da TERMOMETRO GEOPOLITICO
( Giacomo Gabellini )
L’onda d’urto irradiata dal recente libro-intervista realizzato dall’ex magistrato Luca Palamara ripropone con forza l’irrisolta questione dei rapporti strutturalmente incestuosi intercorrenti tra giustizia e politica.
In una certa misura, beninteso, interferenze e “sconfinamenti” tra le due istituzioni risultano inevitabili per tutti i moderni Stati di diritto fondati sul principio della divisione dei poteri formulato a suo tempo da Montesquieu e vengono pertanto tollerati. Negli ultimi tempi, la Corte Suprema statunitense ha stabilito d’autorità il verdetto delle elezioni del 2000, decretato l’eliminazione di qualsiasi limite ai finanziamenti delle campagne elettorali e determinato indirizzi ben precisi in materia di eutanasia. Benché istituito ufficialmente per vigilare sugli altri poteri dello Stato in nome della Costituzione, questo potente organismo emana verdetti smaccatamente influenzati dal profilo ideologico dei suoi componenti, selezionati dai presidenti e sottoposti al Senato per l’approvazione definitiva sulla base di ben precise strategie politiche. I giudici della Corte Suprema non si limitano quindi a produrre sentenze che vanno a colmare i vuoti normativi ascrivibili all’inerzia e/o alla contraddittorietà dei legislatori, ma travalicano palesemente i loro compiti statutari concernenti la salvaguardia della Costituzione con pronunciamenti che hanno sovente l’effetto di stravolgerne radicalmente il significato e la portata. Consapevole di questo pericolo, Charles De Gaulle si adoperò affinché la Carta Costituzionale della Quinta Repubblica redatta da Michel Debré contemplasse l’istituzione di un Consiglio Costituzionale incaricato di fornire consulenza all’esecutivo, e non di imporre la propria volontà.
Nemmeno un personaggio dotato della popolarità e dell’autorevolezza del generale riuscì tuttavia a evitare che il suo Paese venisse contagiato dello stesso tipo di patologia di cui soffre ormai l’intero Occidente, consistente nell’alterazione dei delicatissimi equilibri tra le maggiori istituzioni interne causata dalla perdita delle prerogative tradizionalmente appannaggio dei poteri legislativo ed esecutivo a vantaggio di quello giudiziario.
Nell’arco degli ultimi decenni, complici l’aumento della consapevolezza dei diritti, la clamorosa rapacità della grande finanza, l’aumento vertiginoso delle disparità socio-economiche, le crescenti commistioni tra politica e affari e la smaccata autoreferenzialità delle classi dirigenti, in tutte le democrazie occidentali si è assistito a un forte incremento della domanda di giustizia ed uguaglianza. Simultaneamente, la deriva spiccatamente individualista e anti-comunitaria imboccata dalle società europee e nordamericane determinava l’aumento vertiginoso delle richieste di riconoscimento di nuovi diritti non di rado in urto con i diritti degli altri, e quindi incompatibili con il contesto generale in cui dovrebbero trovare applicazione.
Questo genere di istanze non ha trovato adeguato riscontro nell’attività legislativa non solo e non tanto a causa del disinteresse e/o dell’inadeguatezza delle classi politiche, ma anche e soprattutto in virtù dell’impossibilità da parte dello Stato di produrre ordinamenti in grado di assicurare un corretto bilanciamento tra diritti e doveri. Il crescente ricorso ai giudici per ottenere il riconoscimento dei diritti e appagare la sempre più intensa sete di giustizia che ne è scaturito ha alimentato in seno alle opinioni pubbliche una forma di sanculottismo talmente radicale da investire le magistrature di una sorta di missione salvifica, elevando i singoli giudici al rango di arbitri morali della vita collettiva capaci di emanare pronunciamenti dal valore oracolare, e quindi insindacabile. L’attività esercitata da governi e parlamenti, di converso, continuava ad essere sottoposta al pubblico dibattito e contestata sia nel merito che nel metodo. Così, in maniera graduale ma inarrestabile, i magistrati si sono accreditati come onnipotenti decisori di ultima istanza.
