Miseria dell’anticomplottismo
di RICCARDO PACCOSI (ARS Bologna)
Il seguente intervento è parte di una coppia di articoli. Va dunque letto insieme al suo omologo Miseria del complottismo.
Una premessa per entrambi gli articoli
Complottismo e anticomplottismo, innanzitutto, non sono ideologie bensì costellazioni ideologiche che, da una parte, risultano estremamente eterogenee nella loro composizione interna e, dall’altra, stanno col passare del tempo acquisendo tratti politici e valoriali sempre più definiti.
Entrambe le costellazioni ideologiche hanno altresì in comune tre aspetti:
a) sono figlie del Web 2.0 e, precisamente, delle modalità proprie e specifiche di trasmissione ed espressione che quest’ultimo ha sviluppato;
b) rappresentano la fenomenologia di nuove forme di polarizzazione ideologica, che stanno soppiantando quelle del secolo scorso; a differenza di quelle del Novecento, però, le nuove polarizzazioni non afferiscono ad alcun pensiero sistematico né ad alcuna filosofia politica strutturata;
c) come cercherò di argomentare nei due articoli, entrambe le polarità sono funzionali alla riproduzione dell’ideologia dominante.
Data simbolica d’inizio: 11 settembre 2001
Mentre le teorie cospirative sono sempre esistite, l’anticomplottismo è un fenomeno per certi aspetti inedito: esso si sviluppa, per reazione, nel momento in cui le teorie del complotto, in seguito ai fatti dell’11 settembre 2001, assumono dimensione di massa nonché caratteristiche di costellazione ideologica.
In questa fase d’inizio, sono già ravvisabili gli aspetti enunciativi e di approccio che, di lì a poco, l’anticomplottismo verrà ad assumere. Questo per due ragioni:
a) prima dell’intervento dei debunker atto a contestare nel merito le teorie dell’inside job riguardanti l’attentato alle Twin Towers, sui media mainstream si manifestò da principio un’opposizione di tipo aprioristico e retorico (“e quindi? cosa vorreste dire? che si sono fatti l’attentato da soli?”); si ravvisò fin da subito, cioè, la futura inclinazione a non contestare soltanto le strategie occulte di potere nel merito, bensì a deridere anche la mera enunciazione della loro esistenza; quest’elemento, sul web, avrebbe poi assunto la forma della celebre esclamazione ironica e derisoria “gombloddo!”;
b) la polarizzazione fra le due costellazioni ideologiche di complottismo e anticomplottismo, farà sì che – per ragioni di conseguenza retorico-polemica e talora di malafede – la seconda delle due polarità abbia finito per svolgere il ruolo di accreditare come veritiera la narrazione dei media mainstream o, per meglio dire, di negarne la funzione propagandistica.
Esempio n° 1: il video del “grasso Bin Laden”
All’anticomplottismo va riconosciuta la rivendicazione d’un principio che, di per sé, non avrebbe nulla di ideologico: se da una parte il complottismo tende a essere un crogiuolo di pulsioni emotive e irrazionalistiche, l’anticomplottismo sostiene di contro il metodo logico-scientifico. Esso assume, cioè, la tesi secondo cui i media mainstream – per quanto possano essere legati al potere costituito – esprimono comunque giornalismo; ovvero esprimono metodologie di analisi e inchiesta che sono comunque superiori, sul piano tecnico, ad approcci come quelli complottisti tendenti a bypassare finanche i principi basilari dell’epistemologia.
Purtroppo, però, tutto questo risulta essere vero più su un piano enunciativo-teorico che effettivo.
All’atto pratico, difatti, l’anticomplottismo mette in atto processi cognitivi molto simili a quelli del suo omologo avversario, primo fra tutti il processo del pensiero selettivo. Esattamente come i cospirazionisti, debunker e affini elaborano infatti le proprie tesi selezionando e circoscrivendo quei dati e quei fattori che possano fornire conferma agli enunciati di partenza ed escludendo, di converso, tutti gli aspetti che possano confutarli. Di esempi se ne potrebbero fare migliaia, ma può essere sufficiente scegliere una delle tante e poco chiare vicende della fase storica nota come “guerra al terrore”, immediatamente successiva all’11 settembre.
