Gioacchino Volpe, storico della nazione
di QELSI (Leonardo Giordano)
Nella sua opera ricostruisce il “cammino” dell’Italia verso la meta della sovranità nazionale e popolare.
La definizione di Gioacchino Volpe come “storico della Nazione” è di Eugenio Di Rienzo che ha curato la voce dedicata allo storico abruzzese sull’Enciclopedia Treccani. Tra l’altro proprio sulle pagine dell’Enciclopedia Italiana,Volpe curò la parte riguardante la storia del Medioevo rintracciando già in quell’epoca i semi di “italianità” che andavano germogliando e prorompentemente maturando nei frutti dell’unità statuale (1861) e della vittoria della Nazione e del popolo italiano nel primo conflitto mondiale; punto, quest’ultimo, che segna il coronamento del sogno di un’Italia unita all’interno dei confini geografici da sempre ritenuti di pertinenza ed appartenenza italiana.
Sostiene proprio Di Rienzo:<< In questo modo, la storia dell’età medioevale appariva non solo preludio, ma già parte integrante di una “storia italiana” come dimostrava plasticamente la chiusa del volume del 1902 (“Medio Evo italiano” n.d.r.), dove persino il tema del conflitto civile, rinnovatosi ed ampliatosi nel confronto tra guelfi e ghibellini, era visto come elemento di un faticoso processo verso una maggiore e più estesa unità politica, capace di oltrepassare i ristretti confini di città e regioni, per interessare l’intera penisola.>>
Del resto basterebbe passare in rassegna alcuni titoli delle opere di Gioacchino Volpe, come appunto “Medio Evo italiano” (1902), “Momenti di storia italiana” (1925), “L’Italia in cammino” (1927), “La storia dell’Italia e degli italiani” (1933), “Il popolo italiano tra la pace e la guerra” (1940), “Italia moderna 1815-1914” (1943, 1952). “L’Italia che fu. Come un italiano la vide, sentì, amò.” (1960), per comprendere il tenace, colto, acuto e meticoloso sforzo di ricostruzione della storia nazionale che egli profuse senza risparmiarsi durante tutta la sua vicenda intellettuale e culturale.
I suoi maestri erano stati Pasquale Villari, Amedeo Crivellucci e Alessandro D’Ancona in Italia. Aveva poi seguito dei corsi in Germania, durante i quali aveva potuto affinare i propri strumenti di indagine storica alla luce degli studi della scuola germanica di Otto Von Gierke e Otto Hintze nonché degli esiti della sociologia di Werner Sombart. Inizialmente aveva intessuto anche uno stretto rapporto con Benedetto Croce, traumaticamente interrotto con la pubblicazione di “Italia in Cammino” e sul tema specifico del giudizio negativo che egli dava di Giolitti e del “giolittismo” che, secondo Volpe, non possedevano una visione del ruolo “geopolitico” che l?Italia doveva e poteva assumere sullo scacchiere europeo e mediterraneo.
Vi erano anche notevoli distanze dal filosofo di Pescasseroli sul metodo d’indagine storica. Spesso questi, nell’opinione e nel giudizio di Volpe, si rifugiava dietro l’alibi del freddo ed imperturbabile distacco che dovrebbe connotare il lavoro dello storico per fornire invece l’esito di una storia giustificazionista del dato acquisito e pedissequamente “conservatrice”, affatto attenta alle forze vive ed energiche che andavano emergendo e che, facendosi faticosamente strada, avrebbero ingenerato mutamenti e stravolgimenti epocali.
Ponendo a confronto scrittura crociana ed “eloquio volpiano” lo storico Silvio Lanaro, in “Raccontare la storia” afferma:<< Nella sua concitazione e nel suo sincopato eloquio novecentesco, Volpe non sacrificava nulla dell’intreccio e del cozzo tra i molteplici agenti sociali, mentre nella sua compassata dettatura ottocentesca Croce stilava l’ennesima “storia ideale eterna” dell’immanenza dello spirito.>>
Storico del novecento, dunque, fu il Volpe, non insensibile anche agli apporti dei nuovi fermenti culturali e politici che si andavano affermando e che Croce, in un certo qual senso, aveva demonizzato: Futurismo, vocianesimo, socialismo interventista, cattolicesimo nazionale e democratico, fascismo stesso.