Lo si è visto non solo in Francia, dove ai reiterati tentativi di incriminazione di Jacques Chirac ha fatto seguito la condanna di Nicolas Sarkozy, ma anche in Spagna; qui, ha documentato il New York Times in un’inchiesta risalente al 2013, l’ondata senza precedenti di denunce di corruzione giunta presso i tribunali ha portato all’apertura di indagini a carico di membri di spicco di istituzioni del potere rimaste per lungo tempo intoccabili (come la famiglia reale) che ha garantito ai magistrati notorietà ed influenza tali da farne delle vere e proprie superstar. Qualcosa di paragonabile si è verificato in Israele, dove i giudici hanno indagato a fondo sul conto di Benjamin Netanyahu e sui legami tra la criminalità organizzata e diversi esponenti politici di alto profilo ponendo fine ad una serie di carriere particolarmente promettenti.
Giustizia e politica in Italia
Resta però l’Italia il Paese in cui il fenomeno ha assunto le dimensioni maggiori e prodotto i contraccolpi più pesanti. Le origini del problema possono essere collocate negli anni ’70, quando una classe politica insicura e timorosa delegò alla magistratura il compito di elaborare le strategie di contrasto al terrorismo di matrice sia “rossa” che “nera”. Con il duplice risultato di creare la figura del “giudice combattente”, schierato in prima linea – e quindi fatalmente esposto, come testimoniato dagli omicidi di Occorsio, Amato, Alessandrini, Terranova, Chinnici, Costa, Falcone, Borsellino, ecc. – nella lotta senza quartiere condotta dallo Stato nei confronti della criminalità non comune, e di aprire il varco all’intervento strutturale dei magistrati nell’elaborazione e nella stesura delle leggi – quella riguardante l’utilizzo dei “pentiti”, ad esempio, è stata scritta praticamente sotto dettatura dei giudici che si occupavano delle relative indagini.
Temprata dal duro lavoro svolto sul campo e legittimata agli occhi della popolazione dal sacrificio personale di molti dei suoi esponenti, oltre che dai successi conseguiti nella lotta al terrorismo, la magistratura si affermò come l’istituzione di gran lunga più solida e legittimata all’interno di uno Stato indebolito. Una forza divenuta talmente autorevole e influente da vanificare il tardivo e mal-gestito tentativo di bilanciamento organizzato dalla politica con il referendum relativo all’introduzione della responsabilità civile dei magistrati del 1987. Il cui esito schiacciante sancì l’abrogazione di una serie di norme ereditate dal codice di procedura penale del 1940, esponendo i giudici all’obbligo di rispondere in prima persona – anche sotto il profilo patrimoniale – dei loro errori (ed orrori, come quelli commessi in relazione al “caso Tortora”) senza scaricarne gli oneri sullo Stato.
Senonché, grazie a un meticoloso lavoro svolto sotto traccia, l’Associazione Nazionale Magistrati riuscì a stravolgere il senso profondo del pronunciamento referendario ottenendo dal Parlamento l’approvazione di una legge che, lungi dal disciplinare correttamente il responso referendario, ne stravolse il senso e la portata perché limitava la capacità dello Stato di rifarsi pecuniariamente sui magistrati – benché protetti da assicurazioni che ammontano «grosso modo a un terzo di una RCAuto medio-bassa» e – per i danni da essi cagionati a una cifra equivalente a non più di un terzo d’annualità del loro stipendio e, soprattutto, sottoponeva le iniziative risarcitorie al filtro preventivo della Corte d’Appello, che come è noto si compone di magistrati. Risultato: «su oltre 400 ricorsi proposti dai cittadini soltanto 7 si sono conclusi con un provvedimento che ha riconosciuto il risarcimento per dolo o colpa grave da parte dei magistrati». Come avrebbe successivamente rivelato dal suo “esilio” di Hammamet l’ex premier Bettino Craxi, l’allora Guardasigilli Giuliano Vassalli, socialista di lungo corso e promotore della legge approvata dal Parlamento, «si fece prendere purtroppo la mano dai magistrati, che affollavano il Ministero della Giustizia e intendevano proteggersi dagli effetti del referendum».
