Klaus Schawb e Thierry Malleret, “Covid 19: The great reset”.
Il prof Schwab è un ingegnere che ha anche un dottorato in economia alla famosa Università di Friburgo, in pratica la patria dell’ordoliberalesimo, con un master in Public Administration ad Harvard, fondatore del Word Economic Forum[1] ed autore di un libro di grande successo come “The Fourth Industrial Revolution” nel 2016. Si tratta, insomma, di una persona con un curriculum accademico indiscutibile, apprezzabilmente interdisciplinare, e di certissima derivazione ideologica-culturale. Uno dei papi del capitalismo contemporaneo, insomma.
Thierri Malleret è più giovane, sulle sue spalle sarà caduta la redazione di gran parte del libro. Si occupa di analisi predittiva (una remunerante specializzazione) e di Global Risk al Forum. Educato alla Sorbona in scienze sociali e specializzato ad Oxford in storia dell’economia (master) ed economia (dottorato). Si è mosso tra banche d’affari, think thank, impegni accademici e servizio presso il primo ministro francese.
Questo libro fa parte di una proliferante letteratura. Un tipo di letteratura divulgativa ed esortativa, molto generica e contemporaneamente molto larga nella visione, fatta per tradursi in presentazioni da convegno attraenti e stimolanti, dirette ad un pubblico di manager e imprenditori che hanno bisogno di sentirsi consapevoli, aggiornati e progressisti con poco sforzo. Una lettura da weekend sul bordo della piscina.
Una letteratura quindi di medio successo[2], diretta ad una élite mondiale ma anche a quel vasto mondo che aspira diventarlo. Ed una letteratura che ha diversi versanti, quello più aziendalista e quello più statalista, più liberal e più conservative, più basato sull’economia e più sulle scienze sociali e politiche. Un esempio di impostazione statalista, liberal e fondata sull’economico è quella di Mariana Mazzucato in testi come “Il valore di tutto”[3] (2018), o “Mission economy”[4] (2021). In questi due testi, di cui il primo costituisce la base teorica del secondo, l’economista inglese cerca di rimettere in questione la pretesa dell’economia finanziarizzata (e concentrata sul “shareholders value”) di contribuire allo sviluppo sociale in favore di una economia che metta insieme settore pubblico e privato intorno a “missioni” e sia concentrata sull’effettiva creazione di valore per tutti gli “Stakeholders”. Nella stessa direzione, ma con uno scopo più limitato, va il libro di Stephanie Kelton “Il mito del deficit”[5], che si sforza di affermare il punto di vista della Teoria Monetaria Moderna (MMT) e per questa via una “economia per il popolo” che riesca a superare i miti dei limiti alla spesa pubblica e del debito. Invece della politica monetaria la funzione della stabilizzazione macroeconomica è affidata, in questa prospettiva, alla spesa discrezionale per ottenere una economia migliore per tutti. La proposta di maggiore sostanza è di inserire una “funzione di guida automatica” attraverso una regola anticongiunturale di assunzione in pubblici servizi altamente decentralizzati e scelti dalle comunità.
Uno sguardo più concentrato sull’evoluzione delle tecniche, e rivolto a soluzioni meno radicali, se pure in direzione di maggiore regolazione (in particolare della Gig Economy) e protezione dell’occupazione e dei prevedibilmente tanti nuovi disoccupati, è presente nel libro di Richard Baldwin “Rivoluzione globotica”[6] del 2019.
Sguardi attenti all’economico, ma con una prospettiva piuttosto ampia e socialmente densa, sono quelli degli ultimi libri di Paul Collier “Il futuro del capitalismo”[7] (2018), e di Raghuram Rajan “Il terzo pilastro”[8] (2019), oppure, da una prospettiva più liberal, di Thomas Piketty “Capitale e ideologia”[9] (2020). Collier identifica “nuove ansie”, in modo non dissimile da tutti gli altri, e cerca di trovare soluzioni in una nuova etica da rifondare nel sistema economico e sociale. In modo non dissimile da Rajan e Fukuyama, l’autore riafferma la necessità di coesione e identità sociale ma ricerca un modo di riaverla compatibile con le condizioni di frammentazione e pluralismo della modernità. Paradossalmente la risposta non è né nella aerea identità mondiale (che si muterebbe in dispotismo) né nella obsoleta identità statale, ma in quella dei “luoghi”. Intorno a questo concetto si può anche ricostruire un’etica di impresa nel rapporto con il territorio e la creazione di una società inclusiva che rimetta sotto controllo i tre “divari” essenziali: di classe, geografico e globale. Anche l’ex banchiere centrale indiano ed ex professore di finanza alla Booth School of Economics di Chicago, Rajan, sostiene la necessità di ritrovare una via di mezzo (un “terzo pilastro”) tra Stato e mercati ed inquadra in un vasto discorso storico il diesquilibrio provocato dalla svolta neoliberale che porta all’affermazione del populismo. Senza dimenticare di allargare a Cina e India il suo sguardo torna a proporre quindi un “localismo inclusivo” che attribuisca potere alle comunità e le protegga con una “rete di sicurezza”. Le comunità da rivitalizzare dovranno essere basate sulla prossimità (come per Collier) e sia sul sostegno dello Stato come essere dotate di una sovranità responsabile non indifferente alle responsabilità internazionali. Anche qui per le imprese si tratta di passare dalla massimizzazione del profitto a quella del valore. Thomas Piketty, con la sua consueta generosità espositiva, ricostruisce a largo raggio i “regimi della disuguaglianza” nella storia dell’umanità fino a giungere a quella che chiama “la società dei proprietari” (anche detta “capitalismo”). Da questa nella fucina del XX secolo è emersa sia la soluzione socialdemocratica sia, in seguito, l’“ipercapitalismo”. Il testo, enormemente lungo e prolisso, si limita in ultima analisi a rilanciare il progetto federale europeo in senso sociale affinché si sottragga a quella che chiama la “trappola social-nativista”, e ad avviare il superamento del capitalismo attraverso gli istituti della “proprietà provvisoria” (per via fiscale) e della deliberazione aziendale.
Quindi si possono leggere, in una prospettiva più ampia e sensibile agli assetti geopolitici in mutamento, i nuovi libri di Branko Milanovic “Capitalismo contro capitalismo”[10] (2019) e di Francis Fukuyama “Identità”[11] (2018). Milanovic distingue le forme idealtipiche del “capitalismo liberal-meritocratico” e del “capitalismo politico”. Il primo liberale ed occidentale, il secondo orientale e illiberale (ovvero “comunista”). Nella prefazione la crisi post-Covid è identificata come causa di tre principali effetti: la recrudescenza dello scontro tra Usa e Cina (ovvero tra due “capitalismi” nella sua classificazione); la riduzione delle supply chain mondiali e quindi della ipermondializzazione; la rivalutazione del ruolo dello Stato nella vita economica. Da ultimo, Fukuyama, in un libro concentrato sul problema della crescita dei populisti, evidenzia il bisogno di thymos, riconoscimento, dignità, identità, dai quali non ci si può sottrarre.
L’impostazione che danno gli autori di “Covid-19 The Grand Reset” è compatibile con buona parte di questa letteratura, e non di rado la cita in alcuni passaggi chiave. Come la Mazzucato propongono di passare dalla cattura del valore per gli azionisti alla creazione per gli “Stakeholders”, come la Kelton superano l’ossessione per il deficit pubblico e la paura dell’inflazione, come Baldwin descrivono gli effetti della transizione tecnologica e la percepiscono anche come una minaccia davanti alla quale occorre far fronte con più protezione, con Collier e Rajan hanno in comune l’attenzione al territorio ed ai luoghi, come alle identità. Temono come Milanovic il protagonismo della Cina e la crescita dei populismi come Fukuyama.
Tuttavia, la soluzione che propongono è molto meno centrata sul protagonismo statuale rispetto alla Mazzuccato ed alla Kelton (con riferimento al piano di occupazione), è meno localista di Collier e Rajan e su questo molto più in sintonia con Piketty. Si tratta di una soluzione integralmente elitista e fondata sul protagonismo delle grandi aziende globali, alle quali chiedono un deciso cambio di prospettiva e quindi di farsi carico della responsabilità sociale verso le comunità, e dei relativi oneri. Si tratta, in un certo senso e sul piano retorico, di una svolta effettiva: la ripresa della generazione dei beni pubblici intenzionalmente guidata e della conseguente pianificazione. Ma guidata, e qui c’è tutta la differenza possibile, dai grandi attori di mercato. Ovvero, in altri termini, pensata per garantirne la centralità anche dopo il neoliberismo come lo abbiamo conosciuto.
Bisogna essere attenti, il capitalismo avrà anche un suo “spirito”, ma è capace di adattarsi a sempre nuovi ambienti, plurale e decentrato, metamorfico. Lontano dall’essere derivato e diretto dalla tecnica e dall’economico il sistema di regolazione è sempre essenzialmente fondato su una egemonia[12] e questa porta in esistenza delle distribuzioni e delle soggettività, nuove istituzioni, opportunità. La letteratura citata dunque cerca consapevolmente di rigenerare il capitalismo affinché all’ordine segua l’ordine, ed alla centralità dei soggetti creati dal sistema di regolazione neoliberale segua quella dei medesimi (al contempo cambiati). Se la crisi del modo di regolazione ‘fordista’, al calare del millennio, estremizzò e al tempo pervertì gli elementi di questo[13], allargandoli su scala mondiale attraverso una potente dinamica di integrazione subalterna (ponendo al centro nuovi assetti tecnologici e la creazione dell’ordine nel quale viviamo), qui si tratta di ripetere l’operazione. Estremizzare e pervertire, per superare/confermare l’ordine sociale esistente e saltare nel prossimo.