Il 13 dicembre 2001, l’esercito americano disse di aver recuperato in una grotta dell’Afghanistan un video “autoprodotto” di Osama Bin Laden. Nel filmato, trasmesso da tutti i telegiornali, improvvisamente noi telespettatori ci trovammo di fronte a un “Osama Bin Laden” che, rispetto ai video-comunicati del leader jihadista andati in onda pochi giorni prima, risultava visibilmente ingrassato e che, a differenza che nelle altre registrazioni, rivendicava la paternità dell’attentato a New York. La goffa rozzezza di quella contraffazione fece sì che, in televisione, anche un giornalista non certo incline alle teorie cospirative come Michele Santoro, sentisse l’impulso di deridere ironicamente la veridicità del video.
I debunker, interpellati su un fatto del genere – che palesa la valenza smaccatamente mistificatrice del mainstream – scrollano le spalle.
Esempio (giocoso) n° 2: la strage di Piazza Fontana come “gombloddo”
L’Italia, più di qualsiasi altro paese europeo, ha una storia contrassegnata da teorie del complotto ante litteram. Il “68 durato dieci anni”, infatti, fu caratterizzato dal fenomeno storico noto come strategia della tensione.
Sin dal giorno successivo alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, la pubblicistica della sinistra di movimento formulò immediatamente la locuzione “strage di stato” contestando, così, la versione ufficiale dei media e delle istituzioni che attribuiva, invece, responsabilità al movimento anarchico. Essendo i fatti avvenuti da pochissimo tempo, questa formulazione non era all’inizio sorretta da prove. I depistaggi intorno alla strage e il ruolo attivo dei servizi segreti, infatti, sono aspetti che cominceranno a delinearsi soltanto a partire dalle inchieste giudiziarie del 1972. Eppure, la sinistra di movimento riteneva di poter divulgare ugualmente il concetto di strage di stato rivendicando il primato dell’analisi politica: essendo da poco avvenuti i fatti dell’autunno caldo, sul piano teorico-analitico risultava infatti evidente come la strage tornasse utile a tutte le forze politiche, padronali e internazionali ch’erano ostili al movimento operaio. Al di là del fatto che la vicenda giudiziaria sia rimasta a tutt’oggi opaca, l’acclarato ruolo attivo dei servizi segreti nel depistaggio, rivelò la correttezza di tale analisi quantomeno sul piano dell’individuazione delle forze e delle strategie presenti sul campo.
Orbene, proviamo allora a fare un gioco. Immaginiamo di poter sovrapporre, fantascientificamente, due continua temporali distinti: il decennio 1968-1978 della storia italiana e l’epoca attuale coi suoi social network.
Immaginiamo quindi che la strage di Piazza Fontana avvenga oggi, al tempo del Web 2.0. Molto probabilmente, subito dopo la strage una grande massa di persone comincerebbe a diffondere sui social network l’hashtag #stragedistato. Ma quale sarebbe l’immediata reazione di un’ulteriore massa di persone? Quale sarebbe il riflesso pavloviano d’una moltitudine di pari dimensioni? Certamente, la reazione e il riflesso sarebbero quelli di sbeffeggiare tale tesi implicante un coinvolgimento degli apparati di stato, al grido derisorio di “gombloddo!”. Di conseguenza, gli anticomplottisti non farebbero altro che avvalorare la tesi dei media mainstream incentrata sulla colpevolezza di Pinelli e Valpreda. O anzi no, forse non ci sarebbe neppure bisogno di arrivare alla “pista anarchica”. Forse, per loro, sarebbe sufficiente quella prima informativa della Questura di Milano che nel 1969, a un’ora dall’esplosione, divulgò voce in merito all’esplosione d’una caldaia. Insomma, vien da pensare che per debunker & company sarebbe forse più dignitoso accreditare questa tesi della caldaia esplosa piuttosto che prestare il fianco alla dinamica di quell’odiata narrazione che essi chiamano “gombloddo”.
Esempio n° 3: Paolo Attivissimo e i precari senza problemi di pensione
Quanto ipotizzato su Piazza Fontana è ovviamente nulla più che un gioco, nulla più che una provocazione retorica. È però possibile trovare molti esempi – questa volta reali – di come l’anticomplottismo tenda alla contrapposizione di principio rispetto a qualsivoglia enunciazione critica nei confronti del capitalismo. Un esempio illuminante, a riguardo, ce lo fornisce il debunker italiano più famoso in assoluto, ovvero Paolo Attivissimo.
