I conflitti aperti tra Cina e India
da TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Andrea Muratore e Federico Giuliani)
Dai ghiacciai dell’Himalaya alle distese oceaniche dell’Indo-Pacifico, la rivalità geopolitica tra Cina e India plasma le dinamiche dell’Asia contemporanea. L’ascesa al potere di Xi Jinping a Pechino e Narendra Modi a Nuova Delhi ha, negli ultimi anni, rilanciato le ambizioni politiche dei due Paesi. Ma non ha creato ex novo una rivalità e una potenziale conflittualità che serbava da tempo.
Nuova Delhi percepisce la Cina come un rivale sistemico. A tratti, un nemico esistenziale paragonabile all’odiato Pakistan. Vive la sindrome dell’accerchiamento, temendo che la Nuova Via della Seta e l’espansionismo navale e militare di Pechino la taglino fuori dalle rotte commerciali e dal contatto con le altre potenze alleate. Valuta il contenimento come arma sistemica per eccellenza.
La collana di perle cinese “soffoca” l’India?
L’India deve però calibrare attentamente i suoi passi. Nuova Delhi non può caricare a testa bassa il vicino cinese, perché i funzionari indiani sanno bene che l’economia nazionale dipende in gran parte dai flussi commerciali provenienti da oltre Muraglia. D’altro canto, l’Elefante non può neppure mostrarsi troppo accondiscendente di fronte all’ascesa della Cina. In ballo ci sono gli equilibri del continente asiatico, ormai sbilanciati a favore del Dragone, e l’influenza politica su aree strategiche fondamentali tanto da un punto di vista economico quanto da quello geopolitico.
Pensiamo, ad esempio, a tutto il sud-est asiatico e alle rotte marittime a esso connesse. È vero che Cina e India non sono potenze di mare, ma è altrettanto vero che Xi Jinping, lanciando la Belt and Road Initiative, ha messo nel mirino diversi porti chiave, dall’Asia all’Europa, per creare una sorta di “filo di perle” (String of Pearls) capace, da un lato di strozzare le velleità dell’India, e dall’altro di connettere l’ex Impero di Mezzo al cuore del Vecchio Continente. Il suddetto termine è stato coniato per la prima volta nel 2005 dalla società di consulenze statunitense Booz Allen Hamilton nel report Energy Futures in Asia, in cui si prevedeva che la Cina avrebbe tentato in tutti i modi di espandere la propria presenza navale nell’area inerente all’Oceano Indiano, costruendo infrastrutture civili marittime negli Stati “amici” della regione.
Secondo questa teoria il punto di partenza cinese potrebbe essere collocato nell’isola provincia di Hainan. Da qui, immaginiamo di far partire una “via marittima” capace di collegare il gigante cinese a Medioriente, Africa ed Europa. Così facendo le navi mercantili cinesi sarebbero in grado di transitare in relativa sicurezza attraverso alcuni tra gli stretti più strategici (e pericolosi) del mondo: lo stretto di Aden, incastonato tra Oman e Iran, quello di Bab al Mandeb, a ridosso tra Yemen e Gibuti e, infine, il famigerato stretto di Malacca, tra Malesia e Indonesia.
L’India, per anni a secco di visioni geopolitiche globali, e ammaliata dal riflesso degli Stati Uniti, ha così gradualmente perso il controllo del proprio “cortile di casa”. Ad oggi possiamo indicare cinque porti chiave coltivati dalla Cina: il porto di Kyaukpyu in Myanmar, quello di Chittagong in Bangladesh, il porto di Colombo in Sri Lanka, quello di Gwadar in Pakistan e, dulcis in fundo, il porto Obock in Gibuti, dove Pechino può vantare l’unica base militare situata oltre confine.