Nel post “Il Proconsole imperiale”[14] avevo compiuto il breve divertissement di ricordare l’inno all’ordo renascendi di Rutilio Namaziano[15], scritto nel 417 d.c. In esso il senatore di origine romano-gallica esprime lo sforzo terminale di una illustre ed antica cultura politico-istituzionale di elaborare le strategie necessarie perché i privilegi e le prerogative siano salvate dal disfacimento. Per rilegittimarsi al governo, ricorda Rutilio ai suoi pari, bisogna esercitare una frenata potestas, una moderazione, e risuscitare in tal modo l’entusiasmo ed il consenso popolare intorno a sé, ovvero intorno alla virtus, al meritum, ai boni. Con il suo poemetto, in altre parole, cerca di richiamare tutti i membri dell’ordine, i vecchi come i nuovi, i vari lignaggi, ad una coscienza comune. Quella di essere, alla fine, la pars melior humani generis. L’unica che può indicare, in mezzo alle rovine di un mondo che finisce, la “legge della rinascita”. Ovvero il principio del risorgere dalle proprie stesse rovine.
Come sappiamo non funzionerà. Dopo sessanta anni, l’ultimo imperatore d’occidente sarà deposto.
In “Covid-19: the great reset”[16], i due autori tentano qualcosa che assomiglia al tentativo della casta senatoria nel tardo Impero Romano. Con la stessa buona fede e protervia propongono di essere incaricati dalla società, in quanto clarissimi e boni, di risolvere i problemi che essi stessi hanno provocato. Un tentativo condotto nella stessa linea del libro successivo, “Stakeholder Capitalism”, con Peter Vanham, in uscita in questi giorni[17]. E, peraltro sulla traccia dei suoi libri precedenti[18] ed in linea con il “Manifesto di Davos”[19].
L’operazione ideologica che è tentata in questi testi è di enorme ambizione, non va sottovalutata. Si tratta di raccogliere la sfida posta dall’evidente, e non nascosto, fallimento dell’economia neoliberale, eccessivamente concentrata sul breve termine, sull’arricchimento come rapina invece che come giusto effetto della creazione di valore, sull’esaltazione delle parti peggiori dell’uomo, sulla distruzione della natura entro e fuori di esso, per rovesciarlo in un successo dei medesimi attori. Una vera e propria rifondazione ideologica dall’alto che è espressamente proposta dalle élite per le élite di fronte al baratro del conflitto, della perdita di egemonia e di controllo del mondo e, forse, della rivoluzione (come arriva a dire, cercando di stimolare il senso di sopravvivenza del capitalismo). Si tratta di un tentativo di riaggregazione di classe, anche oltre e sopra le differenze e le fratture geopolitiche in via di allargamento. Una riaggregazione necessaria e decisiva per ricandidarsi alla gestione da una posizione più salda.
Ci vuole una straordinaria dose di pazienza per ascoltarli, ma ci proveremo.
Il libro è strutturato in alcuni “Macro reset” e “Micro reset”.
I “Macro Reset”, ovvero la risistemazione (che è contemporaneamente un azzeramento, ed una rimessa a posto) sono insieme economici, sociali, geopolitici, ambientali e tecnologici. Al contempo i “Micro Reset” riguardano alcune tendenze come l’accelerazione della digitalizzazione, la maggiore resilienza delle catene logistiche mondiali, le modifiche nel governo e un nuovo capitalismo orientato agli interessi (“Stakeholders capitalism”). Ma riguardano anche una rimessa a posto del sistema produttivo nel suo insieme, con un drastico processo di de-densificazione e cambiamenti importanti nell’ambiente. Infine, per gli autori ci sarà un cambiamento antropologico, niente di meno che la “ridefinizione dell’umanità”, e delle scelte morali. Cosa che porrà in questione le definizioni della sanità mentale e del benessere stesso. In definitiva saranno da cambiare interamente le nostre priorità.
Occorre fare due precisazioni prima di procedere con la lettura: in primo luogo tutta la ricostruzione è fondata sulla teoria della complessità, organicamente contraria alla ricerca di nessi e meccanismi causali gerarchicamente ordinati (di una spiegazione comprensiva). L’effetto è di una sorta di affastellarsi orizzontale di quadri interpretativi e di fenomeni. Dichiaratamente interdipendenti, e soggetti al primato della velocità. Chi volesse cercare l’esplicazione di una qualche legge di sviluppo, o di una teleologia resterebbe quindi deluso.
La seconda precisazione, necessaria per non leggere in modo sbagliato le previsioni contenute nel libro, è che sono, appunto, previsioni, non prescrizioni. Molte delle conseguenze più gravi e distruttive dell’evento pandemico sono semplicemente descritte, gli autori non necessariamente le giudicano positive o le desiderano. In effetti non si impegnano a farci comprendere fino a che punto le giudichino in ultima analisi positive (anche se in alcuni casi si può supporre sia così, perché ogni descrizione è sempre almeno in parte normativa), perché il loro punto è strettamente un altro: che fare?
Tenendo conto di ciò la crisi del Covid-19 è essenzialmente interpretata come un potentissimo acceleratore di dinamiche disparate, se pure intrecciate. Se si parte dalla risistemazione tecnologica l’enfasi passa sull’accelerazione delle trasformazioni digitali ed i cambiamenti nei consumi e nella regolazione. Invece, se si muove dall’azzeramento (certo creativo) economico il Covid-19 introduce elementi di incertezza (tra i quali la scelta tra salvare le vite e l’economia) nel nesso tra crescita economica e occupazione, politiche monetarie e fiscali, alternativa tra deflazione ed inflazione, destino del dollaro americano. Dalla risistemazione sociale si muove dall’attuale ineguaglianza verso un nuovo contratto sociale e la ripresa del “big goverment”. Sul piano geopolitico si tratta di muoversi nella crescita della rivalità tra Usa e Cina, oltre che la tendenza ad una nuova regionalizzazione. E per l’ambiente affrontare i rischi pandemici e dell’inquinamento, mettendo insieme per l’avvenire le politiche ambientali e quelle pandemiche.
Questa è la mappa del libro.
Insomma, in poco meno di 300 pagine il testo cerca di dare una sintetica immagine del mondo e del suo destino, alla portata di un weekend di un manager o politico medio. Si parte dalla qualifica di crisi senza paralleli[20] nella storia moderna attribuita alla dinamica mondiale attivata dal coronavirus, e dalla chiara enunciazione, fatta a giugno 2020, del fatto che la pandemia è intervenuta ad accelerare linee di faglia, fallimenti di cooperazione, che non torneranno mai più al loro posto. Il mondo di domani sarà quindi necessariamente e completamente diverso dal mondo di ieri. Avremo due ere, “prima del coronavirus” (BC) e “dopo il coronavirus” (AC). Quindi “The Great reset” è, con le parole degli autori, “un tentativo di identificare i cambiamenti futuri e di apportare un modesto contributo a delineare ciò che potrebbe assomigliare alla forma più desiderabile e sostenibile di questi”[21].
La proposta degli autori è di mettere a fuoco un framework concettuale semplificato che aiuti a riflettere in questa situazione di estrema tensione e disordine per creare senso in essa (“making sens of it”). L’obiettivo è dunque esplicitamente politico.
I cambiamenti sistemici che propongono di considerare drasticamente accelerati dalla crisi pandemica sono i seguenti, e tutti già in corso:
– La ritirata parziale dalla globalizzazione,
– La crescente separazione tra le economie di Usa e Cina,
– L’accelerazione dell’automazione,
– Le preoccupazioni per la crescente sorveglianza,
– Il nazionalismo e la paura per l’immigrazione,
– Il crescente potere della tecnologia.
Il punto è che queste accelerazioni potrebbero rendere possibili cose prima inconcepibili, come forme di politica monetaria (helicopter money e MMT), il cambiamento delle priorità sociali, radicali forme di tassazione e di welfare, drastici riallineamenti geopolitici. Potrebbero, anzi dovrebbero. Se non lo faranno si andrà incontro ad una fase di torbidi, di conflitti, forse di guerre e di rivoluzioni.
Vediamo meglio, però, la dimensione Macro della ‘risistemazione’.
Per cominciale viene esplicitato il framework ideologico: il mondo del XXI secolo è segnato essenzialmente dalla “interdipendenza”; prodotta dalla globalizzazione e dal progresso tecnologico essa viene definita testualmente come “reciproca dipendenza”, anzi, per essere proprio precisi, come una “dynamic of reciprocal dependence among the elements that compose a system”[22]. Dunque, il mondo è orizzontale, concettualmente attraversato da dipendenze, che, però, mettono tutti sullo stesso piano. Un “sistema” nel quale le parti non possono fare le une a meno delle altre. Quindi “iperconnesso”, “concatenato”. Insomma, nel quale sono “tutti nella stessa barca”.
Potrebbe sembrare ovvio e non problematico (se si sceglie di non far caso a che si tratta di una nave per la tratta degli schiavi, e la maggioranza dei passeggeri sono in catene).
È chiaro che se si segue pacificamente l’immagine della “stessa barca” e dei felici passeggeri di 193 “cabine separate”, allora i rischi diventano tutti interconnessi, sistemici, orizzontali, interdipendenti.
È in questa specifica mossa, posta all’avvio del libro e inavvertita quasi, che si radica l’invito di affidamento all’ordine capitalista, ed ai suoi migliori campioni, le grandi imprese raccolte a Davos (ed altrove). Come proponeva Quinto Aurelio Simmaco, ideologo nella stessa linea di Rutilio Namaziano e negli stessi anni, mentre l’impero si apprestava a cadere ed era pieno di ‘barbari’, i nobili clarissimi, membri dell’Ordo, erano “la luce del mondo” e per questo autorizzati a gestire il governo degli altri uomini. Non era dal potere politico (in quel caso imperiale, nel nostro nazionale) che derivava la virtus, ma dall’investitura dei pari e dalla tradizione stessa. Ma, qui l’astuzia della costruzione ideologica: non si tratta di avere solo il diritto a governare (come vuole in fondo il neoliberismo rozzo nel quale siamo stati fino ad ora) ma anche il dovere. L’intero discorso di Schwab si muove su questa antica traccia: la virtus è un dono che non può restare infruttuoso. Nessun disimpegno è ammesso, c’è una identità profonda tra il bene collettivo e la responsabilità e capacità del sistema delle grandi imprese di conseguirlo. Lo “Stakeholders capitalism”, appunto. Saranno loro, direttamente, a doversi fare carico dei beni pubblici da distribuire, dei giochi da organizzare, della coesione, del controllo, e della pace.