Blindata la propria posizione attraverso la “legge Vassalli”, la magistratura passò alla controffensiva nell’ambito di un feroce regolamento di conti con la politica reso possibile dalla fine della Guerra Fredda e destinato ad accentuare ulteriormente lo squilibrio degli assetti di potere inter-istituzionali italiani. Con l’implosione dell’Unione Sovietica, e il contestuale sgretolamento delle coperture internazionali che per quasi mezzo secolo avevano garantito l’impunità di un’intera classe politica, la magistratura italiana funse da organismo liquidatore del gruppo dirigente invecchiato all’ombra del Muro di Berlino e divenuto ormai obsoleto agli occhi dei attenti e interessatissimi pianificatori statunitensi.
“Mani Pulite”, la tempesta perfetta
Attraverso una strategia giudiziaria in grado di moltiplicare rapidissimamente e in maniera esponenziale il numero degli indagati, dei collaboratori e dei nuovi arrestati, il ciclone di “Mani Pulite” condusse al crollo fragoroso dello scheletro tangentizio che garantiva il finanziamento clandestino dei partiti su cui si reggeva il cosiddetto “arco costituzionale”. Sostenuta da una stampa giacobina e da un’opinione pubblica arrembante, l’offensiva scatenata contro il sistema politico italiano alimentò la triplice illusione che all’interno del Paese stesse finalmente facendosi strada una giustizia più equa e capace di penetrare le stanze del potere, che l’onestà rappresentasse la stella polare della “buona politica” e che la corruzione costituisse una patologia riguardante il solo gruppo dirigente, a cui imprenditori, giornalisti, banchieri, sindacalisti, gallonati dell’esercito, docenti universitari, ecc. risultavano invece completamente immuni.
Lo stesso Partito Comunista cercò di cavalcare la furia giustizialista scatenata da Tangentopoli nella malriposta convinzione di poter ovviare al discredito accumulato sul piano ideologico dall’esito della Guerra Fredda attraverso un’ostentazione di onestà tanto teatrale quanto priva di consistenza, come appurato dalle inchieste condotte successivamente. Gradualmente, nell’opinione pubblica cominciò a diffondersi quel mix di delusione e disillusione che portò parte assai considerevole degli elettori a rivolgersi a formazioni politiche nuove, del tutto prive della storia, della cultura e della consistenza politica di quelle appena abbattute dall’offensiva giudiziaria.
Detto altrimenti, si crearono le condizioni per l’indebolimento struttura della Repubblica, e per la contestuale creazione di un gigantesco vuoto di potere progressivamente riempito dalla magistratura. A cui Tangentopoli e il clima giustizialista fomentato ad arte dai principali mezzi di comunicazione avevano conferito grande prestigio e popolarità, a dispetto dei metodi adoperati nella conduzione della campagna giudiziaria, caratterizzata da un uso a dir poco spregiudicato della carcerazione preventiva, e dai suoi esiti sostanzialmente fallimentari. Su oltre 4.500 indagati e 3.200 individui rinviati a giudizio, si contano 1.281 condanne (di cui 935 per patteggiamento) e 1.111 tra assoluzioni e patteggiamenti. Una “contabilità” quantomeno problematica, che non tiene peraltro conto né dei 32 suicidi collegati alle indagini verificatisi tra il 1992 e il 1994, né delle decine di persone screditate mediante la divulgazione “a orologeria” di intercettazioni telefoniche e di atti coperti da segreto. Il caso più noto è indubbiamente quello riguardante Silvio Berlusconi, che nel 1994, mentre presenziava in qualità di primo ministro al vertice internazionale di Napoli sulla criminalità organizzata, fu raggiunto da un avviso di garanzia in conformità con le anticipazioni fornite al riguardo dal Corriere della Sera e con le pubbliche dichiarazioni pronunciate giorni prima dal coordinatore del pool milanese Francesco Saverio Borrelli.
Un gesto plateale e dal chiaro significato politico, perché palesemente diretto a minare la legittimità dell’esecutivo appena insediato. Nella percezione dell’opinione pubblica, profondamente distorta dal furore giustizialista imperversante, l’informazione di garanzia aveva perso la sua funzione originaria di tutela dei diritti difensivi dell’imputato per trasformarsi in una sorta di certificato di condanna anticipata nei suoi confronti in grado di ribaltare l’onere della prova ed annullare il principio costituzionale della presunzione di innocenza. I magistrati milanesi ne erano perfettamente consapevoli, e non esitarono a sfruttarla come arma politica per azzoppare l’azione di governo.
