Il falso mito del “Draghi keynesiano”
Da: Kritica economica (Riccardo D’Orsi)
Da ormai diverse settimane è in atto un asfissiante opera di propaganda a favore dell’esecutivo tecnico da poco insediatosi, e in particolare, della figura di Mario Draghi. Una simile narrativa si colloca sulla scia dell’approccio scientista che impregna molti dei dibattiti contemporanei e che, nel caso delle questioni economiche, identifica nei professionisti incaricati di occuparsi di una presunta “ingegneria sociale” la soluzione ultima a problemi che in realtà presentano una matrice squisitamente politica. È infatti ignorandone la natura politica che l’economia viene presentata come scienza “dura”, portatrice di verità manifeste e priva di trade-off distributivi. Sulla base di un tale presupposto, gli specialisti che se ne occupano vengono quindi presentati come personalità scientifiche neutrali [1].
È invece dal recupero delle radici ontologiche della scienza economica, originariamente configurata come “economia politica” [2], che è necessario partire per elaborare un giudizio di merito sul nuovo esecutivo. Stabilito quindi che la tecnica non è mai neutrale [3] e che dunque i “tecnici” al governo in realtà esprimono specifiche istanze non suffragate dall’esito della normale dialettica partitica alla base di qualunque sana democrazia liberale, non si può non concludere che questi rappresentino un sintomo della crisi delle istituzioni repubblicane e del fallimento della politica.
Partendo quindi dalla constatazione che l’operazione che ha condotto all’insediamento dell’esecutivo Draghi sia di per sé deplorevole poiché conseguenza di una crisi strutturale profonda, il presente contributo tenterà di elaborare un’analisi sul suo presumibile orientamento in politica economica, e sulle prospettive ad esso legate.
Angeli e demoni
Mario Draghi è figura complessa e sfaccettata [4]. Formatosi in Italia sotto Federico Caffè, uno dei massimi studiosi di economia keynesiana [5] e intellettuale particolarmente sensibile alle implicazioni sociali della moderna società di mercato [6], si laurea con una tesi critica sull’Unione Monetaria Europea [7]. Conseguita una borsa di studio, si trasferisce poi in America sotto la supervisione di Robert Solow, Franco Modigliani e Stanley Fischer al Massachusetts Institute of Technology, cattedrale dell’economia ortodossa nella quale si è storicamente consumato il riassorbimento del paradigma keynesiano, svuotato di tutta la sua portata rivoluzionaria, all’interno dell’apparato teorico convenzionale [8]. Un percorso di formazione caratterizzato dunque da luci e ombre, nel quale i due paradigmi teorici complementari in politica economica – quello keynesiano e quello liberista – si intersecano.
Luci e ombre si proiettano anche sul percorso professionale di Draghi [9]. Dopo un trascorso come docente di economia all’Università di Firenze e consulente alla Banca Interamericana degli Investimenti e alla Banca Mondiale, dal 1991 al 2001 ricopre la carica di direttore generale del Tesoro Italiano, da dove dirige la commissione nazionale per le privatizzazioni. In tali vesti promuove il decreto-legge no.58 nel febbraio del 1998, alla base della privatizzazione agevolata delle maggiori imprese pubbliche italiane, come Autostrade, Finmeccanica e Telecom Italia [10]. Come riconosciuto dalla Corte dei Conti [11], tale processo è stato condotto arrecando un forte ridimensionamento dei potenziali guadagni che la vendita di tali enti avrebbero potuto garantire all’erario italiano. In aggiunta a ciò, è sicuramente controverso il fatto che l’incarico di vicedirettore e amministratore delegato della banca di investimenti americana Goldman Sachs sia immediatamente succeduto al precedente, il che getta ombre riguardo ad un potenziale conflitto di interessi.
Dopo aver ricoperto la presidenza di Bankitalia tra il 2006 e il 2011, da quell’anno Draghi viene nominato governatore della Banca Centrale Europea in una fase cruciale per l’Eurozona [12]. Adottando un approccio teorico in cui le dinamiche inflattive precedono quelle monetarie, e dunque distante dalle istanze monetariste più spinte [13], Draghi agisce abbassando immediatamente il tasso di interesse fissato dalla banca centrale. A capo della BCE, Draghi dunque abbraccia una linea da molti definita keynesiana, cioè fautrice di una politica orientata all’espansione, all’abbattimento dei tassi di interesse, e a una potente erogazione di liquidità destinata a governi, banche ed imprese. Nello specifico, nel momento più duro della crisi dell’euro, Draghi adotta alcune decisioni chiave. Nel dicembre 2011 e nel febbraio 2012, vengono varati due piani di operazioni di rifinanziamento a lungo termine (LTRO), che contribuiscono alla stabilizzazione del sistema finanziario – obiettivo definitivamente conseguito a seguito del suo famoso discorso del luglio 2012 [14]:
“Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough”.
In verità, non tutti sono d’accordo con la ricostruzione keynesiana della parentesi di Draghi a capo della BCE. Per esempio, vi è chi ricorda come nel corso della crisi greca proprio Draghi abbia minacciato di interrompere l’erogazione di liquidità alle banche per indurre coercitivamente il governo Tsipras ad approvare il piano di riforme austeritarie di rientro dal debito attraverso il MES dell’epoca [15].