Dicevamo che siamo su una nave negriera che, purtuttavia, viene descritta dai nostri come se fosse un transatlantico nel quale (è vero) ci sono cabine di prima e seconda classe, e talvolta dei disordini, ma anche una salda guida che deve solo riconoscersi come tale per far andare tutto al suo posto. Riconoscersi come guida significa, necessariamente, accoglierne la responsabilità. Ciò è tutto.
O meglio lo sarebbe, se non fosse che in questo modo della situazione nel quale il mondo è si perde l’essenza: si perdono le catene da rompere.
In fondo tutto dipende da pochi slittamenti di senso, da alcuni incroci nei quali si forma la coesione di senso del nuovo paradigma.
Uno di questi è che la dipendenza[23] di tanta parte del mondo da poca altra, e dei molti dai pochi, è riletta dagli autori come “interdipendenza”. A tal fine viene fatto uso del cosiddetto pensiero della complessità. Per Schwab ed il suo coautore il primo fattore di analisi è dunque prendere atto che la “interdipendenza” orizzontale invalida il pensiero a “silo”, capace solo di dividere i singoli problemi in compartimenti specialistici. Nell’esempio che fa il libro, i disastri infettivi hanno effetti diretti sui “fallimenti della governance globale”, sull’instabilità sociale, la disoccupazione, le crisi fiscali e le migrazioni involontarie. E ognuna di queste aree di crisi ne influenza altre nelle dimensioni economiche, societarie, geopolitiche, ambientali e tecnologiche.
Il secondo fattore caratterizzante è la “velocità”. La cui prima espressione è il 52% della popolazione mondiale oggi collegata ad internet, il miliardo e mezzo di smartphone, i 22 miliardi di device connessi con la Iot. Tutto, perciò, si muove più velocemente, incluse le infezioni, e come risultato tutti operiamo ormai in una “real-time society”, in una nuova cultura dell’immediatezza, ossessionata dalla velocità, che apparentemente fornisce tutto just-in-time. Una vera e propria dittatura dell’urgenza. Che (anche qui fa capolino l’ideologia) rende ancora più evidente lo scollamento con la lentezza della decisionalità pubblica. Secondo decisivo slittamento e cerniera.
Il terzo è la “complessità”. Ovvero “ciò che non capiamo o troviamo difficile capire”, ovvero (come voleva Simon), “un insieme fatto di un gran numero di parti in interazione in modo non semplice”. Parti nelle quali non ci sono collegamenti causali visibili tra gli elementi, e che sono quindi virtualmente impossibili da predire. Un esempio è ovviamente la pandemia stessa, che è un sistema adattivo complesso composto di molte differenti componenti o frammenti di informazione (in campi che vanno dalla biologia alla psicologia). Un sistema dunque difficilissimo da prevedere e nel quale ogni parte si interconnette con tutte le altre secondo una logica ricorsiva e quindi oscura. Un sistema molto più grande della somma delle sue parti. Dunque, il punto fondamentale è che “la complessità crea limiti alla nostra conoscenza e comprensione delle cose” fino a che potrebbe soverchiare la capacità dei decision maker di prendere decisioni ben informate. È per questo che, in profonda continuità con l’ispirazione più profonda della ideologia neoliberale, la soluzione dei problemi non è la ripresa del potere statuale, della democrazia popolare, o del primato delle leggi sugli interessi individuali, ma lo “Stakeholders capitalism”. Ovvero è la rinnovata centralità, ma nella responsabilità, dell’ordine delle imprese (grandi), rilette come primarie fornitrici di beni pubblici. Beni pubblici che queste possono creare e distribuire in fondo proprio perché decentrate, complesse, informate (ognuna dei suoi specifici stakeholders).
Abbiamo quindi una lettura della situazione informata all’obiettivo di essere semplice e desiderabile, che sceglie di leggere il mondo sotto la triplice lente di una interdipendenza orizzontale, della velocità e della complessità. Che lo pensa decentrato, libero, imperniato su un ordine di “boni” e di “clarissimi”, chiamati al governo dalla loro stessa “virtù”.
Ma vediamo ora quale è la situazione, quali i “Reset” (ristrutturazioni, messe al loro posto, azzeramenti).
I reset economici
Ci sono quindi le ristrutturazioni, risistemazioni, messe a posto e azzeramenti (tutto insieme) di tipo economico.
Secondo alcune analisi recenti gli effetti sulla crescita economica si faranno sentire per almeno 40 anni, e non andrà come le altre volte (nelle quali alla fine l’elevata mortalità cambiò i rapporti di forza in favore dei lavoratori), perché la tecnologia cambierà il mix. Inoltre, come ha detto Jin Qi (un importante scienziato cinese), questa epidemia tenderà a restare e coesistere per lungo tempo, diventando stagionale. Né ha veramente senso il presunto trade-off tra salute ed economia: comunque se non si risolve il problema le persone non torneranno alla loro vita precedente, dunque “il governo deve fare tutto quel che è necessario, spendendo tutto quel che costa negli interessi della nostra vita e salute collettiva per riportare l’economia alla sostenibilità”[24].
Nello svolgere la ricostruzione dei massivi impatti dell’epidemia (al giugno 2020), gli autori finiscono per concentrarsi anche sull’impatto della tecnologia sul mondo del lavoro. È chiaro che l’automazione è distruttiva, ma nel tempo incrementa la produttività e la ricchezza, che alla fine provoca una maggiore domanda di beni e servizi e quindi nuovi tipi di lavori che riassorbono la disoccupazione. È corretto, scrivono (si tratta in fondo della cara vecchia Legge di Say), ma in quanto tempo? Inoltre, la pandemia stessa, e le sue misure di distanziamento sociale, ha accelerato enormemente questi processi di distruzione. Processi che, di necessità, provocheranno centinaia di migliaia, o milioni, di lavori persi. L’analisi degli autori è sotto questo profilo ormai standard[25]: man mano che i consumatori preferiscono servizi automatizzati ai loro omologhi faccia-a-faccia quel che accadrà ai call center si estenderà. Il processo di automazione, che non è mai lineare, subirà un salto in corrispondenza della recessione economica, e sempre più imprese messe alle strette cercheranno di aumentare la produttività (intesa come rendimento per unità di capitale investito), sostituendo i lavoratori a bassa competenza con l’automazione. I lavoratori a bassa competenza impegnati in lavori di routine (nella manifattura come nei servizi, la ristorazione o la logistica) ne saranno dunque colpiti. Il mercato del lavoro si polarizzerà tra pochi lavoratori ad alte competenze e salari e tutti gli altri. Nel futuro più remoto, invece, potremmo assistere a ondate di nuova occupazione in modi e forme oggi non prevedibili.
Nell’era post-pandemia la nuova normalità economica potrebbe essere quindi caratterizzata da una crescita più bassa, con declino della popolazione in molti territori e nazioni. In queste condizioni per gli autori dobbiamo cogliere l’occasione di avere una “pausa di riflessione” e introdurre modifiche istituzionali e delle scelte politiche. Come avvenne dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando fu promossa la Conferenza di Bretton Woods e si espanse in Europa il Welfare State. A questo punto l’analisi si sposta decisamente verso la dimensione utopica. Si immagina che le “nuove norme sociali” possano superare l’ossessione della mera crescita quantitativa registrata dal Pil, in favore di una crescita fondata piuttosto su fattori intangibili come il rispetto per l’ambiente, la responsabilità sociale, l’empatia e generosità. In questo contesto i nuovi driver di crescita, in grado di riattivare il sistema economico in un “inclusivo e sostenibile dinamismo”, potrebbero essere, per gli autori, la green economy (energie green, ecoturismo, economia circolare), e le varie forme di economia sociale che crei lavori nei settori dei servizi alle persone, educazione e salute.
In una sezione del libro che non sembra affatto diversa da quanto proposto, come abbiamo visto, nel recente libro di una delle figure di punta della MMT, Stephanie Kelton, “Il mito del deficit”[26], Klaus Schwab ed il suo coautore dichiarano che nella fase post-pandemica saranno necessarie “decisive, massive e rapide” politiche fiscali e monetarie. Cosa che, del resto, è avvenuta immediatamente dopo l’avvio della emergenza sia con riferimento alle politiche monetarie (acquisti di titoli da parte delle Banche Centrali), sia a quelle fiscali (supporti alle imprese ed ai cittadini, e forme senza precedenti di versamenti diretti sul conto corrente di milioni di loro). La sostenibilità a breve termine di questa enorme espansione di spesa pubblica è stata garantita dall’intervento delle Banche Centrali al fine di contenere il costo degli interessi sul debito. È stata quindi abbattuta la barriera “artificiale” tra gli interventi delle Banche Centrali e quelli fiscali, e sono emerse anche ipotesi teoriche che sistematizzano questo approccio. Tra queste gli autori citano la MMT e la pratica dell’helicopter money[27]. Del resto in condizioni di interessi vicini allo zero le normali politiche monetarie sui tassi di interesse sono disattivate, quindi non restano che gli stimoli indiretti ai deficit fiscali intenzionali. In questi semplici termini (e semplicistici a diretta ammissione) secondo gli autori la MMT direbbe che il governo centrale può spendere emettendo debito che le Banche Centrali compreranno. Il deficit sarà quindi monetizzato e il governo potrà usare le risorse come vuole, senza preoccuparsi in prima battuta della copertura fiscale delle spese.
Il rischio è però che un governo che abbia in questo modo “l’albero dei soldi magico” possa stimolare involontariamente la partenza di un’inflazione fuori di controllo. In altre parole, il QE perpetuo potrebbe esserne una causa e l’helicopter money uno dei veicoli di trasmissione. La ragione addotta è che non ci sono limiti teorici a quanto denaro una Banca Centrale può creare, solo il limite dopo il quale la reflazione diventa inflazione. Potrebbe essere una minaccia, ma non è all’agenda oggi. Per ora abbiamo la prevalenza di impulsi deflazionari, creati potentemente e strutturalmente dalla tecnologia e dal tendenziale invecchiamento (entrambi per natura deflazionari) e dall’eccezionalmente alto tasso di disoccupazione. Tutte dinamiche che il clima post-pandemico esaspererà. Quindi nei prossimi anni ci dovremmo trovare in condizioni simili a quelli del Giappone negli ultimi venti anni: debolezza strutturale della domanda, inflazione molto bassa, e interessi ultra-bassi. Condizioni nelle quali, a dire il vero, il Giappone ha reagito con efficacia per gli autori.