Giunto alla notorietà grazie a un’indefessa attività di contestazione delle tesi inside job sull’11/09, Attivissimo estende negli anni successivi il proprio raggio d’azione a molte altre teorie del complotto circolanti in Rete. Il problema è che, alcuni anni orsono, il nostro eroe sceglie malauguratamente d’intromettersi anche in questioni riguardanti i diritti del lavoro.
Il 6 ottobre del 2010, l’allora Presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua afferma a Radio Radicale che l’istituto da egli presieduto non è in grado di svolgere la simulazione di calcolo per le pensioni dei precari. Immediatamente, si scatena online una campagna contro l’Inps; una campagna che stigmatizza le affermazioni di Mastrapasqua in quanto rivelatrici del fatto che milioni di precari, nel prossimo futuro, potrebbero ritrovarsi senza pensione. A quel punto, il buon Attivissimo decide di gettarsi nella mischia e di contestare suddetta campagna in quanto “bufala”. In buona sostanza – egli scrive in quei giorni – i precari la copertura previdenziale ce l’avranno eccome: la difficoltà da parte dell’Inps di effettuare proiezioni/previsioni ha cause tecnologiche e riguarda indistintamente tutti i lavoratori, precari e non. Dunque, conclude il Nostro, non bisogna “diffondere paure”.
A stretto giro, ad Attivissimo controbatte il sindacato milanese dei lavoratori freelance ACTA (che, di certo, non esprime orientamento politico estremista) argomentando come l’impossibilità da parte dell’Inps di fare previsioni, sia dovuta alla mancanza di contributi dei precari nei periodi della loro discontinuità lavorativa e, pertanto, come non sia assolutamente chiaro quali fondi di contribuzione potranno pagare le pensioni delle generazioni future; dunque, conclude ACTA, il paventare la futura mancanza di copertura previdenziale per milioni di persone, ha un fondamento più che concreto. Attivissimo, alla fine, risponde a sua volta ad ACTA e ammette la propria inesperienza sull’argomento.
Malgrado questa conclusione all’insegna dell’onestà intellettuale, però, come si fa a non essere colti da un sospetto? Come non sospettare, cioè, che la foga iniziale di Attivissimo nel denunciare la notizia come “bufala” non abbia rivelato la presenza, entro la sua visione del mondo, di un assioma recitante “critica al sistema socio-economico = complottismo”?
Esempio n° 4: i gruppi-facebook Siamo la gente, il potere ci temono e NWO-Italia
Se rispetto a Paolo Attivissmo posso solo enunciare un sospetto, ci sono altri due esempi in cui l’atteggiamento ostile verso qualsivoglia critica al sistema capitalista si rivela apertamente. Si tratta di due esperienze personali e dirette con altrettanti gruppi-facebook: Siamo la gente, il potere ci temono e NWO-Italia.
Il primo gruppo, molto conosciuto, è nato per contrastare la fenomenologia politico-culturale del Movimento 5 Stelle. Più specificamente, esso si pone l’obiettivo di denunciare, attraverso un’identificazione surreale e ironica, gli elementi di incultura e sub-cultura espressi dalla base e dai simpatizzanti di quella formazione politica. Ovviamente, come ravvisabile nel mio testo-gemello Miseria del complottismo, chi scrive si trova in sintonia con molte delle derisioni e delle elaborazioni satiriche espresse da quel gruppo. A un certo punto, però, durante il premierato di Mario Monti nel 2012, accade che nel gruppo in questione comincino a comparire vignette derisorie nei confronti di chiunque critichi quel governo dalla connotazione ideologica, notoriamente, ultra-liberista. Secondo le vignette del gruppo-facebook, in sintesi, gli attacchi al Governo Monti esprimono le approssimazioni e le pulsioni irrazionali che sono proprie del complottismo. Il motivo di questa convinzione sembrerebbe connesso a una tesi che, in quel periodo, trova ampia divulgazione in Rete: Mario Monti è una figura esprimente gli interessi e le strategie delle èlite economiche internazionali.