Senza però necessariamente spingerci in terre elleniche, istanze di un Draghi tutt’altro che keynesiano sono deducibili dalla genealogia del governo tecnico di Mario Monti. All’interno di un tempesta speculativa che, come oggi dovrebbe essere evidente anche ai più distratti, potrebbe essere stata tranquillamente sventata dall’azione della BCE, nell’estate del 2011 Draghi inoltra all’allora ministro dell’economia Giulio Tremonti una missiva in cui intima all’esecutivo di operare una “piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali” e “privatizzazioni su vasta scala”, oltre che “la riduzione del costo dei dipendenti pubblici, se necessario attraverso la riduzione dei salari, […] la riforma del sistema di contrattazione collettiva nazionale [e l’introduzione di] criteri più rigorosi per le pensioni di anzianità” [16]. Nonostante il governo avesse effettivamente già annunciato un programma di riforme strutturali e pesanti misure di consolidamento fiscale, a fronte della minaccia che la BCE cessasse l’acquisto dei titoli di stato che fino a quel momento aveva dato ossigeno all’Italia [17], nell’autunno del 2011 l’esecutivo Berlusconi, espressione della normale dialettica democratica, fu costretto a rassegnare le proprie dimissioni a favore di Monti [18] per mezzo della creazione artificiale di uno stato emergenziale dalle tonalità simili a quello che ha condotto all’insediamento dell’attuale governo tecnico.
Draghi all’orizzonte
Se qualcuno avesse avuto dubbi su quale delle due istanze, quella keynesiano-sociale o liberista-privatista, avrebbe prevalso in politica economica con la nomina dell’attuale esecutivo tecnico, le sue prime settimane di vita dovrebbero aver restituito un’immagine alquanto nitida. Il ridimensionamento delle pur sbiadite istanze di centro-sinistra del precedente governo, la sproporzione di ministri provenienti dal Nord espressione di precisi interessi politico-manageriali, la nomina di consiglieri come Francesco Giavazzi [19], vate dell’austerità espansiva [20], e il recente scandalo sull’esternalizzazione della scrittura delle linee programmatiche e di spesa del principale strumento di investimento pubblico dei prossimi anni verso una multinazionale privata americana [21] chiamata parte in causa di un’epidemia di oppioidi che ha causato la morte di 400.000 persone [22], rendono l’impostazione ideologica che Draghi ha voluto imprimere al proprio governo inequivocabile.
Piuttosto che affidarsi alle dichiarazioni rilasciate nel corso della crisi pandemica prima al Financial Times [23] e poi al meeting di Rimini [24], tanto enfatizzate quanto retoriche, sarebbe stato utile fermarsi ad analizzare l’ultima pubblicazione tecnica sovrintesa da Draghi, dove sono presenti evidenti segnali di quella che si sta rivelando la linea di politica economica del “governo dei migliori”. Si tratta del rapporto “Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid” [25], che Draghi ha redatto in qualità di capo del comitato direttivo del Gruppo dei 30, un think thank di consulenza economico-finanziaria fondato su iniziativa della Fondazione Rockfeller, e in cui si dettano le linee guida per i governi nella fase post-pandemica. Anche qui, piuttosto che un’impostazione economica keynesiana, emerge un’interpretazione liberista di un altro grande economista del Novecento, Joseph Schumpeter, e in particolare del concetto schumpeteriano di distruzione creatrice [26].
Nel rapporto si afferma infatti che la politica dei governi non deve ostacolare, ma deve anzi assecondare, i meccanismi selettivi del libero mercato che distruggono il vecchio e creano il nuovo. In particolare, nel rapporto si afferma che i governi devono assecondare la chiusura di quelle “imprese zombie” che sopravvivono grazie ai sussidi [25]. Si sostiene dunque che la mano pubblica non possa nemmeno proteggere i posti di lavoro, ma debba al contrario consentire i licenziamenti per far sì che i lavoratori si spostino verso le imprese virtuose che si spera nasceranno dopo la crisi. Tale lettura non lascia scampo: come un tempo, quello di oggi è un Draghi che torna a professare la fede nei meccanismi di selezione del mercato.
Cosa servirebbe?
Alla luce di quanto detto, è difficile non avvertire odore di 1814 e non vedere nel nuovo esecutivo un moderno Metternich, fautore di una restaurazione che non passa neanche da una rivoluzione. In questo senso, l’avvento di Draghi può essere salutato in modo analogo a quello del precedente governo tecnico di Monti: sfruttando le parentesi emergenziali che le loro stesse istanze ideologiche hanno contribuito a creare, essi si rendono artefici di implementazioni più efferate delle medesime politiche economiche degli esecutivi che sollevano. Rispondendo all’esigenza di depotenziare le istituzioni parlamentari per gestire le magre risorse messe a disposizione secondo la logica di accumulazione del capitale su base selettiva, si decidono quali imprese far fallire e quali avvantaggiare. Constatato che le esigue risorse in arrivo con il Next Generation EU [27] non rappresenteranno una risposta sufficiente [28] vista la portata della crisi che sperimentiamo, il punto cruciale del razionamento selettivo che verrà messo in atto dal governo è che il passaggio dei lavoratori da imprese zombie a imprese virtuose non è affatto scontato e rischia di lasciare sacche sterminate di disoccupati lungo la strada, come certificato dalle recenti statistiche sull’occupazione rilasciate dall’ISTAT [29].