Un altro fattore della situazione potrebbe essere il declino della centralità del dollaro, anche esso in corso da molto tempo. Cosa che potrebbe essere accelerata dalla tendenziale insostenibilità della spesa pubblica americana (le sole medicare, medicaid e social security ammontano, senza spese militari ed altri investimenti, al 112% delle tasse federali riscosse). Del resto a breve termine non ci sono alternative, non la moneta cinese, fino a che non liberalizzerà i controlli sui capitali, non l’euro, che è sempre sotto minaccia di dissoluzione, non un paniere di monete, ancora sperimentale.
Il “reset” sociale.
A questo punto il libro inizia a trattare le ristrutturazioni sociali.
Ed anche qui il canovaccio interpretativo è il medesimo: la pandemia interviene esacerbando i problemi preesistenti, e determinati in particolare dalle ineguaglianze, dalle difficoltà di azione dei governi e dalla disgregazione sociale. Ci sono state risposte molto diverse anche in paesi simili, in funzione dell’organizzazione preesistente, della rapidità delle decisioni, dei costi e ampiezza del sistema sanitario, la fiducia nella politica, il senso di solidarietà interna. Quindi, per Schwab, il periodo post-pandemico causerà, probabilmente, “un periodo di massiva redistribuzione della ricchezza verso i poveri e dal capitale al lavoro. In secondo luogo, il Covid-19 suonerà la morte del neoliberalismo, un corpo di idee e politiche che possono grosso modo essere definite come volte a favorire la competizione sulla solidarietà, la distruzione creativa sull’intervento dei governi, e la crescita economica sul benessere sociale”[28]. Una teoria che è stata sotto attacco per molti anni, e qualificata come “feticismo del mercato”, ma che per gli autori riceverà ora il coup de grace. Non a caso i due paesi che hanno subito più perdite sono anche quelli che lo guidavano (Uk e Usa).
La pandemia ha, del resto, esacerbato tutte le ineguaglianze preesistenti e può essere al momento chiamata come “un grande divisore (unequalizer)”, che rende ancora più insopportabile la tensione. Inoltre, ha reso più stridente la contraddizione tra i lavoratori più necessari (infermieri, operatori di logistica, alcune classi di operai) e il semplice fatto che si tratta anche dei meno pagati e dei più esposti al mercato. Quelli che vedono sistematicamente più a rischio il loro lavoro. Come dicono gli autori in Uk, ad esempio, il 60% dei lavoratori nel settore di cura operano con contratti-zero-ore e quindi sono i più esposti e meno pagati.
Ora nell’epoca post-pandemica queste ineguaglianze sociali si incrementeranno nel breve termine, tuttavia nel periodo successivo il vasto senso di oltraggio renderà queste dinamiche non più a lungo politicamente accettabili e si imporrà un ridisegno. Ciò anche a causa dei disordini sociali che nel prossimo futuro saranno esacerbati dall’estensione della povertà e disoccupazione, oltre che dei disordini razziali (il libro è scritto poco dopo la morte di George Floyd).
Tutto ciò provocherà “il ritorno del ‘big’ governement” (come noto formula simbolica dell’espansione del welfare jhonsoniano). In questa situazione si fa fatica a pensare che si possano affrontare i problemi con soluzioni integralmente marked-based, quindi il delicato bilanciamento tra pubblico e privato si sposterà in favore del primo. È stato rivelato che nell’assicurazione sociale non è efficiente affidare la responsabilità dei migliori interessi sociali al mercato. Emerge perciò un’idea che era anatema solo pochi anni fa: che affidare gli interessi pubblici alle economie che corrono da sole senza supervisione può avere effetti devastanti. Dalla formula della Thatcher si passa perciò a quella della Mazzucato “non il profitto ma la partnership dei fondi pubblici con il business è la molla dell’interesse pubblico”[29]. Per Schwab accadrà qualcosa come quel che avvenne negli anni 30, il governo deciderà di riscrivere le regole del gioco permanentemente, non tollerando massiva disoccupazione e insicurezza sociale. Si avrà un massivo potenziamento dell’assicurazione sociale, dei benefici alla disoccupazione, la retrocessione del “shareholder value” (valore degli azionisti) e la messa in primo piano dello “stakeholder capitalism”, la riduzione della finanziarizzazione, l’affermazione di misure per rendere illegale il buy-back azionario, nazionalizzazioni, riforme fiscali, ricerca pubblica. Tutte cose messe in evidenza anche da Joseph Stiglitz[30].
Insomma, quello che gli autori propongono di considerare è una completa riconsiderazione del contratto sociale. Quello attuale, ossessionato dal rischio della crescita dell’inflazione, ha generato un senso diffuso di esclusione e marginalizzazione, e un sentimento di ingiustizia. Quel che bisogna fare è adattare il welfare state alle nuove condizioni e rafforzare le persone (empowering) e responsabilizzarle a domandare un contratto sociale giusto. La pandemia accelera questa transizione, e cristallizza la scelta rendendo impossibile il ritorno allo status pre-pandemico sotto questo profilo.
Che forma prenderà questo nuovo contratto sociale? Non ci sono soluzioni uniche, perché dipendono dalla storia dei singoli paesi, un “buon” contratto per la Cina è diverso da uno per gli usa, la Svezia o la Nigeria. Ma l’assoluta necessità postpandemica renderà indispensabile avere una forte, se non universale, assistenza sociale, sanità pubblica e servizi di base; una rafforzata protezione per i lavoratori (ad esempio per i lavoratori della gig-economy, nei quali gli impiegati a tempo pieno sono sostituiti da contractor e freelancers). Un altro aspetto critico illustrato dagli autori è il rischio della società della sorveglianza, anche in questa direzione saranno necessarie regole pubbliche e discussione pubblica.
Il “Reset” geopolitico
Ancora, un’altra dimensione del “reset” sarà geopolitica.
La pandemia interviene su una situazione nella quale il vuoto di governance globale e la crescita di varie forme di nazionalismi stavano aprendo un vuoto. Si prefigura quindi il rischio concreto di un’anarchia post-pandemica nella quale varie forme di rampante nazionalismo si confrontano nel progressivo riequilibrio in corso tra est e ovest. Gli autori citano in proposito la cosiddetta “trappola di Tucidide”[31]. Il problema è il venire meno del “bene pubblico globale” della “egemonia” americana (controllo delle vie di mare, lotta al terrorismo, …), senza che vi sia un sostituto. Entreremo dunque in una “età dell’entropia” nella quale si affermeranno intense lotte per l’influenza e tensioni non mosse dalla ideologia (con l’eccezione dell’Islam) ma dal nazionalismo e dalla competizione per le risorse. Insomma, una era di “deficit di ordine globale”. Gli scenari plausibili vanno dalla guerra tra Cina e Usa, all’implosione e fallimento degli stati o petrostati, fragili, la possibile disgregazione della Ue. Quattro questioni sono in particolare sottolineate, in relazione all’accelerazione determinata dalla crisi pandemica ma sulla base di dinamiche in corso: l’erosione della mondializzazione; l’assenza di governance globale; l’incremento della rivalità tra Usa e Cina; la caduta di fragili e fallimentari stati.
La globalizzazione, in primo luogo, secondo il loro racconto era una vaga nozione che si riferiva allo scambio globale tra nazioni di beni, servizi, persone e capitali e di dati. Essa ha portato centinaia di milioni di persone fuori della povertà, ma da parecchi anni hanno cominciato a prendere il centro della scena i contraccolpi politici e sociali determinati dai costi asimmetrici (in particolare in termini di disoccupazione nel settore manifatturiero nelle zone ad alti salari). Ora, l’opinione degli autori in merito è netta: l’economia mondiale è così interconnessa che la mondializzazione non può finire, ma è possibile che rallenti ed anche che si inverta. L’epidemia ha fatto proprio questo, il rischio ha comportato limitazioni, controlli dei confini, protezionismi e il rischio della ripresa di varie forme di nazionalismo. Come mostrò il “trilemma di Rodrik”[32] la democrazia è possibile, in associazione con gli stati nazionali (ovvero quella che conosciamo e l’unica di fatto esistente) solo se la mondializzazione viene contenuta. Per contrasto, ricordano gli autori, la mondializzazione e gli stati nazionali sono possibili in coesistenza solo se non c’è democrazia. Infine, democrazia e mondializzazione presuppongono la scomparsa degli stati nazionali indipendenti (ovvero una qualche forma di impero mondiale). L’Unione Europea è stata spesso utilizzata come modello ed esempio della pertinenza del modello concettuale. Combinare l’integrazione economica con la democrazia implica che molte decisioni essenziali sono prese a livello sopranazionale, rompendo la sovranità del livello sottostante. Nel contesto attuale, quindi, il ‘trilemma’ suggerisce che “la globalizzazione deve necessariamente essere contenuta se noi vogliamo conservare qualche sovranità nazionale o qualche democrazia”[33]. La crescita dei nazionalismi rende il ritiro della globalizzazione dunque inevitabile in gran parte del mondo e mostra che il rigetto della globalizzazione da parte degli elettori “è una risposta razionale quando l’economia è forte e l’ineguaglianza alta”.
La forma più visibile di progressiva deglobalizzazione è nel suo “reattore nucleare”: le global supply chain. L’accorciamento o la rilocalizzazione delle catene di fornitura sono incoraggiati da: 1) il fatto che il business vede che esiste un trade-off tra resilienza ed efficienza in esse; 2) la pressione politica che va dalla destra alla sinistra.