Il problema è che suddetta tesi non si fonda affatto su intuizioni o inferenze parziali come accade solitamente per le teorie cospirative, bensì è legata a banalissimi elementi di cronaca politica: a) l’ingerenza delle agenzie di rating sulla politica italiana; b) la reiterazione ossessiva, da parte di media e politica, dell’espressione “rassicurare i mercati”; c) la lettera inviata all’Italia dalla Commissione Europea nell’agosto del 2011, indicante la necessità di riforme liberiste anche a livello di modifica costituzionale; d) il consenso compatto e pedissequo di tutti i media mainstream all’azione di governo; e) il precedente incarico di International Advisor svolto da Mario Monti presso la banca d’affari Goldman Sachs; f) infine, gli effetti concreti – in termini di tracollo della domanda interna – generati dall’azione del governo “tecnico”.
Ma per Siamo la gente, il potere ci temono gli elementi sopra elencati non sono affatto cronaca, bensì mere supposizioni proprie di una visione “populista”. A suddetta visione, essi contrappongono un pensiero di sinistra e progressista che, in quanto tale, non può fare altro che respingere una lettura della realtà che attribuisca alle èlite economiche un ruolo di preminenza strategica rispetto ad altri attori sociali.
E qui arriviamo al punto: il complottismo è un insieme racchiudente le visioni politiche più disparate, mentre l’anticomplottismo è, culturalmente, perlopiù di sinistra. Di conseguenza, la sua strategia di fondo consta del diffondere l’idea che il proprio antagonista – il complottismo – altro non sia che la modalità espressiva e categoriale che il pensiero di destra è venuto ad assumere nel XXI secolo. La valenza aporetica di questo principio si disvela, però, nel momento in cui tutte le critiche al sistema capitalista – come quelle al Governo Monti sopra citate – vengono inscritte nell’insieme “teorie del complotto”. E’ allora inevitabile che tale inscrizione generi, sulla definizione storica della diade destra-sinistra, conseguenze non proprio irrilevanti. In buona sintesi, infatti, quanto appena descritto ci porta alla conclusione che sia in atto una strategia ideologica finalizzata ad attribuire qualifica di “destra” all’anticapitalismo tout court.
Una conferma ulteriore di quanto appena affermato mi è stata fornita di recente dalla seconda pagina-facebook menzionata all’inizio, ovvero NWO-Italia. Quest’ultima non è politicamente schierata quanto la precedente e, malgrado quanto sto per dire, ne apprezzo quasi sempre il contenuto satirico volto a deridere il complottismo nelle sue numerose quanto sgangherate articolazioni. Il problema è che nei primi mesi del 2015 – durante una discussione online non satirica ma analitica – ho chiesto agli altri iscritti della pagina se considerassero l’anticapitalismo di destra. Ebbene, su circa una decina di risposte la metà è risultata di segno affermativo: alcuni iscritti mi hanno risposto che in effetti sì, l’anticapitalismo è tendenzialmente di destra.
Ovviamente, quest’ultimo episodio è privo di qualsivoglia valore statistico. Mi sembrava però valesse la pena aggiungerlo ai fini di una panoramica generale.
Esempio n° 5: la guerra alla Libia confutata dai suoi stessi sostenitori
Sul problema del rapporto con la politica estera in generale e con la politica americana in particolare, vale innanzitutto quanto detto a proposito dell’11 settembre: volenti o nolenti, gli avversari della teoria inside job hanno finito per divulgare una tesi volta a negare la funzione propagandistica dei media mainstream e, dunque, la possibilità che la politica degli Stati Uniti possa essere letta in chiave di manipolazione informativa.
Nell’anticomplottismo, sembra essersi venuta a configurare un’idea di Occidente come ambito imperfetto ma, in ogni caso, progressista e “di sinistra”. A esso si contrappone un insieme eterogeneo ma stigmatizzabile – soprattutto per quanto riguarda la Russia – con la qualifica di “destra”. Per dirla con una battuta, l’anticomplottismo sembra voler divulgare l’idea che gli americani siano sì dei bastardi, ma siano altresì e in definitiva i “nostri” bastardi. Al netto di qualsivoglia critica agli Stati Uniti, insomma, questa visione assume come valore apriori l’internità al campo occidentale. Al di fuori del perimetro del liberalismo euro-atlantico, sembrano essi dire, ci sono solo Putin e la sua omofobia; dunque la destra, dunque il fascismo.