Le contromosse indiane
L’India, Paese che vede oltre l’80% dei suoi commerci transitare sulle rotte oceaniche, non può non considerare una contromossa marittima all’azione cinese. Il timore che la “superstrada marittima” possa finire sotto la totale disponibilità della Cina, per quanto volutamente amplificato dai pensatori strategici di Nuova Delhi, chiama l’India ad agire per garantire la preservazione dei suoi interessi; anno dopo anno l’India ha concepito una strategia geopolitica volta a riequilibrare la crescente influenza cinese nell’area dell’Oceano Indiano.
Per controbilanciare l’avvicinamento cinese a numerose nazioni asiatiche ed africane dell’area dell’Oceano Indiano, verificatosi sulla scia della convergenza diplomatica, economica e strategica, il piano d’azione dell’India ha mirato alla costruzione di stretti legami di natura analoga con Stati “complementari” a quelli entrati nell’orbita della Repubblica Popolare. Nel 2016, il governo di Modi ha provato a segnare un punto a suo favore riuscendo a convincere i governi di tre Stati insulari dell’Oceano Indiano, Maldive, Seychelles e Mauritius ad impiantare sul loro territorio una serie di installazioni di sorveglianza radar, per un totale di 32 strutture garantire alle forze armate indiane di controllare il movimento di qualsiasi mezzo navale operante nel teatro oceanico. Non abbastanza, tuttavia, da poter dire di aver costruito una nuova collana di perle, come invece ha sostenuto l’analista indiano Shrankar Shrivastava. L’India ha provato allora a controbilanciare Pechino cercando l’appoggio di potenze parimenti timorose delle manovre geostrategiche cinesi.
L’ultima carta che ha scelto di giocarsi l’India per rientrare in pista, e al tempo stesso ridimensionare le ambizioni cinesi, è stata l’adesione alla Free and Open Indo-Pacific Strategy (Foip), che può essere tradotta in italiano con il nome di Strategia indo-pacifica libera e aperta. Il progetto, portato avanti da Giappone e Stati Uniti, si prefigge idealmente di offrire un’alternativa in versione ridotta alla BRI di Xi Jinping. L’obiettivo della FOIP è quello di unire Asia e Africa, così come l’Oceano Pacifico e l’Indiano. Tra i progetti in cantiere troviamo la riqualificazione (o costruzione) di porti a Mumbai, in Mozambico, Madagascar e Myanmar. In realtà l’iniziativa spalleggiata da Tokyo è stata etichettata come una sorta di operazione economico-finanziaria che niente avrebbe a che vedere con il Quadrilateral Security Dialogue (il dialogo strategico-militare tra Stati Uniti, Australia, India e lo stesso Giappone). Il Foip, al contrario, si prefigge di creare un ordine internazionale “basato su regole inclusive, omnicomprensive e trasparenti”. In ogni caso, la visione del premier indiano Narendra Modi non può – almeno in questa fase – coincidere con quella americana.
Modi, infatti, cerca da un lato una partnership sempre maggiore con l’Asean, l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico, e dall’altro un silenzioso bilanciamento nelle relazioni con Stati Uniti e Cina. In un certo senso possiamo quindi affermare che, per ragioni geopolitiche e strategiche, la FOIP indiana sia staccata rispetto alla FOIP nippo-statunitense.
Il Quad, nato come dialogo strategico in campo navale e marittimo, sta prendendo concretamente forma soprattutto in campo tecnologico. Donald Trump e Joe Biden hanno alzato le barriere contro il 5G cinese e stanno trovando rispondenza nelle mosse di Tokyo e Canberra contro l’innovazione dell’Impero di Mezzo, a cui Nuova Delhi si è recentemente unita. Da giugno Huawei e Zte saranno bandite dall’India. Nel primo vertice dei leader del Quad tenutosi sabato 13 marzo Biden, il premier indiano Narendra Modi e gli omologhi Yoshihide Suga (Giappone) e Scott Morrison (Australia) hanno indicato in un documento congiunto proprio il contenimento tecnologico anti-cinese tra gli obiettivi di comune rilevanza.
