Lo spettro del Dio mortale: Balibar e la sovranità
di La Fionda (Pasquale Nocchese)
Nonostante si tratti di una raccolta di quattro saggi scritti in periodi differenti, “Lo spettro del Dio mortale” riesce a comporre un percorso unitario nell’opera di Balibar. La chiave di violino è quella di un confronto “a tre”, o meglio a “due più uno”. Il primo motore immobile è il confronto tra Balibar e Schmitt, un confronto che erompe dalle necessità immanenti alla riflessione personale di Balibar piuttosto che da curiosità storico-filosofiche. Balibar ha bisogno di Schmitt e non può che trattare Schmitt. Segue il confronto tra Schmitt e Hobbes. Un confronto lungo una vita (intellettuale e non) e che condivide il movente del primo: Schmitt è obbligato a cercare Hobbes per gli interrogativi presenti nella propria stessa dottrina. Infine, chiaramente, il confronto tra Balibar e Hobbes, un confronto tuttavia sempre mediato, indiretto e soprattutto strumentale. Balibar non permette mai a Schmitt di lasciarlo “solo con Hobbes”, che è analizzato sempre in riferimento all’opera di Schmitt, alle problematiche poste da Schmitt, o al confronto tra i due. Hobbes è trattato come lente per interpretare con Schmitt, in quanto è la lente che Schmitt ha usato per interpretare sé stesso.
Perché Balibar ha bisogno di Schmitt? La risposta è articolata tra la densa prefazione di Giada Scotto, curatrice del lavoro, e il primo saggio, “Prolegomeni alla sovranità: la frontiera, lo Stato, il popolo”. Balibar è un pensatore del proprio tempo. Come è impossibile pensare Hobbes senza le guerre di religione in Inghilterra o Schmitt senza la tragica parabola della Germania novecentesca, Balibar, o almeno questo Balibar, va pensato entro la crisi che la contemporaneità impone al concetto di “Sovranità”, in Europa e, forse ancora più significativamente, in Francia. Balibar accusa la natura ambigua del termine “sovranità”, la cui falsa semplicità cela l’identificazione tra Stato e Popolo. Un assunto tutt’altro che banale, la cui ignoranza induce a ridurre meccanicamente ogni discussione sulla sovranità ad una discussione sulla sovranità dello Stato. Balibar scorpora tale identificazione per mezzo dell’analisi dell’opera di Schmitt. Schmitt è quell’autore in grado, tramite la formulazione chirurgica di un concetto di sovranità che al tempo stesso esprime e realizza la riflessione moderna, di catturare il nucleo della sintesi imperfetta tra Stato e Popolo. Una sintesi che avviene attraverso il concetto di Nazione, centro di unificazione simbolica e “intuitiva”[1], e a partire dal concetto di sovranità, che rappresenta non il risultato ma piuttosto la premessa dell’esistenza del corpo politico. La sovranità è il momento di produzione del popolo a partire dalla decisione che lo fonda tramite la neutralizzazione dei conflitti interni e l’identificazione dei conflitti esterni. Ora, se è vero che la dimensione della decisione rimanda a quella della soggettività, e dunque della personificazione, allora la formula schmittiana esprime, al tempo stesso, il proprio compito e il proprio fallimento. L’ideale di evocare l’individuo sovrano, l’unità realizzata, il monopolista della decisione, che nella storia europea è esistito in quanto “Nazione”, ovvero “unità ideale dello Stato e del popolo”[2]; l’ostacolo permanente insito nella riemersione del popolo come soggettività eccedente la propria identificazione con lo Stato via Nazione. Il popolo magnificato nella propria capacità (assoluta) di conferire sovranità (assoluta); il popolo minaccioso nella propria incapacità strutturale di cedere la sovranità di cui è fonte. Nella riflessione dei grandi pensatori della sovranità, il partigiano, il religioso, il nomade, a tratti il mercante, sono declinazioni della medesima questione politica, ovvero quella di un’eccedenza residuale rispetto al potere di un’identificazione tra popolo e Stato sulla quale si regge non solo la fondatezza del secondo, ma anche la perpetuità dell’esproprio di sovranità che compie ai danni del primo. Campeggia il tema dell’inafferrabilità dell’individuo nella sua totalità: storia di un residuo, certo, ma di un residuo che erode l’intero meccanismo della sovranità, che obbliga ad interpretare il trionfo del Leviatano come provvisorio, a riconoscerne la natura di puro katechon, di freno.