Per argomentare quanto questo filo-americanismo della costellazione anticomplottista sia vigente e aprioristico, si potrebbero fare numerosi esempi. Uno di essi concerne la guerra alla Libia del 2011.
In quell’occasione, non già i siti complottisti bensì le testate del Gruppo L’Espresso favorevoli all’intervento militare, furono costrette a confutare sia il contenuto delle dichiarazioni rilasciate dai governi Nato, sia l’analogo contenuto della risoluzione 1973 dell’ONU volta a legittimare l’attacco militare. Le dichiarazioni in questione – pronunciate pubblicamente da Obama, Cameron, Sarkozy e Napolitano – riferivano su azioni, da parte dell’allora governo libico, di bombardamento aereo su manifestanti inermi nonché sulla creazione di fosse comuni. Sia Repubblica (tramite l’inviato a Tripoli Vincenzo Nigro) che Limes (tramite il direttore Lucio Caracciolo), però, dovettero riportare il fatto che si trattava di notizie completamente false, inventate di sana pianta dall’emittente Al Jazeera.
Orbene, in questi casi di manipolazione informativa accertata e certificata dalle testate mainstream, la galassia debunker rimane in silenzio. Per l’anticomplottista, la “bufala” in ambito di politica estera sembrerebbe esser tale solo ed esclusivamente quand’è latrice di un’accusa nei confronti degli Stati Uniti o dei vertici dell’Unione Europea. Per notizie manifestamente false ma aventi per oggetto un avversario del campo occidentale, invece, nessun debunker esprimerà mai indignazione e men che meno urgenza di ripristinare un’informazione corretta.
Questa polarizzazione ideologica si è quindi acutizzata all’inverosimile nel 2014, in seguito allo scoppiare della crisi ucraina e al conseguente avvento dell’attuale fase storica, da più parti definita come “nuova guerra fredda”.
La Weltanschauung dell’anticomplottismo, definita dai suoi avversari
Come più sopra accennato, l’anticomplottismo è solo in parte quel che vorrebbe far credere di essere, ovvero il metodo logico-scientifico che si contrappone all’irrazionalismo. Esso sta assumendo, anche, una configurazione politico-ideologica dai tratti sempre più definiti e che può essere evinta elencandone i terreni di scontro:
a) in primo luogo, la critica degli anticomplottisti si riversa contro tutte le tesi enuncianti la possibilità che gli Stati Uniti portino avanti strategie occulte all’interno e all’esterno dei propri confini; di conseguenza, la geopolitica euro-atlantica e il sistema liberal-capitalista vengono posti come ambito d’identificazione primaria e preliminare;
b) in secondo luogo, l’anticomplottismo si rivolge contro le formazioni politiche nate in seguito alla crisi dei corpi intermedi prima e dei partiti tradizionali poi; vale a dire quelle formazioni che la propaganda di sinistra definisce “populismi” e che in Italia, ovviamente, hanno per epifenomeno il Movimento 5 Stelle; di conseguenza, la costellazione politica detta “sinistra” viene assunta come ambito preordinato di afferenza politica bypassando completamente il problema per cui, negli ultimi anni, la stragrande maggioranza della working class europea non ne riconosca più le parole d’ordine; anzi, in virtù della loro scelta “populista”, i ceti popolari diventano per certi aspetti un avversario politico;
c) in terzo luogo, l’anticomplottismo prende una posizione netta rispetto a un’altra polarizzazione ideologica di recente formazione, ovvero quella che vede contrapporsi sovranismo e globalismo; l’idea sovranista presuppone che la globalizzazione non sia un fenomeno naturale – e dunque da accettare fatalisticamente – bensì un fatto politico determinato dalle èlite economiche e definito da dispositivi giuridici; l’anticomplottismo sbeffeggia questa tesi perché essa presuppone la già citata preminenza strategica delle èlite – preminenza che debunker e affini, come già detto, rifiutano in quanto idea “di destra” che rimanda ai mussoliniani “complotti pluto-giudaici”; poco importa che le tesi favorevoli alla globalizzazione rivelino, oggi, un’incredibile allineamento strategico e valoriale tra sinistra e multinazionali; tantomeno importa che la dissoluzione degli Stati-nazione, recando con sé la parallela dissoluzione delle Costituzioni nazionali, stia mettendo in discussione quel costituzionalismo ch’è stato dottrina dello Stato prevalente in Europa dal 1848; no, quello che importa è affermare che gli Stati-nazione devono dissolversi poiché coincidono, sempre e comunque, col nazionalismo: una vaccata assoluta sul piano storiografico, ma così siam messi;
