Le riforme imposte dal vincolo esterno
di GILBERTO TROMBETTA (FSI-Riconquistare l’Italia Roma; candidato sindaco Roma 2021)
«Saranno i mercati a imporci le riforme». D’altronde sono più di 40 anni che le cose vanno così, in Italia. Dall’ingresso nello SME. Uno dei primi vincoli esterni a cui ci siamo legati mani e piedi. Ma qual è il fine del vincolo esterno ricercato quasi patologicamente dai politici italiani a partire dalla fine degli anni ’70? È presto detto. Il vincolo esterno serve a imporci le riforme. Quali? Precarizzazione, deflazione salariale, aumento della povertà, aumento delle disuguaglianze, distruzione dello stato sociale, taglio della spesa pubblica, meno Stato e più mercato.
Sono queste le riforme che, da sempre, ci vengono imposte dal vincolo esterno. D’altronde fu lo stesso Guido Carli, Governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975 e Ministro del Tesoro dal 1989 al 1992, a indicarlo nel suo libro del 1992 Cinquant’anni di vita italiana. Secondo Carli il vincolo sterno serviva a imporre quella cultura – liberale e liberista – di cui la classe politica italiana era – a suo dire – clamorosamente sprovvista e che lui reputava fondamentale per garantire il corretto funzionamento di una società. Una società di mercato. Ovviamente. Quella cioè in cui lo Stato non deve intervenire nell’economia o deve intervenire solo a tutela del mercato stesso. Che, libero, non lo è mai stato.
Si tratta di quel vincolo esterno che noi abbiamo imparato a riconoscere attraverso la parola d’ordine dei suoi sacerdoti «Ce lo chiede l’Europa!». Perché non è vero, come sosteneva Carli negli anni ’90, che in Italia quella cultura mancasse. Purtroppo negli anni 90 erano già tanti i politici che a quella vetusta concezione si rifacevano. Tanto è vero che contro la cultura antidemocratica del vincolo esterno già si scagliava Lelio Basso nel 1951: «Contro la concezione tedesca della “sovranità statale”, di quella francese della “sovranità nazionale”, noi abbiamo affermato la “sovranità popolare” quindi democratica. A questo tipo di sovranità io tengo. E allora, quando arrivano al parlamento i “regolamenti comunitari” e ci si dice “sono obbligatori” perché così prevede il Trattato di Roma, io reagisco». La funzione del vincolo esterno era già nota negli anni ’70. Basta andarsi a riprendere le parole pronunciate da Massimo Gorla di Democrazia Proletaria nella seduta della Camera dei deputati del 13 dicembre 1978. Quella del famoso intervento di Giorgio Napolitano contro l’ingresso dell’Italia nello SME.
«[…] Se produciamo, infatti, norme senza sanzioni, se non possiamo ottenere il rispetto delle stesse, attraverso i meccanismi legislativi e politici che autonomamente poniamo in essere, e ci affidiamo ad un nuovo vincolo internazionale per ottenere tale risultato, non credo si debba insistere molto per sottolineare quale contenuta di perdita di sovranità e di indipendenza, economica e politica, si celi dietro tutto questo. Eppure questo è stato detto qui con molta chiarezza. È vero, è profondamente vero: succederà così, non, però, perché mancherà la volontà del Governo di realizzare fino in fondo quei contenuti sociali impopolari presenti nel progetto del piano triennale, ma perché, a questo punto, il Governo avrà la possibilità di trincerarsi anche dietro a nuovi fattori di vincolo e di ricatto internazionali. Questo succederà quando si tratterà di prendere le adeguate misure per difendere la nostra moneta -che se ne va a spasso con il marco, quando si tratterà di lamentarsi per la mancata cooperazione da parte degli altri paesi nell’affrontare i problemi del nostro sviluppo e, in particolare, delle nostre zone in condizioni di difficoltà, come il Mezzogiorno, e quando ci verranno poste condizioni per ottenere gli aiuti: allora sentiremo tutto il peso di questo vincolo».
Com’è andata, però, lo sappiamo tutti. L’Italia nel 1979 entrò nello SME nonostante tutti i – fondatissimi – dubbi. E, infatti, due anni dopo, nel 1981, ci fu il cosiddetto divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. Nonostante la drammatica esperienza dello SME, i politici italiani continuarono con la ricerca dolosa e patologica del vincolo esterno. Che trovarono con l’ingresso nell’Unione Europea nel 1992 e col ritorno allo SME nel 1997 funzionale all’adozione dell’euro. Anche in quel caso, però, a cosa stavamo andando incontro lo sapevano tutti. Lo sapeva Rampini, che nel suo libro del 1996 Germanizzazione, come cambierà l’Italia, ammetteva candidamente che grazie al vincolo sterno dell’euro «finalmente ci libereremo dello stato sociale ed economicamente interventista, finalmente privatizzeremo tutto».
Lo sapeva il giurista Aldo Bernardini, che nel suo libro del 1997 La sovranità popolare violata nei processi normativi internazionali ed europei fu uno dei primi a puntare il dito sull’incompatibilità tra Costituzione e trattati europei. Insomma, il vincolo esterno è stato perseguito per sostituire piena la occupazione e i salari dignitosi previsti dalla nostra Costituzione con la stabilità dei prezzi e la deflazione salariale. Per sostituire lo Stato col mercato. Come ha spiegato Carlo Galli nel suo Sovranità, «nel caso italiano, l’euro è stato apertamente perseguito dalle élite come “vincolo esterno” per limitare la sovranità economica del Parlamento, impedendone le “derive sociali” (lo stesso era avvenuto con il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia nel 1981)».
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