Il potere totale delle procure: dalla giustizia al giustizialismo
Osservato retrospettivamente, l’uso strumentale dell’avviso di garanzia nei confronti di Berlusconi si configura in tutta evidenza come il primo di una lunga serie di “sconfinamenti” di cui si sarebbe resa protagonista nel corso degli anni successivi la magistratura italiana, titolare di privilegi ritenuti inconcepibili in tutte le altre democrazie occidentali. Il modello anglosassone, ad esempio, si incardina sui principi fondamentali della divisione delle carriere, della netta distinzione dei ruoli e della subordinazione dell’azione penale ai criteri oggettivi dell’impatto sociale dei reati e delle concrete chance di successo dell’indagine.
Pochi parametri ma estremamente precisi, a cui i procuratori sono costretti ad adeguare la propria linea d’azione coerentemente con la natura elettiva della loro carica. Ancor più rigoroso risulta il sistema francese, in cui i procuratori rispondono direttamente al Guardasigilli. In Italia, viceversa, i pubblici ministeri hanno il pieno controllo della polizia giudiziaria e beneficiano delle medesime garanzie e guarentigie riservate ai giudici giudicanti. Allo stesso tempo, i pubblici ministeri sono autorizzati ad imbastire rapporti con i giornalisti, specialmente con quelli disposti di assicurare adeguata eco mediatica e “congrui” ritorni in termini di visibilità in cambio dell’accesso a intercettazioni telefoniche da pubblicare integralmente sulle pagine dei quotidiani. Comprese quelle coperte da segreto o prive di alcun legame con le indagini, qualora il loro contenuto risulti funzionale alle inchieste o alle inconfessabili mire personali del magistrato requirente (come screditare un indiziato con cui si ha qualche conto in sospeso ma di cui non si riesce ad accertare la colpevolezza).
Svincolate dai controlli tradizionali che in ogni sistema democratico disciplinano l’operato di qualsiasi forza istituzionale, le procure hanno acquisito di una gigantesca libertà di manovra, che tende non di rado a trasformarsi in puro e semplice arbitrio per effetto delle perverse implicazioni insite all’applicazione pratica del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Il quale, lungi dall’assicurare l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ha posto i magistrati nelle condizioni di indagare sul conto di chiunque, attraverso un’attività di ricerca preventiva alla notitia criminis mirata all’individuazione di eventuali comportamenti passibili di reato teoricamente allargabile «alla totalità dei comportamenti e delle interazioni umane». Una vera e propria pesca a strascico, non di rado attuata con precise finalità politiche. Prova ne sono le conversazioni in cui Palamara richiamava l’attenzione dei suoi colleghi magistrati sulla necessità di mettere strumentalmente sotto inchiesta Matteo Salvini. L’obiettivo consisteva non nell’ottenerne la condanna, ma semplicemente nel sabotare l’ascesa politica dell’allora ministro dell’Interno costringendolo un lungo ed estenuante braccio di ferro giudiziario.
Il tono dei messaggi inviati da Palamara (al procuratore di Viterbo Paolo Auriemma che gli manifestava perplesso di non capire dove Salvini stesse sbagliando, Palamara rispose con un inequivocabile «hai ragione, ma bisogna attaccarlo») lascia trapelare uno spiccato senso di impunità, dovuto non tanto all’assenza di leggi che impongano una reale responsabilità civile dei magistrati, quanto alla consapevolezza di poter celare la reale natura di qualsiasi iniziativa investigativa – anche se disposta sulla base di motivazioni ideologiche e/o interessi personali – dietro il paravento dell’obbligatorietà dell’azione penale, specie dinnanzi a un ente di vigilanza egemonizzato dall’Anm come il Consiglio Superiore della Magistratura. Vale a dire un organismo composto per due terzi dai cosiddetti “togati” – cioè giudici eletti da tutti i magistrati – e pertanto animato al pari di tutti gli organi di autogoverno da uno spirito corporativo che lo rende strutturalmente propenso all’anteposizione dei principi dell’autoconservazione e dell’intangibilità dei propri membri a qualsiasi altro genere di considerazione. Lo si è visto proprio con la gestione dello scandalo sollevato dal “caso Palamara”, a cui il Csm ha reagito infliggendo la classica “pena esemplare” a lui – la radiazione dalla magistratura – senza riservare alcun genere di provvedimento agli altri componenti della “cupola”. Senza l’appoggio dei quali, ovviamente, Luca Palamara non sarebbe mai potuto passare agli annali come il più giovane presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, né entrare a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo al cui interno si concordano nomine e bocciature sulla base dei rapporti di forza vigenti tra le varie correnti e non sulle reali capacità dei singoli candidati.