Chiaramente il completo ritiro delle supply chain globali comporterebbe la necessità di ciclopici investimenti pluriennali per ristrutturare interamente e potenziare le infrastrutture, porti, linee ferroviarie, nuove aree industriali, come sta facendo peraltro il governo giapponese che ha accantonato 243 miliardi per le operazioni di uscita dalla Cina delle sue imprese. Il più probabile scenario è quindi intermedio: la regionalizzazione. La creazione di molteplici e parzialmente separate aree di free trade, sul modello europeo, come del resto è in corso da tempo. Il Covid accelera infatti la divergenza tra Nord America, Europa ed Asia, incoraggiando tutti a guadagnare una sorta di auto-sufficienza interna, e ridurre l’intrico delle supply chain mondiali. Che forma prenderà tutto questo? Potrebbe anche andare male, ripetendo il cammino della storia nella quale un ciclo di antiglobalizzazione si impose, per gli autori, negli anni trenta, come risultato della Grande Depressione, danneggiando le maggiori economie.
Lo scenario della ripresa del nazionalismo non è comunque inevitabile ma bisognerà aspettarsi, per un certo numero di anni, una tensione essenziale tra le forze del nazionalismo e quelle dell’apertura lungo tre dimensioni critiche: le istituzioni globali, i commerci e i movimenti di capitale. Complessivamente nei prossimi anni sarà quindi inevitabile che qualche grado di deglobalizzazione avvenga, spinta dalla crescita del nazionalismo e della frammentazione internazionale. Questo non significa che sia meglio ripristinare lo status quo ex ante (l’iperglobalizzazione, per gli autori, è caduta di fronte ai suoi costi sociali e politici e non è più difendibile politicamente) ma solo che è importante limitare la possibile caduta verticale e libera della stessa, cosa che secondo loro comporterebbe danni maggiori e sofferenze sociali. Una ritirata totale dalla globalizzazione provocherebbe infatti guerre commerciali e militari, danni a tutte le regioni economiche, inoltre crisi sociali e scontri etnici o nazionalismi difensivi. La situazione richiede perciò azioni immediate ed energiche, nelle conclusioni proveranno a dire come. Questo è uno degli snodi chiave della costruzione egemonica ed ideologica tentata: si deve agire per evitare il peggio per tutti, e tocca a “noi”.
Chiaramente il processo di deglobalizzazione rende anche più difficile la “global governance”, ovvero il “processo di cooperazione tra attori internazionali animato dall’obiettivo di provvedere a risposte ai problemi globali”. Include nella definizione la totalità delle istituzioni (pubbliche e soprattutto private), politiche, norme, procedure e iniziative attivate attraverso le diverse nazioni per rendere prevedibile e stabile il cambiamento. Ciò, in particolare dopo la crisi Covid, è reso più difficile dal conflitto tra gli imperativi locali, che sono a corto-termine, e i cambiamenti globali a lungo termine. Nulla come la reazione alla crisi pandemica lo mostra con maggiore evidenza, ognuno si è battuto da solo e tutti hanno cercato di salvarsi per primi, chiudendo agli altri le frontiere, sequestrando i flussi di passaggio di materiale medico, etc. Parte di questo scenario è dato dal conflitto crescente tra Usa e Cina (che, però, non è del tipo di quello tra gli Usa e l’Urss, perché ad opinione degli autori questa non cerca di imporre la sua ideologia al mondo). Secondo il citato Wang Jisi le relazioni sono al loro peggio dal 1979 e il disaccoppiamento economico e tecnologico è ormai “irreversibile” e volto a dividere il sistema globale in due parti (come avverte anche Wang Huiyao, Presidente del Centro per la Cina e la Globalizzazione di Beijing). Ovviamente per analizzare questa situazione bisogna ricordare che i due punti di vista cinese e americano sono influenzati in modo decisivo dalla loro storia e dalla posizione che riveste in essa alcuni fatti cruciali, per i cinesi l’umiliazione ottocentesca e per gli Usa la loro posizione di preminenza nel dopoguerra. Ma anche sapere che la pandemia ha avvantaggiato la Cina perché il virus rende inefficace il vantaggio americano di tipo militare (che è al momento insuperabile). Ha fatto quindi prevalere il “soft power” cinese, più efficace per combattere la pandemia ed ha inoltre esposto aspetti della società americana scioccanti come il fallimento sanitario o il razzismo. Inoltre, la Cina è stata in primo piano nell’inviare soccorsi, come ha ricordato Kishore Mahububani. D’altra parte, gli Usa hanno ancora fattori strutturali di forza altamente dominanti, dal sistema universitario al vertice mondiale, alla preminenza del dollaro. Il confronto è quindi aperto ed incerto.
Il reset ambientale
Un altro settore nel quale possono essere individuate delle risistemazioni cruciali è l’ambiente.
Apparentemente si tratta di una relazione lasca, ma anche qui i rischi sistemici (in prima istanza geopolitici, sociali e tecnologici) si ripercuotono molto velocemente in un mondo altamente interconnesso, e, inoltre, producono relazioni e risposte non lineari che sono difficili, se non impossibili, da prevedere. Una delle differenze è che la pandemia richiede risposte immediate e si vede quindi bene la relazione causale, cosa che non avviene per la sfida principale del riscaldamento climatico. Tuttavia, per gli autori la causa è comune, al fondo la pandemia è causata da una disastrosa zoonosi, la quale è stata resa più probabile dall’insieme del cambiamento climatico e dall’estensione delle attività umane dovuta alla ipermondializzazione. Gli autori citano l’ormai classico “Spillover”[34] e la lettera al Congresso Usa nella quale più di cento gruppi ambientalisti e di protezione della biodiversità segnalavano come negli ultimi cinquanta anni i disastri causati da zoonosi siano quadruplicati. E indicavano l’agricoltura responsabile di almeno la metà di questi. Ma ci sono anche evidenze, sostiene il libro, di una relazione tra l’inquinamento dell’aria e i rischi pandemici variando il livello di letalità e, tramite altri meccanismi, la relazione tra le aree più inquinate e quelle a maggiore tasso di mortalità da Covid. D’altra parte, è stata registrata una diminuzione delle emissioni climalteranti in relazione agli arresti delle attività, la quale, tuttavia, non è stata sufficiente neppure con un terzo della popolazione chiusa in casa.
Dunque, è necessario un cambiamento strutturale del modo di produrre energia e dei comportamenti di consumo. Per queste ragioni la pandemia dominerà anche questa agenda nel prossimo futuro. Il prossimo UN Cop-26 (poi rinviato a questa estate) dovrà scegliere tra due possibili narrative: secondo la prima la crisi è così grave che conviene mettere da parte per un poco le misure climatiche e cercare di spingere con tutti i mezzi possibili la ripresa; la seconda cercherà di cogliere l’occasione per rilanciare le due agende insieme. Questa seconda è la direzione presa da alcuni decision-maker influenti che propongono la transizione energetica come occasione per un nuovo e massivo ciclo di investimenti occasionato dalla stessa crisi pandemica e dalla necessità stringente di rispondervi con massive politiche fiscali. In altre parole, se si deve investire per far ripartire il sistema economico conviene farlo partire in altra direzione, risolvendo i problemi pregressi climatici.
Il “Reset” tecnologico
Infine, avremo un rimescolamento ed accelerazione drastico nel settore tecnologico.
Su questo terreno gli autori ricordano la pubblicazione nel 2016 del libro “La quarta rivoluzione industriale”[35]. Da allora i cambiamenti tecnologici sono stati sorprendentemente veloci, giustificando la diagnosi di un cambiamento epocale in arrivo. AI, volo dei droni, traduzioni simultanee, i device mobili che diventano sempre più parte della nostra vita personale e professionale. L’automazione ed i robot che stanno penetrando nella produzione e nel business in modo sempre più accelerato. L’innovazione nella genetica e nella biologia sintetica che è sempre più vicina al nostro orizzonte. Tutto questo sarà accelerato dalla pandemia, che catalizzerà nuove tecnologie e “turbocambierà” ogni business digitale o dimensione digitale dei business esistenti. La trasformazione digitale vedrà la pandemia come potentissimo catalizzatore. In questi mesi di blocco forzato delle attività milioni di persone sono state costrette dalle circostanze a mutare le proprie abitudini, collegarsi in remoto, farsi portare i pasti, consegnare le merci, etc… per Schwab quando l’emergenza terminerà molte cose torneranno, dato che siamo animali sociali, ma alcune pratiche si saranno consolidate (in fondo è molto più economico e facile fare una riunione con zoom, magari tra quattro o cinque città diverse, che non viaggiare per incontrarsi una mattina). Questa trasformazione ha con l’occasione superato di slancio anche i rallentamenti che i regolatori avevano fino ad ora posto a molte tecnologie (pensiamo ai diritti di volo con i droni, o la resistenza alla telemedicina).
Parimenti nel mondo economico sarà spinta sempre di più l’automazione e tutte le forme di telelavoro (il cosiddetto “smart-working”); ciò tanto più quanto i collegamenti fisici potrebbero essere resi più difficili dalla frammentazione del contesto della mondializzazione. Sarà quindi avviato un ciclo di “turboadozione” in moltissimi settori; Jd.com e Alibaba, giganti dell’e-commerce cinesi, sono ad esempio convinti che nell’arco di dodici mesi la consegna dei pacchi sarà integralmente automatizzata. Una grande attenzione bisognerà prestare anche alla robotica industriale ed al machine learning. I cosiddetti Robotic Process Automation (RPA) favoriranno la creazione di aree di business più efficienti e in grado di rivaleggiare sempre di più con i lavoratori umani.
Ma una lezione che viene dall’est è che una efficiente metodologia, tecnologicamente assistita, di contact tracing è un potente fattore di successo contro il Covid-19. Mentre la sua efficacia è dimostrata, al contempo pone acuti problemi di privacy. Per cui al di là di Cina, Hong Kong, South Corea, che hanno imposto direttamente misure massive di controllo coercitive (a volte incrociando i dati con le altre fonti, come la rete di videosorveglianza urbana e le spese con carta di credito, altre, come a Hong Kong, arrivando fino ad imporre il braccialetto elettronico ai visitatori) altri paesi, come Singapore, hanno optato per soluzioni meno invasive basate sul bluetooth che non intercetta il segnale oltre i due metri e trasmette i dati al server del Ministero della Salute solo se necessario. È l’applicazione TraceTogether che sembra essere stato il modello della nostra. Tuttavia, come evidenziano gli autori, in questo caso resta il problema che le app volontarie sono del tutto inefficaci se, come accade in Italia, troppi rifiutano di scaricarla per paura di fornire i propri dati alle agenzie governative. Con 5,2 miliardi di smartphone esistenti attualmente è chiaro che ci sarebbe la piena possibilità tecnologica (il nostro gestore sa sempre dove siamo, fino a che il nostro dispositivo è acceso) di tracciare in tempo reale, ma ci sono al momento insuperabili problemi di uniformazione e messa in contatto dei dati.