d) infine, l’avversario più recente è rappresentato da tutti coloro che si oppongono alle influenze della teoria transgenderista sul movimento Lgbt, sul movimento femminista e sul pensiero di sinistra in generale; il fatto che la contestazione di quest’influenza della teoria transgenderista sia stata diffusa utilizzando l’imprecisa locuzione “teoria gender” e che sia stata cavalcata principalmente dalla galassia dell’integralismo cattolico, è ovviamente il primo elemento d’irrisione polemica; se però qualcuno si azzarda a dire che la tesi transgenderista – secondo cui la distinzione maschio/femmina non sarebbe naturale ma solo derivante da imposizione sociale – sia una totale cazzata, beh, a quel punto ci vuol poco a esser tacciati come “di destra”.
Dunque, la Weltanschauung dell’anticomplottismo sembrerebbe riassumibile con la seguente lista di assiomi: il progressismo di sinistra identifica il capitalismo occidentale come ambito preliminare di appartenenza; il venir meno della connessione storica tra sinistra e classi lavoratrici non può, in ogni caso, dare adito a scelte politiche esteriori alla sinistra stessa; i ceti popolari, nel momento in cui assumono il “populismo”, sono anzi avversari politici; la dissoluzione degli Stati-nazione implica progresso ed emancipazione e, inoltre, è un processo storico coincidente integralmente con l’antifascismo; le lotte per i diritti civili costituiscono un’evoluzione rispetto a quelle per i diritti sociali o, comunque, è legittimo che esse abbiano assunto una valenza prioritaria nell’agenda politica.
In definitiva, analizzando l’anticomplottismo disponiamo semplicemente d’un osservatorio privilegiato per comprendere le trasformazioni in atto all’interno del pensiero di sinistra e/o progressista. Specificamente, disponiamo d’un mezzo per comprendere come quest’ultimo sia divenuto antitetico al marxismo e come abbia finito per identificarsi – sul piano filosofico ancor più che su quello politico – con la liberal-democrazia capitalista.
Il traguardo finale: far coincidere l’anticapitalismo con il fascismo
Tutta la situazione che ho descritto, volge verso un traguardo finale: far coincidere anticapitalismo e fascismo. Molti anticomplottisti che conosco e che stimo, ovviamente, negano di essere parte inconsapevole di un simile processo. Ma il punto è che, al di là delle intenzioni, esso si sta materializzando sotto i nostri occhi. Ad esempio, ogni qualvolta la teoria critica marxista mette in discussione il dissolvimento degli Stati-nazione oppure l’attribuzione di priorità alle istanze Lgbt oppure ancora certe teorie neo-colionaliste “di sinistra” sugli immigrati come capitale umano, puntuale giunge l’accusa di rossobrunismo.
Come dovrebbe teoricamente essere risaputo, chiamasi rossobrunismo una teoria politica propugnante un sistema istituzionale di tipo socialista e teorizzante una matrice comune, nonché un possibile sincretismo, tra fascismo e marxismo. Per chi scrive, quest’idea della matrice comune è priva di solidità storiografica giacché quei pochi e originari punti di connessione che potevano sussistere tra rossi e neri, sono stati completamente vanificati dalle scelte strategiche che il fascismo, a fronte del conflitto tra operai e capitale, ha compiuto negli anni ’20 e negli anni ’70 del Novecento. Nondimeno, come marxista devo indubbiamente misurarmi con un “rossobrunismo de facto” ch’è espresso oggi dalla classe lavoratrice.