Da quando, negli anni ’60, il Csm cominciò a demolire i sistemi di valutazione professionale risalenti all’immediato dopoguerra – e tuttora vigenti in Paesi come la Francia e la Germania – per sostituirli con meccanismi semi-automatici di avanzamento basati sul criterio dell’anzianità, le prospettive di carriera sono venute a dipendere molto più dalla disponibilità a lasciarsi cooptare che non dal merito. L’assenza di graduatorie basate su criteri quanto più possibile oggettivi produce due effetti immediati e sinergici; per un verso, rende l’adesione a una corrente, a cui offrire “fedeltà” in cambio di appoggio politico, una specie di scelta obbligata per qualsiasi giovane magistrato dotato di un minimo di ambizione. Per l’altro, priva scientemente i membri laici del Csm degli elementi necessari alla valutazione dei candidati in lizza per una promozione, in modo da costringerli a rivolgersi ai consiglieri togati che non mancheranno a loro volta di suggerire i nomi degli appartenenti alla propria corrente.
Questa deriva “tribalista” imboccata dalla magistratura è andata peraltro accentuandosi a partire dall’entrata in vigore della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2007. Introducendo un limite temporale per gli incarichi, la “legge Mastella” – che secondo Francesco Cossiga era stata scritta dall’allora Guardasigilli «sotto dettatura di quella associazione tra il sovversivo e lo stampo mafioso che è l’Associazione Nazionale Magistrati» – ha prodotto il risultato di inasprire ulteriormente il tono della competizione tra le varie correnti, rendendole ancora più interessate a piazzare propri “fedelissimi” nei ruoli più influenti. A partire dalle procure, perché in grado di esercitare una particolare influenza all’interno dell’Anm e, a ricasco, del Csm, e in quanto titolari delle prerogative necessarie, rileva l’ex magistrato Carlo Nordio, per «attaccare la politica, quasi sempre il centrodestra ma qualche volta pure il centrosinistra, quando questa prova a eliminare o ridurre privilegi non giustificati» e a varare riforme sgradite. Specie se implicanti l’affermazione del principio della separazione delle carriere, o l’introduzione di meccanismi sanzionatori che puniscano abusi e inadeguatezze con sospensioni e, nei casi limite, perfino la destituzione dall’incarico.
Quale giustizia per il Paese?
Il profondo svilimento della giustizia derivante da una simile degenerazione tende inesorabilmente a tradursi sul piano pratico in devastanti contraccolpi sulla vita di milioni di cittadini, oltre a produrre pesantissime implicazioni di carattere sia economico che politico ravvisabili dalle decine e decine di procedimenti giudiziari che prima di rivelarsi destituiti di qualsiasi fondamento avevano mandato in rovina aziende floride, precluso candidature, provocato dimissioni di ministri e amministratori locali e persino causato la caduta di governi.
Un altro effetto, meno plateale ma parimenti deteriore, ascrivibile all’ipertrofia del potere giudiziario consiste nell’inchiodare l’azione politica e burocratica a una condizione di paralisi permanente, confinandola a una specie di immobilismo attendista a cui gli amministratori vanno sempre più frequentemente conformandosi in via precauzionale onde evitare di finire al centro di inchieste giudiziarie che, protraendosi per anni, tendono ad assorbire ingenti somme di denaro e ad accompagnarsi alle rituali richieste di sospensione dall’incarico che da temporanee divengono sovente definitive ed irrevocabili. Il pericolo è reso tanto più concreto non soltanto dalla natura stessa delle mansioni svolte da coloro che ricoprono cariche pubbliche, ma anche dalla vasta gamma di reati estremamente generici (come l’abuso d’ufficio) contemplati dal codice penale che, in presenza di un ordinamento caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale, pongono le procure nella posizione di avviare indagini sul conto di ogni amministratore sulla base di pseudo-indizi o semplici “voci di corridoio”, come ampiamente dimostrato dalle 19 assoluzioni consecutive inanellate da Antonio Bassolino.