Del resto, ormai ogni aspetto della nostra vita è tracciabile, ogni esperienza digitale, potenzialmente ogni passo nelle nostre città. C’è quindi un forte rischio di distopia e gli autori non lo nascondono in alcun modo. In questo contesto viene citato il libro di grande successo di Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza”[36]. Come ha scritto Yuval Harari abbiamo davanti la scelta fondamentale tra una sorveglianza totalitaria (sviluppata ai fini di protezione sanitaria o dal terrorismo) e il potere dei cittadini[37]. Si tratta del rischio, continuano, di un “oscuro futuro di uno stato della sorveglianza techno-totalitario”.
I Micro-reset
Nella seconda parte del libro vengono dettagliate le micro-trasformazioni che potrebbero prodursi nell’industria e nel business. Chiaramente per molte industrie la crisi pandemica ha prodotto effetti devastanti, per altre è stata un’occasione di ripensare la propria organizzazione. Ad esempio, per molti settori di intrattenimento, viaggi od ospitalità, un ritorno alla condizione pre-pandemica è inimmaginabile per ogni futuro vicino e forse per sempre. Per altri, come i settori manifatturieri o del cibo, è più questione di trovare la via per aggiustarsi allo shock e di ricapitalizzarsi per la nuova tendenza (con più tecnologie digitali). Le cose più ovvie saranno: incoraggiare il remote working; ridurre i viaggi e le riunioni faccia-a-faccia in favore di interazioni virtuali; accelerare la digitalizzazione di ogni soluzione. Tutto ciò non è affatto nuovo, ma ora diventa per molti una questione di vita e di morte. Come diretto risultato la IoT sarà enormemente potenziata allo specifico scopo di rendere digitale e controllare in remoto quanti più aspetti possibile dei cicli di produzione. Manutenzione, inventario, strategie di sicurezza possono essere controllate via computer. Ma la trasformazione impatterà anche sulle global supply chain, costringendole a riorganizzarsi. L’insieme dei fenomeni messi in movimento, direttamente ed indirettamente, dalla pandemia, costringeranno a ridurre e rilocalizzare le supply chain troppo estese, o intrecciate, e ad elaborare produzioni alternative o piani per il rischio di interruzioni e distruzioni. Ogni business dovrà “ripensare le sue operazioni e probabilmente sacrificare l’idea di massimizzare la propria efficienza e profitti per potenziare la ‘sicurezza dell’offerta e la resilienza”[38], al fine di proteggersi contro un cambio regolatorio, o di un fornitore specifico. I costi di produzione inevitabilmente saliranno, ma sarà il prezzo della sicurezza.
Nell’epoca post-pandemica, dunque, il business sarà soggetto a molta più interferenza da parte del governo rispetto a prima. Saranno implementate regole più stringenti (ad esempio, sul riacquisto di azioni, o la distribuzione di dividendi) per pratiche giudicate immorali, dal momento che le imprese molto spesso dovranno chiedere l’aiuto per ristrutturarsi. Ma anche riceveranno istruzioni su cosa produrre, al fine di garantire un plafond di produzioni strategiche di area (regionale). La massimizzazione dei profitti e lo short-terminism non sarà più favorito o tollerato, perché rende tutti più fragili in vista di future crisi. Inoltre, sempre secondo gli autori, nel mondo la pressione a ridurre la protezione sociale e abbassare i salari cesserà e si invertirà. Molto probabilmente nel mondo post-pandemico diventeranno centrali le lotte per i salari minimi e il potenziamento dei sindacati. Molto probabilmente le compagnie dovranno adattarsi se vorranno accedere ai fondi pubblici e la gig economy soffrirà di questo più di ogni altro settore, “il governo le forzerà a offrire ai lavoratori contratti con i benefici e le protezioni sociali e sanitarie”[39].
Ma gli effetti annunciati più importanti sono su turismo e sul settore dell’entertainment, dove le cose devono avvenire oggi “di persona” (l’elenco è terrificante, e comprende in effetti l’enorme cifra dell’80% del totale dei posti di lavoro in Usa). Attività come viaggi e vacanze, bar e ristoranti, eventi sportivi, cinema e teatri, concerti e festival, conferenze e convegni, musei e librerie, educazione, saranno costrette a ridefinirsi. Anzi, per come la mettono “essi non potranno trovare spazio nel mondo virtuale o, se lo potranno, solo in una forma monca e subottimale”[40]. Durante l’intera epidemia, per mesi e forse un anno (il libro è uscito sei mesi fa) dovranno adattarsi e una ridotta capacità. Più specificamente, la trasformazione favorirà le grandi catene, mentre distruggerà fino al 75% dei piccoli esercizi. Al capo opposto le grandi compagnie di viaggi, ad esempio aeree, andranno incontro ad un mutamento cataclismico che avrà carattere permanente (venendo esacerbato dal mutamento delle abitudini di viaggio delle imprese). Ma l’impatto sugli aeroporti si propagherà già per le connessioni a monte ed a valle, colpendo le catene di auto rent, le imprese che costruiscono aerei e l’intera lunga catena di fornitori.
Quindi ci sono stati, e ci saranno, impatti sui comportamenti di acquisto e sull’educazione. Insomma, ci saranno numerosi ed in parte imprevedibili impatti su diverse filiere, alcune in incremento ed altre in decremento.
Anche gli impatti sulla vita urbana delle grandi città potrebbero essere davvero molto grandi, perché anche se solo una piccola parte degli abitanti e users sceglierà di non frequentarle più, cercando luoghi più verdi, decentrati, comodi ed economici, tante attività dagli elevati costi fissi, la cui profittabilità è impostata al margine subiranno egualmente durissimi e durevoli contraccolpi. E subirà notevolissimi contraccolpi il settore del “commercial real estate” che è un essenziale driver della crescita economica globale. Potrebbe crearsi un eccesso di offerta di uffici e servizi centrali (il recente abbandono repentino del progetto decennale del nuovo stadio della Roma, da parte di una proprietà che è specificamente nel business del turismo e del lusso è un segnale chiaro in tale direzione) che porterà ad una enorme catena di fallimenti di portata sistemica. In molte grandi città i prezzi delle case, ed in particolare dei locali commerciali ed affitti, cadranno per un lungo periodi di tempo, inevitabilmente. La possibilità di lavorare in remoto, al contrario, determinerà la crescita delle regioni e delle città (piccole probabilmente) nelle quali la qualità della vita è migliore, in particolare fino a che i prezzi delle case resteranno accessibili.
Qualcosa di altrettanto distruttivo potrebbe avvenire ai grandi campus, il cui business model potrebbe andare in bancarotta.
Ma ci saranno effetti anche sul big teach, la salute e l’industria del benessere, il settore finanziario, l’industria automobilistica e quella energetica. Alcune di queste saranno ovviamente avvantaggiate dal clima indotto dalla pandemia, tra queste il big teach, che è un settore ad alta resilienza, e il settore della salute, ovviamente centrale. È probabile che saranno anche potenziate e favorite dal governo le attività sportive (in particolare all’aperto), per i loro effetti salutari e socializzanti. Altri settori spinti alla trasformazione, ma anche favoriti, saranno quello finanziario al dettaglio (che si sposterà sempre più on line, riducendo i costi), quello dell’automotive, e quello della produzione elettrica che andrà incontro alla inevitabile transizione, con massivi investimenti. Inoltre, le banche, sotto un altro profilo, si troveranno al centro della tempesta. Dovranno infatti far fronte alla crisi di liquidità dei clienti e di non-performimg loans che cresceranno enormemente.
I Reset individuali
Quindi ci sono i cambiamenti individuali.
Attraverso i suoi effetti che il testo classifica come “Macro” e “Micro” la pandemia avrà comunque importanti conseguenze anche a livello individuale. In primo luogo, essa ha già costretto la maggioranza della popolazione del mondo ad autoisolarsi da amici e familiari, a cambiare completamente i propri piani personali e professionali, e ha creato profonde insicurezze economiche, psicologiche e di sicurezza fisica. Ci ha ricordato la nostra fragilità umana e quella delle nostre società. D’altra parte, una prima impressione è stata che la pandemia potesse unire le persone (ci sono stati episodi spontanei di tipo comunitario, solidaristico), ma in una seconda si è visto che in realtà le ha separate. Ma la reazione più rilevante è l’incertezza. L’essere umano ha bisogno sempre di avere qualche certezza e non sapere cosa avverrà, o perché, induce un profondo turbamento che può arrivare ad un senso di vergogna e disonore. Questo insieme di confuse ragioni induce molti a cercare di ridurre lo stress cercando un rifugio nel pensiero in “bianco o nero” e in soluzioni semplicistiche, per questo secondo gli autori proliferano teorie cospiratorie e una enorme propagazione di rumore, fake news, falsità e altre strane idee. Inoltre, la pandemia ha scatenato un dibattito con importanti implicazioni morali circa la salvaguardia a tutti i costi della crescita economica a discapito della salute dei più deboli. Su questo terreno le scuole libertariane e utilitariste si sono scontrate con quelle incentrate sui beni comuni in una disputa difficile da risolvere. Gli autori ricordano che inizialmente sono state assunte posizioni di stretta protezione ed anche di apertura (in Uk), che successivamente sono state abbandonate quando i costi hanno cominciato a manifestarsi pienamente.