In tutto questo, sia chiaro, Nuova Delhi sta cercando di sfidare i progetti infrastrutturali della Cina proponendo “alternative indiane”, come accaduto con i progetti portuali in Bangladesh, Iran e Sri Lanka. In secondo luogo, il governo indiano ha fatto (e sta facendo) di tutto per apparire come uno dei principali contributori alle operazioni umanitarie e di soccorso attive nel suo vicinato. La recente diplomazia dei vaccini è soltanto la punta dell’iceberg: l’India ha provato a utilizzare come un’arma la sua natura di farmacia del mondo per conquistare una rendita geopolitica a scapito di Pechino nei terreni di concorrenza. Mancando però della capacità programmatica per portare avanti un piano a tutto campo in grado di coniugare la preservazione della popolazione con la campagna di immunizzazione e un utilizzo dei vaccini anti-Covid per ragioni commerciali e di promozione nei Paesi del “Terzo Mondo”. Questa approssimazione si è ritorta contro Nuova Delhi con l’esplosione dell’ondata Covid primaverile.
Le tensioni di confine
Le nuove frontiere di rivalità geopolitica tra India e Cina non negano i vecchi, tradizionali fronti di contrapposizione. Che fanno riferimento alla rivalità di confine tra la Cina popolare di Mao e l’India appena diventata indipendente avviatasi per le terre contese che dividono i due Paesi, i cui strascichi si trascinano sino ai giorni nostri. La relazione sino-indiana, infatti, aveva iniziato a deteriorarsi a partire dal 1959, quando in seguito alla sanguinosa repressione cinese dell’insurrezione tibetana scoppiata a Lhasa nel mese di marzo il Dalai Lama Tenzin Gyatso si rifugiò in India, ove ottenne asilo politico. Da allora in avanti, tra Cina e India iniziò un forte contenzioso riguardante le regioni di confine nell’area occidentale dell’Aksai Chin e nella regione orientale indiana dell’Arunachal Pradesh, contraddistinto da ripetute schermaglie di confine sui passi montani delle zone contese tra pattuglie dell’Armata di Liberazione Popolare e dell’esercito indiano, nonché da continui colloqui diplomatici volti a prevenire lo scoppio di un conflitto aperto.
Il 20 ottobre 1962, tuttavia, l’esercito cinese sferrò un’offensiva su entrambi i fronti del confine con l’India, sconfisse a più riprese una forza armata decisamente meno preparata e dimostratasi molto disorganizzata nel corso dei precedenti interventi contro gli avamposti coloniali portoghesi di Goa e Diu, giungendo a occupare le importanti località di Rezang La, in Ladakh, e Tawang, nell’Arunachal Pradesh. Il 21 novembre, in ogni caso, la Cina impose un “cessate il fuoco” unilaterale dopo aver dichiarato di esser riuscita a conseguire l’obiettivo principale del conflitto, ovverosia il consolidamento dei propri confini con l’India.
Nell’area del Ladakh, il confine si fossilizzò sulla “Linea Attuale di Controllo” (LAC) che ricalcava le posizioni tenute dai due eserciti al termine del breve conflitto. Negli stessi anni, la comune contrapposizione strategica con l’India e le rivendicazioni congiunte su un’area contesa come il Kashmir portarono allo sviluppo dell’amicizia sino-pakistana, concretizzatasi inizialmente sotto forma di voluminose relazioni economiche e continue collaborazioni militari e implementatasi nel corso degli anni per durare sino ai giorni nostri. In cui, come dimostrato dai fatti del 2020, le tensioni di confine tra India e Pakistan da un lato e India e Cina dall’altro non accennano a diminuire. Divenendo il punto di scaricamento di un’elettricità statica connessa a profonde divergenze strategiche. Nel mezzo di un triangolo di confine tra potenze nucleari e dagli interessi a tutto campo. Insomma, la rivalità tra Pechino e Nuova Delhi è locale e globale. E dagli esiti potenzialmente imprevedibili sul lungo periodo.
FONTE: https://it.insideover.com/politica/i-conflitti-aperti-tra-cina-e-india.html
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