Qualsiasi politico con un minimo di pelo sullo stomaco è infatti perfettamente consapevole che «basta un articolo malizioso, una denuncia da parte di un teste falso ma ben pagato (le anticamere dei Palazzi di Giustizia pullulano di falsi testimoni a pagamento), i vari nemici politici, e si interrompe carriera, vita, dignità di un uomo prima votato da molti, anche se alla fine del procedimento verrà dichiarato innocente». Nel 2017, l’allora presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone ha riconosciuto che «la cosiddetta paura della firma viene anche utilizzata come alibi per non agire, ma non va sottovalutata: molti amministratori sono effettivamente bloccati nel loro operato perché temono di finire sotto inchiesta». Di fatto, la magistratura si è imposta come principale forza inibitrice del Paese, in grado di paralizzare la società attraverso specifici provvedimenti o molto più semplicemente infondendo – non necessariamente in maniera volontaria – nelle cariche pubbliche una sorta di “timore reverenziale” che conduce o all’autocensura e conferisce un carattere strutturale all’interferenza indebita tra i principali corpi istituzionali dello Stato.
Da parte sua, la politica ha fatto di tutto per accentuare questa degenerazione, cullandosi nell’illusione di poter ovviare al proprio deficit di competenze e di legittimazione popolare affibbiando alla magistratura un ruolo di supplenza – se i legislatori vengono meno alle loro funzioni regolatorie, l’intervento compensatorio del potere giudiziario diviene inevitabile – che le permesso alle procure di assumere gradualmente il controllo effettivo di alcune nevralgiche leve del potere.
Innescato dalla cedevolezza mostrata della classe dirigente dinnanzi al fenomeno del terrorismo, il processo di trasferimento della sovranità dalla politica alla giustizia subì l’accelerata decisiva con l’incredibile rinuncia all’immunità formalizzata nel momento culminante di Tangentopoli dai disorientati parlamentari italiani, resi improvvisamente incapaci di comprendere che quella fondamentale forma di tutela era stata eretta non per garantirne la loro semplice impunità, ma per porre la volontà popolare di cui sono depositari al riparo da qualsiasi minaccia esterna, comprese eventuali indagini da parte della magistratura. Un concetto che Francesco Cossiga non mancò di ribadire quando, con uno dei suoi proverbiali colpi di teatro, si avvalse delle prerogative di capo supremo delle forze armate spettanti al Presidente della Repubblica per ordinare a un battaglione di carabinieri carristi di circondare Palazzo dei Marescialli in risposta al tentativo del Consiglio Superiore della Magistratura di colpire l’allora primo ministro Bettino Craxi.
A suo avviso, il Csm stava tentando di «affermarsi pericolosamente quale terza Camera del Parlamento nazionale, non elettiva, non democratica, ed anche quale organo Costituzionale, posto al vertice del potere giudiziario». Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, ma il potere della magistratura non ha cessato di crescere. Attualmente, i magistrati partecipano attivamente alle dispute elettorali, passano con grande disinvoltura dai tribunali agli scranni parlamentari e di nuovo ai tribunali, scrivono libri e articoli, presenziano a dibattiti televisivi e si esprimono pubblicamente in merito alle questioni più disparate, completamente avulse dal loro ambito di competenza.
Se nel 2007 l’allora ministro degli Esteri Massimo D’Alema si spinse a confidare all’ambasciatore statunitense a Roma Ronald Spogli che la magistratura era diventata «la più grande minaccia per lo Stato italiano», parte tutt’altro che irrilevante della responsabilità era tuttavia da ascrivere proprio alla classe politica. La quale è divenuta talmente avvezza a delegare la risoluzione delle controversie ai giudici (esempio paradigmatico: il caso relativo all’Ilva di Taranto) da non riuscire ancora oggi a trovare le motivazioni né il coraggio sufficienti per riappropriarsi delle proprie prerogative e recuperare quei margini di autonomia imprescindibili per la stesura di una legislazione ordinata, al passo coi tempi – che richiede una profonda ma irrinunciabile revisione del testo costituzionale – e soprattutto capace di delimitare con precisione lo spazio di manovra delle procure, ponendo fine allo strapotere discrezionale ed irresponsabile di cui godono i magistrati requirenti.
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