Nell’immediato post-pandemia non potrà quindi essere portata avanti indefinitamente la chiusura (anche la crisi economica uccide le persone, come ha scritto Amartya Sen). E, del resto, ormai è chiaro che essa produce ingenti danni anche riferiti alla sanità mentale. Occorrerà perciò trovare un compromesso che dipende essenzialmente, per ognuno di noi, dai valori che considera preminenti. Ciò potrebbe costituire un’occasione di ripensare le nostre priorità e comportamenti. Migliorando la nostra creatività, gestione del tempo, comportamenti di consumo, amore per la natura e ben essere.
In conclusione.
La crisi del Covid ha esasperato tutte le linee di faglia che erano presenti nella nostra società, ineguaglianze, senso di ingiustizia, incremento della divisione geopolitica, polarizzazione politica, crescita del deficit pubblico e dell’alto livello del debito, inesistente governance globale, eccessiva finanziarizzazione, degrado dell’ambiente. Cosa ci riserva il futuro? Sarà solo un lampo prima del tuono, o andrà meglio? Per gli autori in effetti noi non lo sappiamo, “ma quel che sappiamo è che se non riavviamo il mondo di oggi quello di domani sarà profondamente peggiore”[41].
Per evitarlo dobbiamo a loro parere, è anzi assolutamente necessario, avviare un “gran Reset”. Dove, però, il termine va letto come riorganizzazione. Se non riusciamo infatti a riparare i mali che sono da tempi radicati nella nostra società e nella sua economia aumenterà il rischio che, come è più volte accaduto, “alla fine un ripristino sarà imposto da shock violenti come conflitti e persino rivoluzioni”. È per questo che la pandemia, con tutte le sue sofferenze, “rappresenta una rara finestra di opportunità per riflettere, reimmaginare e ripristinare il nostro mondo”[42]. Si tratta, seguendo una facile retorica, di fare del mondo un posto meno divisivo, meno inquinato, distruttivo, più inclusivo, equo e giusto.
Schwab, rivolgendosi ai suoi interlocutori, le élite economiche del mondo, dichiara quindi espressamente che non fare nulla non è una opzione. Chi resisterà, dicendo che in fondo il mondo si è sempre riassestato dopo ogni crisi, che la ricchezza sta continuamente aumentando e che tutto andrà a posto da solo, si sbaglia; trascura che quelle della crescita della ricchezza sono solo medie, bisogna vedere dove va, il numero di persone che sono affondate e non si vedono in quelle medie cresce sempre di più. La rabbia cresce, come il caso di George Floyd mostra. In quella mobilitazione, in corso mentre il testo veniva scritto, una gigantesca esplosione di sentimenti repressi e di lunga frustrazione per l’ingiustizia ha creato un immediato movimento di massa.
Certo, non è difficile vedere che l’epidemia è leggera rispetto a quelle del passato quanto a tasso di mortalità, ma questa considerazione può indurre in errore. Il mondo strettamente interconnesso contemporaneo e l’insieme dei molti problemi che ha con sé la rende egualmente un detonatore micidiale. Perciò quel che accadrà è che nel mondo post-pandemico le questioni di giustizia, la stagnazione dei redditi “per una vasta maggioranza” e la ridefinizione del complessivo contratto sociale si imporranno all’agenda. Insieme ad esse si imporranno le questioni ambientali e quelle dello sviluppo della tecnologia a favore dell’intera società, e solo non di pochi privilegiati. Come il testo ammette tutti questi problemi c’erano anche prima, ma ora sono al centro del tavolo e ci rimarranno.
Secondo la stringente posizione ideologica degli autori l’assoluto prerequisito per affrontarli e risolverli è quindi solo la collaborazione e cooperazione tra i paesi del mondo. Non progrediremo senza. In altre parole, perché sia attivata un’era di maggiore cooperazione e non di nazionalismo e separazione è necessario che appena l’economia riparte siano implementati realmente i 2030 Sustainable Development Goals[43] delle Nazioni Unite e si proceda ad una profonda ristrutturazione che mobiliti le migliori forze.
Questo auspicio è alla fine il “Gran Reset”: che dalla caduta venga la forza di rialzarsi.
Non bisogna leggere molte delle cose scritte in questo libro come se fossero false per il solo fatto che lo dice il direttore del World Economic Forum di Davos. Molte sono giuste, e alcune sembrano addirittura prefigurare una sorta di necessaria “svolta keynesiana”. Molte sono le cose che abbiamo anche noi sempre detto. Per certi versi sono le stesse che dice la MMT, o che ripete sempre la Mazzucato. È prevista una certa ritirata della mondializzazione, ed un avanzamento della funzione di regolazione e spesa pubblica. È chiaramente e dichiaratamente annunciata la fine del neoliberismo.
Tuttavia, è il senso dell’operazione che è diverso. Diverso è l’interlocutore, come altro il soggetto chiamato a mobilitarsi.
Si tratta di cambiare tutto per non cambiare niente. Tomasi di Lampedusa deve essere una delle letture serali del nostro. L’orizzonte non è una nuova versione del “embebbled capitalism” (o “liberalism”, come scrisse John Ruggie[44]) di Bretton Woods, ma una maggiore centralità nell’organizzazione sociale e nella stabilizzazione delle grandi imprese. È quindi uno “Stakeholders capitalism”. Qualcosa che può ricordare il sistema privatizzato del welfare ludico del tardo Impero Romano, anche lì in un contesto di dissoluzione sociale e di altissima dispersione dei centri di potere. Come propose allora Simmaco, la classe (senatoria) si può compattare intorno al compito di essere per conto dell’autorità pubblica editor, individualmente e collettivamente, dei giochi cistercensi (e gladiatorii) che esibiscono il potere, aggregano spettatori e clientes, controllano e organizzano il consenso.
Si tratta quindi di trovarne l’equivalente in un welfare privatizzato, inestricabilmente corporate e di stato. Una centralità tra impresa e territorio che è fatta di noblesse oblige da parte di questa e di grata accoglienza da parte del cliente, pubblico, beneficiario, dipendente, … tutto questo ma non cittadino.
Lo dice meglio, e più esplicitamente, anche la McKinsey[45]:
– L’economia di libero mercato è una delle ragioni più importanti per la creazione di ricchezza e miglioramento della qualità della vita di cui l’umanità ha goduto nelle ultime generazioni,
– Eppure, c’è rabbia e sfiducia palpabili nei confronti dell’idea di capitalismo, e del ruolo del business in molte società,
– Già prima che il Covid-19 cambiasse il mondo il 60% delle persone pensava che il capitalismo stesse facendo più male che bene in 22 paesi su 28 interpellati,
– Quindi gli uomini di affari non possono stare dietro le quinte, devono prendere l’iniziativa,
– È un’opportunità per un cambiamento positivo, la missione non è di servire gli azionisti ma clienti, fornitori, lavoratori e comunità.
Insomma, giù nella stiva, legati alle catene e privi di luce ed acqua, mentre il naufragio si avvicina arriva una voce dall’alto. I capitani dicono di fidarsi, loro sanno cosa è bene per tutti e sanno come portare la nave in porto, si prenderanno carico di ogni cosa.
Questa sarebbe la fine del neoliberismo per Schwab.
Certo, il neoliberalismo ha avuto un inizio al termine del ciclo keynesiano, e come tutto avrà fine.
Ma non è ancora il momento.
[1] – Una fondazione svizzera i cui partner sono in pratica l’intero campo delle primarie aziende multinazionali del mondo occidentale. Si va da multinazionali come Air Liquid (azienda chimica americana), ABB, ABN Amro, Astra Zeneca, Basf, Bayer, Boeing, BP, Hitachi, Chevron, Enel, Eni, General Electric, Honda, Hyundai, Mitsubishi, Moderna, PepsiCo, Petronas, Pfizer, Nestlè, Nielsen, Nokia, Total, Novartis, Volvo, Volkswagen, Walmart, Snam, Sony, Siemens, Unilever, UPS, Tata, Coca Cola, Lego Brand Group, Lookheed Martin, Saipem, Johnson e & Johnson, a fondi ed aziende finanziarie come Algebris, Allianz, AXA, Bank of America, Credit Swisse, Deutsche Bank, Visa, Nomura, Barclays, JP Morgan Chase, UBS, Unipol, BlackRock, Generali, Goldman Sachs, Western Union, HSBC, Intesa, Morgan Stanley, aziende di consulenza come McKinsey, Accenture, della new economy come Adobe, Apple, Amazon, Cisco, Microsoft, Facebook, Google, HP, IBM, Tibco, Zoom, istituzioni come la nostra Cassa Depositi e Prestiti, la Banca Europea degli Investimenti, o istituzioni cinesi ed aziende come Alibaba, Huawei, China Energy Investment, China Construction Bank, China Railway Group, State Grid Corporation of China, la Russian Direct Investment Fund, il Saudi Industrial Investment Fund, Banche centrali come la State Bank of India. Questo per restare ai primi nomi di un lunghissimo elenco nel quale in pratica non manca nessuno.
[2] – Un altro autore specializzato in questa sottoletteratura è Richard Florida, il quale nel 2011 ha pubblicato un libro dal medesimo titolo “The Great Reset”, Harper. O Richard Baldwin, specializzatosi nel descrivere ad ampio raggio i processi di innovazione tecnologica ed i suoi effetti sul mutamento sociale e politico (e geopolitico), si tratta ti libri come “La grande convergenza”, quando nel 2016 ipotizzava una terza ondata della mondializzazione (ne abbiamo parlato in questo post), o, il più recente “Rivoluzione globotica”, di tre anni dopo. In un ambito per certi versi più ristretti, focalizzato sul mutamento tecnologico, si può leggere Brynjolfsson e McAfee (“La macchina e la folla”, 2017) Tyler Cowen (“La media non conta più”, 2015) o Jerry Kaplan (“Le persone non servono”, 2016).
[3] – Mariana Mazzucato, “Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale”, Laterza 2018 (ed.or 2018). Un testo ambizioso nel quale nella prima parte cerca di rivitalizzare l’illustre tradizione risalente almeno a Smith che vede distinguere tra lavori produttivi di valore e non, e che, su questa base, pone sistematicamente in discussione la pretesa della finanza di contribuire allo sviluppo del valore, distinguendo tra “capitali pazienti” e “speculativi”, a breve termine ed improduttivi. La chiave è la medesima poi prescelta da Schwab, occorre passare nuovamente dalla massimizzazione del valore per gli azionisti (“improduttiva”) alla creazione di effettivo valore per gli “Stakeholders” (cfr. p.200). La conclusione, tuttavia, diversamente dal nostro, è che bisogna andare verso la ricostruzione della fiducia nella funzione pubblica e “fissare una missione” (p.278).
