni propaggine, assiso sulla piramide dei nuovi componenti dell’ennesima pletorica task force che farà ridere Ursula von del Leyen, come un tempo Angela Merkel e Nicholas Sarcozy di Silvio Berlusconi, mentre piangeranno gli italiani in attesa di una vera rigenerazione del Paese.
Intanto è il Cavaliere a essersi ulteriormente rigenerato nel corpo come Donald Trump e nello spirito per l’attimo di residua gloria ottenuto come dono natalizio grazie agli sconsiderati auspici di Goffredo Bettini. L’eterno Letta, Gianni e non Enrico il Pio che pontifica a Sciense Po, lo ha sconsigliato di legarsi al cadavere prossimo venturo. È uomo di cultura, conosce le torture medievali e saggiamente ne tiene lontano il proprio assistito. L’Uomo di Arcore gli deve molto.
Risorgono intanto astri dell’usato nel cupo orizzonte dell’Italia natalizia ma non troppo, incapace di puntare su persone nuove e di qualità. Alcuni pugili suonati escono dagli armadi spazzolandosi le spalle da qualche residuo di naftalina. Porte aperte per la presentazione dell’ennesimo libro e del pompatissimo documentario Rai, Edizione Straordinaria, di questi giorni. Per porre fine all’incubo infinito di Virgina Raggi, il centrodestra sembra puntare su Guido Bertolaso. Il Pd tirerà fuori Walter Veltroni e Francesco Rutelli che, per averle percorse, sanno che tutte le strade portano a Roma? Loro nelle buche preferirebbero veder cadere Carlo Calenda cuor contento che ancora crede e spera nell’appoggio del Pd. Il nuovo Tartarino se la caverà esibendo all’inclito pubblico una pelle tarlata e un cammello?
Nella Capitale si voterà nel 2021 e come cento anni prima si verificherà un’eclissi solare. Fu l’anno della vigilia della Marcia su Roma, speriamo non finisca allo stesso modo. Di sfiga nel 2020 dovremmo aver già fatto il pieno.
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