La medesima raffigurazione dialettica della politica, dove si incontrano la deflagrazione rivoluzionaria di Balibar e il taglio netto del decisionismo schmittiano. Perché, dunque, Hobbes? Perché quella tra Schmitt e Hobbes è la storia di un’identificazione intellettuale. Schmitt sente di adempiere al medesimo compito storico al quale ha dovuto adempiere Hobbes. Balibar intende il rapporto tra Schmitt e Hobbes non già come un capitolo o un’appendice del lavoro schmittiano ma come strategia preferenziale per comprenderlo nella sua interezza. Se la vastità di questo confronto impedisce di riportarlo nella sua interezza, è vero che esso ha, nella raccolta, un epicentro: “Sul Leviatano”, testo schmittiano del 1938. Un testo difficile da comprendere ma anche solo da trattare, dato l’intorbidimento del pensiero di uno Schmitt che corteggia il lessico nazista. In questo libro, Schmitt sdoppia l’opera hobbesiana in un polo argomentativo-razionale e un polo mitico-immaginifico, che comprende sia le metafore sia le scelte iconografiche, a partire dal celeberrimo frontespizio dell’opera. Una polarità che si esprime in forma di complementarietà ma anche in forma di contraddizione, di delusione, con l’articolazione razionale del pensiero hobbesiano che disattende gli ideali che Hobbes stesso, con le proprie scelte iconografiche, si impone. Per dirla con Balibar: “Si potrebbe allore dire che il «fallimento» di Hobbes, secondo Schmitt, sia dovuto al fatto che questa rappresentazione mitica è impotente non solo a conservarsi contro il movimento di secolarizzazione e razionalizzazione, ma anche a contenere gli effetti della dualità interni alle tendenze proprie del pensiero di Hobbes”[3]. Schmitt legge in Hobbes un tentativo, espresso nelle scelte allegoriche, di istituire un potere assoluto e irresistibile, la concretizzazione della “originaria unità vitale” tra politica e religione rappresentata dal Leviatano e da una generale “metaforica del terrore”. Legge poi un fallimento, espresso nella riserva che Hobbes garantisce alla coscienza individuale. Riserva di credere o no ai miracoli, riserva di dissentire “intra pectuus suum”, la riserva, insomma, di avere un’anima, alito sottilissimo e tuttavia esiziale, condanna latente del Dio mortale. Schmitt vede in Hobbes il nutrimento di quel liberalismo che, pervertendo la dicotomia pubblico-privato, sovverte il progetto hobbesiano.
Balibar non si limita a raccontare la consapevolezza di Schmitt del “fallimento” hobbesiano, ma argomenta una contro-interpretazione della filosofia hobbesiana, che dimostra l’impossibilità di quell’identificazione tra Schmitt e Hobbes che Schmitt stesso aveva suggerito. Questo terzo confronto, fintamente duale, tra Balibar e Hobbes, dipinge un’interpretazione istituzionalista del filosofo inglese, affrancato dall’etichetta di maestro del decisionismo imposta (e presupposta) da Schmitt. Balibar vede un Hobbes guidato da un ideale di regolazione della composizione sociale, non della sua eliminazione, non della produzione di quel monismo assoluto cui fa riferimento Schmitt. Hobbes non è interessato a fondare un’autorità unica, o a spazzare via la società civile sdraiandola sul letto di Procuste dello Stato, ma semplicemente a fare in modo che “di fronte allo Stato, non [possa] esistere alcuna organizzazione il cui potere sia concorrente con il suo nel momento in cui si tratta di richiedere obbedienza”[5]. Nell’argomentazione, Balibar oscilla sapientemente tra analisi strettamente filosofica dei testi hobbesiani, in particolare al fine di ridefinire il rapporto tra stato di natura e civiltà, e l’applicazione di categorie successive, come appunto “istituzionalismo” o “positivismo giuridico”. Balibar intende argomentare con Hobbes (o far argomentare ad Hobbes?) l’impossibilità della sintesi iniziale, cifra della riflessione dello stesso Balibar, tra Stato e Popolo. Il permanere della contraddizione come contraddizione, l’impossibilità di formulare dei dispositivi che la superino – o la tronchino – senza resti, ri-proietta Balibar in una dimensione speculativa nuova, originale, vuota, informata dalla tentazione di far deflagrare la contraddizione, di sfruttarne il potenziale produttivo in forma rivoluzionaria. Tramite la scelta dei saggi che compongono la curatela, si vede dunque Balibar estroflettersi, abbandonarsi, diretto verso il pensiero degli altri due autori, per poi ricondurci nel proprio pensiero, arricchiti non dalla giustapposizione di temi differenti ma da una nuova consapevolezza dell’apparato concettuale offerto in prima battuta. In primis del concetto, protagonista nel proprio abuso pubblico, di sovranità.
Fonte: https://www.lafionda.org/2022/10/19/lo-spettro-del-dio-mortale-balibar-e-la-sovranita/
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