[4] – Mariana Mazzucato, “Mission economy. A Moonshot Guide to Changing Capitalism”, Allen Lane, 2021. Libro nel quale l’economista inglese riflette sulla crisi pandemica.
[5] – Stephanie Kelton, “Il mito del deficit”, Fazi editore 2020.
[6] – Richard Baldwin, “Rivoluzione globotica”, Il Mulino 2019.
[7] – Paul Collier, “Il futuro del capitalismo”, Laterza 2020 (ed.or. 2018).
[8] – Raghuram Rajan, “Il terzo pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati”, Bocconi Editore 2019 (ed. or. 2019).
[9] – Thomas Piketty, “Capitale e ideologia”, La nave di Teseo, 2020 (ed.or. 2020).
[10] – Branko Milanovic, “Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro”, Laterza 2020 (ed. or. 2019).
[11] – Francis Fukuyama, “Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi”, Utet 2019 (ed. or. 2018).
[12] – Termine chiaramente polisemico, ma che qui si intende spendere per la sua capacità di organizzare il senso e creare un ordine, sposato dai soggetti che essa stessa costituisce non per mero interesse bensì per adesione ad un intero ‘mondo’ internamente coerente. L’ordine (ed il ‘mondo’) comprende tecniche, saperi, culture e ruoli. Ogni operazione consapevolmente egemonica è una sorta di sfida al mondo come è, definisce dei nemici e si sforza di dissolverne la coerenza e coesione, combatte certezze, crea idee nuove (spesso rimontate dalle vecchie). Ogni nuovo assetto egemonico ha i suoi soggetti ed i suoi attori cruciali, individua dei valori irrinunciabili e dei disvalori da respingere, include delle tecniche, produce una economia. Creando soggettività si fa carico di esse, e risponde ai bisogni che fa emergere come decisivi.
[13] – In poche parole, lo scheletro era dato dalla integrale subordinazione del consumo, messo a centro dell’uomo stesso, alla logica capitalista, negoziando da una parte produttività e distribuzione in termini reali (in modo da garantire da riproduzione della forza-lavoro e la stabilità sociale, ovvero la riproduzione sociale) e dall’altra la gestione politica della moneta (progressivamente smaterializzata in tutti gli anni sessanta e settanta, con enormi conseguenze sistemiche).
[14] – Si veda, “Il Proconsole imperiale: draghi, serpenti, vermi”.
[15] – Rutilio Namaziano, “De reditu”, cit in Sergio Roda, “Nobiltà burocratica, aristocrazia senatoria, nobiltà provinciali”, “Storia di Roma”, 3.I, Crisi e trasformazioni, Einaudi, 1993, p.643.
[16] – Klaus Schawb, Thierry Malleret, “Covid-19: the great reset”, Word Economic Forum, 2020, citazioni dal e-book.
[17] – Klaus Schawb, Peter Vanham, “Stakeholder Capitalism”, Wiley, aprile 2021. Nel libro Schwab propone di superare lo “shareholder capitalism” che fu all’origine della volta neoliberale (una delle parole d’ordine della Scuola di Chicago) in favore di un nuovo capitalismo che, invece degli azionisti, pone al centro le imprese private come “fiduciari della società”. In questo spostamento di accento sono le stesse aziende che dovrebbero farsi carico della trasformazione del modello e pagare le giuste tasse, combattere al loro interno la corruzione, promuovere parità di condizioni concorrenziali e sostenere i diritti umani e dei lavoratori. Esse, le imprese, sono le principali interessate al comune futuro. Come scrive lo stesso autore: “I business leaders oggi hanno una incredibile opportunità. Dando allo stakeholder capitalism un significato concreto, possono muoversi oltre le obbligazioni legali e confermare il proprio dovere verso la società. Possono portare il mondo più vicino all’ottenimento di obiettivi condivisi, come quelli emersi con l’accordo di Parigi sul clima o gli Sdgs. Se i business leader realmente vogliono lasciare il proprio segno nel mondo, non hanno alternative”.
[18] – Klaus Schawb, “La quarta rivoluzione industriale”, Franco Angeli, 2016; Klaus Schawb, “Governare la quarta rivoluzione industriale”, Franco Angeli, 2019.
[19] – “The Davos Manifesto” è un set di principi etici che dovrebbe fungere da guida per le imprese nell’età della quarta rivoluzione industriale. Pubblicato nel 2020 dichiara che lo scopo di un’azienda non è di servire i propri azionisti, ma di coinvolgere tutti i suoi stakeholders nella creazione di valore condiviso. Dipendenti, clienti, fornitori, comunità locali e società, comprendendone ed armonizzandone gli interessi e orientandosi verso la prosperità a lungo termine.
– Un’azienda serve i propri clienti fornendo una proposta di valore che soddisfi al meglio le loro esigenze. Accetta e sostiene una concorrenza leale e condizioni di parità. Ha tolleranza zero per la corruzione. Mantiene affidabile e degno di fiducia l’ecosistema digitale in cui opera. Rende i clienti pienamente consapevoli della funzionalità dei suoi prodotti e servizi, comprese le implicazioni negative o le esternalità negative.
– Un’azienda tratta le sue persone con dignità e rispetto. Onora la diversità e si impegna per il miglioramento continuo delle condizioni di lavoro e del benessere dei dipendenti. In un mondo in rapido cambiamento, un’azienda promuove l’occupabilità continua attraverso il miglioramento delle competenze e la riqualificazione.
– Un’azienda considera i propri fornitori come veri partner nella creazione di valore. Offre una buona possibilità ai nuovi operatori di mercato. Integra il rispetto dei diritti umani nell’intera catena di fornitura.
– Un’azienda serve la società in generale attraverso le sue attività, sostiene le comunità in cui lavora e paga la sua giusta quota di tasse. Garantisce un utilizzo sicuro, etico ed efficiente dei dati. Agisce come amministratore dell’universo ambientale e materiale per le generazioni future. Protegge consapevolmente la nostra biosfera e promuove un’economia circolare, condivisa e rigenerativa. Espande continuamente le frontiere della conoscenza, dell’innovazione e della tecnologia per migliorare il benessere delle persone.
– Un’azienda fornisce ai propri azionisti un ritorno sull’investimento che tiene conto dei rischi imprenditoriali sostenuti e della necessità di innovazione continua e investimenti sostenuti. Gestisce responsabilmente la creazione di valore a breve, medio e lungo termine alla ricerca di rendimenti sostenibili per gli azionisti che non sacrificano il futuro per il presente.
– Un’azienda è più di un’unità economica che genera ricchezza. Soddisfa le aspirazioni umane e sociali come parte del più ampio sistema sociale. La performance deve essere misurata non solo sul ritorno agli azionisti, ma anche sul modo in cui raggiunge i suoi obiettivi ambientali, sociali e di buona governance. La remunerazione dei dirigenti dovrebbe riflettere la responsabilità delle parti interessate.
– Un’azienda che ha un ambito di attività multinazionale non solo serve tutti quegli stakeholder che sono direttamente coinvolti, ma si comporta come stakeholder – insieme ai governi e alla società civile – del nostro futuro globale. La cittadinanza globale aziendale richiede a un’azienda di sfruttare le proprie competenze di base, la propria imprenditorialità, abilità e risorse rilevanti in sforzi di collaborazione con altre aziende e parti interessate per migliorare lo stato del mondo.
[20] – Certo, non è la prima epidemia che ha colpito l’umanità, né la peggiore. La peste del 1300, ad esempio, distrusse dal 20 al 40% della popolazione europea e indusse a creare pratiche come la “quarantena”, e le prime forme di “institutionalized public healt”. Al contempo creando sempre forme di ansia sociale e di isteria di massa.
[21] – Schwab, op.cit., p. 12.
[22] – Op.cit., p. 21
[23] – Per la storia di questo concetto, e la sua pratica politica, si veda Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020.
[24] – Op.cit., p. 43
[25] – Si veda, ad esempio, i testi prima citati di Brynjolffson o di Tyler Cowen e di Baldwin.
[26] – Stephanie Kelton, “Il mito del deficit”, Fazi Editore 2020. Ma c’è una importante differenza, anche se nessuno dei due libri entra nei dettagli quello dell’economista americana non propone un reddito universalista di prima istanza, ma un programma di lavoro garantito sul modello del New Deal. È chiaro che in questo modo le imprese non sono più al centro della scena.
[27] – Op.cit., p. 67.
[28] – Op.cit., p.78
[29] – Op.cit., p.92, nota 68.
[30] – Op.cit., p.94, nota 69
[31] – Si veda Graham Allison, “Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?” Fazi Editore, 2018.
[32] – Viene citato il classico libro di Dani Rodrik, “La globalizzazione intelligente”, Laterza, 2011.
[33] – Op.cit., p. 107
[34] – David Quammen, “Spillover”, Adelphi 2012.
[35] – Klaus Schwab, “La quarta rivoluzione industriale”, op.cit.
[36] – Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss 2020
[37] – Op.cit., p.168
[38] – Op.cit., p. 180
[39] – Op.cit., p. 184
[40] – Op.cit., p. 191
[41] – Op.cit., p. 243
[42] – Nota 165
[43] – Cfr https://unric.org/it/wp-content/uploads/sites/3/2019/11/Agenda-2030-Onu-italia.pdf
[44] -John Gerard Ruggie, “International Regimes, Transactions, and Change: Embedded Liberalism in the Postwar Economic Order”. International Organization 36 (2), 1982.
[45] – Si veda https://www.mckinsey.com/business-functions/strategy-and-corporate-finance/our-insights/the-case-for-stakeholder-capitalism#
Fonte: http://tempofertile.blogspot.com/2021/03/klaus-schawb-e-thierry-malleret-covid.html
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