Quali sono i punti fermi che hanno segnato le opere di Volpe assicurandone attualità duratura e preveggenza rispetto a fenomeni distanti dalla sua epoca?
Si può partire proprio da questa visione della storia non come teoria di vicende sollecitate e provocate da élites solitarie, distaccate dalla realtà viva di un popolo e di una nazione, ma intesa nel complesso dei fenomeni sociali, culturali, economici, civili e politici che si incrociano tra di loro interferendo l’uno sull’altro e ricomponendosi in risultanti che ognuna di queste cose contengono ma che non coincidono con nessuna di esse singolarmente prese.
Questa visione della storia porta Volpe a considerare partecipi del “cammino” italiano, del lungo percorso che la Nazione ha dovuto fare per guadagnare sovranità politica, identitaria e civile, anche fenomeni sociali apparentemente distanti e contraddittori come le lotte sociali di primo Novecento, il lavoro agricolo nel produrre sufficienti derrate alimentari in tempo di pace ed in tempo di guerra, lo sforzo di alcuni cattolici di superare il non expedit e partecipare alla vita politica d’Italia, gli emigranti italiani con le rimesse dei loro risparmi, con il loro tributo di caduti al primo conflitto mondiale, l’arditismo dei volontari di guerra; persino il neutralismo pre-bellico, contrastando dialetticamente l’interventismo, avrebbe contribuito a far maturare una più convinta coscienza nazionale all’immediata vigilia della Grande Guerra. Sembra che Volpe introduca, senza esplicitamente nominarlo, il principio delnociano dell’eterogenesi dei fini. La storia di una nazione non sarebbe semplicemente storia di vicende politiche e di grandi personaggi bensì storia nazionale, popolare e sociale, nel senso più ampio, completo e più inclusivo di questa espressione.
Chiosa Salvatore Lupo, nell’introduzione all’ultima edizione de “L’Italia in cammino” :<< Col tempo e con l’esperienza della politica reale, la nazione finirà per rendersi conto dell’esistenza del proletariato, e il proletariato dell’esistenza della nazione. La crisi dei modelli oligarchici ereditati dall’età postunitaria, la crescita della partecipazione politica popolare, si risolverà in un “progressivo assorbimento, da parte dello Stato e della nazione italiana” di quanto ne è sino ad allora rimasto “spiritualmente fuori-“.>>
Il secondo importante punto fermo è la definizione che attraverso l’indagine storica e storiografica Gioacchino Volpe fa dell’identità nazionale italiana. Essa è “identità” una e molteplice, basata su fondamenti morali e spirituali comuni, pur forgiati in contrade e comunità varie e plurime:<< Questa varietà e accidentalità avevano, sì, reso più difficile l’unità politica e il rapido affiatamento degli Italiani; ma potevano anche tradursi, come si tradussero, in molteplicità di forze e di attitudini della nazione. E poi anche tratti comuni visibilissimi, che individuavano moralmente questo popolo fra gli altri popoli, come bene individuata fisicamente era la regione italiana fra le altre regioni. Unito nella varietà, vario nella sua unità, notava di esso qualche acuto osservatore e scrittore del Risorgimento.>>
Nell’opera dello storico di Paganica vi è inoltre una profonda e solida convinzione circa il ruolo “geopolitico” che spettava di svolgere all’Italia, ruolo che non poteva svilupparsi compiutamente al seguito di qualche potenza mitteleuropea ma che andava giocato nel Mediterraneo. In tal senso la conquista della Libia gli era apparsa provvidenziale ed una politica “afro-mediterranea” un’ineludibile necessità. Una volta consolidati i confini nord-orientali con il recupero delle province “irredente” e chiuso il corridoio triestino sull’Adriatico ed il Mediterraneo (compito cui avrebbe dovuto assolvere la prima guerra mondiale) lo sguardo italiano doveva rivolgersi al Mediterraneo e all’Africa.