Nel momento in cui il 43% degli operai francesi (ma il numero è destinato ad aumentare) vota per Marine Le Pen, si palesa il fatto che le istanze di classe si stiano saldando a sentimenti neo-autoritari. Se davvero si vuole contrastare questi afflati a favore dell’Uomo Forte, allora, è indispensabile tentare innanzitutto di comprendere in cosa consistano, oggi, le istanze dei lavoratori. Occorre sforzarsi di capire eliminando, innanzitutto, la categoria sprezzante – e a questo punto anti-operaia e anti-proletaria – di “populismo”.
In generale, le istanze della classe lavoratrice cercano a destra una rappresentanza perché esprimono il rifiuto di quella globalizzazione e di quella società liquida che la sinistra, al contrario, spesso esalta e assume come orizzonte d’emancipazione. Tali istanze esprimono altresì il fatto che la maggioranza degli esseri umani, come ha scritto Costanzo Preve, non è affatto compiaciuta bensì vive come un dramma la Morte di Dio; così come vive con angoscia – seppure contraddetta dall’adesione al consumismo – la correlata proposta d’un senso della vita eslcusivamente fondato sul godimento del presente.
Prendere atto di questi problemi – cioè rifiutare la deterritorializzazione, rifiutare un libertarismo corrottosi in edonismo, rifiutare la destrutturazione delle identità e dei retaggi generazionali – significa fare critica anticapitalista e non ha nulla, assolutamente nulla a che vedere con una revisione storiografica del fascismo.
L’ideologia dominante, il pensiero progressista – e, come già detto, la costellazione anticomplottista in quanto parte di quest’ultimo – muovono ogni passo in senso invece opposto, ovvero verso il fine di condurre l’immaginario collettivo a un’identificazione definitiva tra anticapitalismo e fascismo.
Per ora, ciò avviene solo tramite voci particolarmente spregiudicate. Sul sito di MicroMega, per esempio, la erroneamente sottovalutata pornostar Valentina Nappi ha scritto che l’anticapitalismo presuppone comunque una visione di società organica e, pertanto, esso è naturaliter di destra.
Ma nel 2017, con le elezioni presidenziali francesi, arriveremo probabilmente al redde rationem. Assisteremo a uno spettacolo paradossale durante il quale ceto medio e caviar gauche d’Oltralpe scenderanno in piazza contro un “pericolo fascista” sostenuto, al contrario, da operai e disoccupati. A quel punto, la campagna contro il complottismo diventerà campagna contro chiunque enunci un ruolo di preminenza strategica delle èlite, contro chiunque osteggi la globalizzazione, contro chiunque sostenga un’istanza di società organica e comunitaria in contrapposizione all’atomizzazione individualista. A quel punto, ogni teoria critica incentrata sul conflitto di classe verrà accusata di rossobrunismo e l’intera classe lavoratrice, soprattutto, verrà stigmatizzata come marmaglia sostenitrice del fascismo.
Se si vuole evitare questo scenario, occorre prendere atto che, sul piano dei valori, la cesura tra sinistra e ceti poveri potrebbe essere irrecuperabile. Questo non implica affatto lo spostarsi a destra, bensì qualcosa di più complicato e nondimeno necessario: elaborare una politica autonoma della classe lavoratrice.
Una conclusione per entrambi gli articoli
Complottismo e anticomplottismo vanno parimenti combattuti in quanto espressioni – a volte inconsapevoli, a volte in malafede – dell’ideologia dominante. Il complottismo è un approccio critico all’esistente che, negando l’esistenza della soggettività sociale, propaga una visione fatalistica e dunque rassegnata. L’anticomplottismo, invece, è strumento ideologico diretto dello stato di cose esistente, in quanto la sua funzione consta del negare e attribuire qualifica di “destra” all’idea che le èlite economiche, in questa fase storica, abbiano una preminenza strategica.
L’unica soluzione per uscire da questa polarizzazione ideologica che blocca il libero sviluppo della teoria critica, è quella di analizzare le cosiddette teorie del complotto caso per caso e senza pregiudizi.
Infine, è necessario rivendicare il primato dell’analisi politica – riguardante i rapporti di classe e le strategie di potere – nei confronti tanto dei media mainstream quanto dell’informazione 2.0.
fonte: http://www.quadernirozzi.it/2015/10/26/miseria-dellanticomplottismo/
* Leggi l’articolo gemello: Miseria del complottismo.
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