Alle 16 del 9 maggio 1972, Benjamin Netanyahu era all’aeroporto di Lod – così si chiamava allora il Ben Gurion – vestito con una tuta bianca. Era camuffato da tecnico aeroportuale, e, insieme a 16 uomini del Sayeret Matkal, era intento a liberare gli ostaggi del volo Sabena 571 in mano a quattro uomini di Settembre Nero che chiedevano la liberazione di 315 prigionieri palestinesi in cambio della vita dei passeggeri. L’unità delle forze speciali era guidata da un altro futuro primo ministro di Israele: Ehud Barak.
L’“Operazione Isotopo”, questo il nome in codice dell’azione per liberare i 90 ostaggi dell’aereo, fu un successo: gli israeliani riuscirono a entrare nell’aereo fingendosi tecnici che dovevano riparare l’impianto idraulico. Una volta giunti all’obiettivo, le forze speciali uccisero due sequestratori, riuscendo ad arrestare le due donne che facevano parte del commando palestinese. Nello scontro a fuoco all’interno dell’aereo furono feriti tre passeggeri: una di esse, Miriam Anderson, di 22 anni, morì per le ferite. Netanyahu, allora 23enne, venne colpito a un braccio da un proiettile “amico” sparato da Marko Ashkenazi, intento a colpire una delle dirottatrici, Theresa Halsa.
Netanyahu il soldato di fronte alla crisi
49 anni dopo, Netanyahu è alla guida di Israele come il più longevo primo ministro della storia dello Stato ebraico. Gli scandali che hanno piegato la sua leadership non sono pochi, i tribunali lo braccano e il suo governo non riesce più a decollare. Il suo Likud non basta più a se stesso e Israele non è quello di qualche anno fa. La sua leadership è in ombra e la nuova presidenza degli Stati Uniti non è certo quello che si augurava per la sua campagna politica, visto che dall’amicizia persona con Donald Trump e il suo circuito si è passati a un Joe Biden intento a trattare con l’Iran. Ma dopo 49 anni da quello sparo che ha perforato il suo bicipite, e dopo aver visto una ragazza ferita a morte davanti ai suoi occhi, un fratello, Yoni, ucciso a Entebbe durante un’altra operazione quattro anni dopo, Netanyahu continua la sua unica vera battaglia: quella contro il terrorismo palestinese.
È una guerra che ha vissuto sul campo. Non è un analista chiuso in qualche stanzetta tra Gerusalemme e Tel Aviv né uno che non ha visto la morte davanti ai suoi occhi. Netanyahu era prima di tutto un soldato, che è vissuto per anni con un addestrato a uno scopo e con l’idea di colpire chiunque provasse a mettere in pericolo Israele.
La vita forgia l’uomo e anche il politico. Ed è impossibile credere che quei decenni non abbiano segnato la vita di “Bibi”. Quasi 50 anni fa, Netnayahu era su quell’aereo intento a liberare 90 civili presi in ostaggio da Settembre Nero. Ora è a capo di Israele e infuria la guerra tra il suo Paese e la Striscia di Gaza. Una guerra senza esclusione di colpi, con i bombardamenti dell’aviazione israeliana che colpiscono la città di Gaza e i razzi di Hamas e Jihad Islamica che piovono sul territorio israeliano: ieri notte direttamente su Tel Aviv.
Gli errori di Netanyahu
L’incendio scoppiato in questi giorni è sicuramente anche responsabilità del premier. La tensione è salita alle stelle anche perché lui stesso non è riuscito a mantenere l’ordine dopo il caos esploso a Gerusalemme e non aver tenuto a bada le frange più estreme dei suoi cittadini. In questa continua campagna elettorale permanente tutto sembra essere oggetto di propaganda e calcolo politico. Amos Harel, sul quotidiano israeliano Haaretz, afferma che l’attuale escalation avvantaggia in ogni caso il primo ministro, rendendo quasi impossibile a Naftali Bennett e Yair Lapid formare una coalizione e rivolgersi ai partiti arabi della Knesset. Ma la scelta di non porsi come mediatore e di non evitare il pugno duro sulla popolazione palestinese ha sicuramente un peso notevole. La convivenza tra i due popoli appare sempre più difficile. E se sono evidenti le responsabilità del fronte estremista palestinese, che lancia i suoi missili contro Israele colpendo indistintamente, non può dirsi che anche Netanyahu non abbia in qualche modo alimentato un certo atteggiamento nei confronti dell’altra etnia che vive nella Terra Santa.
Lo sa bene anche il suo ministro della Difesa, Benny Gantz, altro soldato diventato politico, ma che ha da sempre scelto toni più concilianti. In preda alla pioggia di razzi caduta su Tel Aviv, l’ex generale ha detto a tutta la popolazione, araba e israeliana, che le Idf avrebbero difeso chiunque fosse cittadino dello Stato di Israele. Una scelta dialettica che serve anche a marcare una differenza tra i due partiti, ma anche come acqua di fronte a un incendio che rischia di divampare in modo incontrollato.
Il rischio di una guerra civile
Quello che ha sotto i suoi occhi è il reale pericolo che la guerra civile esploda in tutto il Paese. Come avvenuto questa notte a Lod, dove il sindaco ha chiesto disperatamente lo stato di emergenza per le violenze contro sinagoghe e popolazione ebraica. Yair Revivo, il primo cittadino, teme che la popolazione ortodossa risponda con le armi, distruggendo tutto quanto fatto in questi decenni per la convivenza tra i due popoli. “Ogni minuto, un’auto, una sinagoga o una scuola vanno a fuoco. Il nostro nuovo municipio è stato scassinato e dato alle fiamme. Non capisci cosa sta succedendo qui. Questo è peggio dei missili da Gaza”.
Ora che la guerra infuria, Netanyahu potrebbe svestire i panni del politico, indossando di nuovo l’uniforme delle Idf. La sua voce, che parla da capo di partito, ribadisce che Israele si vendicherà per quanto avvenuto nella notte. Ma da soldato sa che è il momento di azioni chirurgiche che evitino ulteriore caos nello Stato ebraico e nella Striscia di Gaza. Le forze armate sono pronte all’azione, ma per evitare il disastro di vedere un Paese devastato all’interno e dall’esterno, “Bibi” proverà ad agire con una strategia molto precisa. Gli omicidi mirati sono già iniziati, idem il bombardamento chirurgico su alcuni edifici considerato come centri di comando di Hamas. La guerra ora è in casa. E se il politico ha commesso errori, il soldato non può sbagliare, non può esagerare: deve far capire di avere in mano la situazione e rispondere in modo che l’incendio non devasti il suo Paese.
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