<< Torneremo noi, i nostri figli, a desiderare quel che essi desideravano? Raccoglieremo i rottami della nostra Italia d’Africa per ricostruirla con esperienza maggiore? Lo potremo, lo vorremo? O è finita per noi, come per Pisa, per Genova, per Venezia, per i piccoli stati d’Italia, quando nell’Europa apparvero i grandi stati e quelli non potettero più vivere? Chi lo sa. La mente dice piuttosto di no. Ma il cuore non vuol rinunciare a sperare di si!>> Queste righe furono vergate nel suo diario del 1945, alla fine della guerra. Volpe è scettico circa una possibile continuazione dell’esperienza coloniale ma da queste considerazioni appassionate e accorate emerge, da un lato, la lucida consapevolezza di ciò che una forte presenza mediterranea dell’Italia potesse e possa rappresentare; dall’altra la capacità di prevedere le conseguenze della mancata presenza italiana in questo scacchiere, preveggenza che, alla luce di quanto sta accadendo in Libia e in Medioriente, appare addirittura profetica.
Nella sua visione degli equilibri europei, prima della Grande Guerra, è fortemente presente la convinzione che il pericolo per gli interessi italiani fosse la Germania, che essa volesse arrivare all’accesso al Mediterraneo tramite il controllo del porto di Trieste e dell’Adriatico e che le relazioni industriali e finanziarie che si erano costruite tra industria tedesca ed industria italiana, tra banche tedesche e banche italiane, servivano più agli interessi teutonici che non a quelli italiani: << Anche chi guardava le statistiche economiche aveva da dire qualche cosa sul conto dei Tedeschi. Non solo le importazioni tedesche in Italia erano cresciute assai più di quelle italiane in Germania; non solo moltissime industrie italiane erano controllate dalla banca tedesca o italo-tedesca (la Banca Commerciale n.d.r.). Ma si pensava da molti che una parte notevole di quelle industrie servivano più all’interesse dei costruttori di macchinario tedeschi che non all’interesse italiano […]>> Inutile osservare quanto questo “pericolo” sia prepotentemente tornato di attualità nelle recenti vicende italiane, tedesche ed europee a partire dal 2011 ad oggi.
Infine un punto di grande originalità dell’opera di Gioacchino Volpe è costituito dall’aver ridotto e ridimensionato (non abolito ovviamente) il ruolo del Risorgimento nel farsi e costruirsi della storia nazionale italiana. Un numero di pagine decisamente maggiore è stato da lui scritto sul “Medioevo italiano”, sul primo decennio del Novecento e sulla “Grande Guerra” che non sui moti risorgimentali; cioè più sul cominciamento e sulla conclusione di questo “cammino” che non sulla tappa intermedia. Ciò gli consentì, tra l’altro, di volgere la sua attenzione anche a fatti storici che la retorica massonico-risorgimentalista aveva demonizzato, espulso o cancellato dalla storia patria come il Brigantaggio, il ruolo non trascurabile dei cattolici nello stesso Risorgimento, l’emigrazione di massa che, se fosse stata adeguatamente governata ed orientata, poteva essere positiva esportazione di “italianità” nel mondo, percorso pacifico e parallelo rispetto a quello coloniale.
Nei vari saggi dedicati alla prima guerra mondiale si staglia, per stile, per mozione d’affetto e per coraggio di storico, il ritratto dell’alpino e del soldato italiano, ipostasi di quello che è il temperamento ed il carattere nazionale che, indipendentemente dalla regione di provenienza, da una parte, accomuna gli abitanti della penisola ed identifica agli occhi stranieri l’italiano e, dall’altra, lo differenzia dagli abitanti di altre contrade europee.
Gioacchino Volpe non fondò una sua scuola storica strutturalmente organizzata ma la sua eredità è stata notevole e la troviamo recepita da un’ampia varietà di validi storici come Federico Chabod, Walter Maturi, Rosario Romeo, Renzo De Felice, Ernesto Sestan; per il Medioevo il suo testimone fu raccolto e portato avanti, non senza aggiornamenti e adattamenti, da Marco Tangheroni e dallo stesso Franco Cardini. Persino il gramsciano Giorgio Candeloro affermava che nella sua “Storia dell’Italia moderna” in molte cose si sentiva debitore del nostro più autorevole e ancora insuperato “storico della Nazione”.
FONTE: https://www.qelsi.it/2021/gioacchino-volpe-storico-della-nazione/
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