Già nel 1969 l’economista polacco Michał Kalecki aveva sottolineato la miopia di chi in una fase di crisi pretende di risollevare il sistema economico tagliando il costo del lavoro e favorendo i licenziamenti [30]. Ciò che va a vantaggio della singola impresa, infatti, non necessariamente beneficia né l’economia nel complesso né i capitalisti in quanto classe: sebbene l’analisi microeconomica sembri dimostrare che salari più bassi generino quote di profitto maggiore, in realtà i salari reali determinano i consumi effettivi, che a loro volta si riflettono sull’intera attività economica in scala aggregata, e dunque sul saggio di profitto stesso. Nel mezzo di una crisi quale quella di oggi è quindi fondamentale resistere alle pressioni di ridurre il costo del lavoro e aumentare i licenziamenti nel tentativo di massimizzare la profittabilità delle singole imprese. Mentre una simile misura potrebbe sembrare per esse vantaggiosa nell’immediato, in quanto permetterebbe loro di assicurarsi riduzioni sul salario reale – e dunque maggiori quote di profitto –, l’effetto economico in termini aggregati sarebbe negativo, e le stesse imprese vedrebbero crollare il proprio saggio di profitto nel medio periodo.
Cosa fare dunque? L’alternativa all’approccio promosso da Draghi vedrebbe un grande piano di politica pubblica che governi l’opera distruttiva del mercato privato [31]. Secondo tale prospettiva, ci sentiamo di suggerire una rilettura dell’economista che ha già ispirato Draghi, Joseph Schumpeter, in chiave keynesiana quale quella effettuata da un suo diretto allievo: Hyman Minsky. Riconosciuta la natura del capitalismo a tendere endogenamente verso situazioni di instabilità e crisi, Minsky individua nel coordinamento tra l’azione della banca centrale e del governo lo strumento principale attraverso il quale i rovinosi esiti di tale processo possono essere mitigati [32]. Intervenendo a sostegno dell’azione dell’esecutivo e contenendo i tassi di interesse sul debito in maniera simile a quanto la BCE sta attualmente facendo, la banca centrale può consentire ai governi nazionali di varare le manovre espansive di cui necessitano, promuovendo piani di lavoro pubblici. Attraverso tale azione, i nuovi disoccupati potrebbero essere riassorbiti all’interno del circuito lavorativo, consumi e investimenti verrebbero rilanciati, e il processo di produzione verrebbe reindirizzato secondo obiettivi strategici di interesse pubblico.
La ricetta giusta per rilanciare l’economia secondo le esigenze della collettività esiste. Essa viene insistentemente indicata da schiere di accademici e intellettuali, puntualmente marginalizzati nel dibattito mediatico a favore delle misure suggerite dai moderni “ingegneri sociali” [1]. A costoro piace definirsi “tecnici”, forse per nascondere la matrice reazionaria delle proprie posizioni. Perché se venisse a galla, la somiglianza con le istanze di una certa aristocrazia settecentesca parrebbe evidente, e constatato l’esito storico a cui queste ultime hanno condotto, è facile capire perché ne abbiano timore.
Note e riferimenti
[1] D’Orsi, R. (2021). “La teoria economica di oggi è veramente la più corretta?”. Econopoly-IlSole24Ore, 10 marzo.
[2] Ranchetti, F. (2012). “Economia politica”. In Dizionario di Economia e Finanza. Treccani: Roma.
[3] Bonetti, A.; Marasti, M. & Lipparini, M, (2021). “La tecnica non è mai neutrale. Guida critica alla Draghi-mania”. Kritica Economica, 3 febbraio.
[4] Kritica Economica (2021). “Draghi: chi è, che cosa ha fatto e cosa potrebbe fare”. Kritica Economica, 2 febbraio.
[5] L’Intellettuale Dissidente (2020). “Ritratto di un riformista”. L’Intellettuale Dissidente, 2 marzo.
[6] Caffé, F. (1990). “La solitudine del riformista”. Torino: Bollati Boringhieri.
[7] Draghi, M. (2012). “Federico Caffè lecture”. Lezione all’Università di Roma La Sapienza, Roma, 24 Maggio.
[8] Minsky, H. (2009). “Keynes e l’instabilità del capitalismo”. Torino: Bollati Boringhieri.
[9] Lucarelli, S. (2015). “Draghi, Mario”. In Rochon, L. P. e S. Rossi. The Encyclopedia of Central Banking. Cheltenham: Edward Elgar Publishing.
[10] Ranci, P. & Prandini, A. (2004). “The Privatisation Process”. Quaderni dell’Istituto di Economia e Finanza, No. 59. Milano: Università Cattolica del Sacro Cuore.
[11] Corte dei Conti (2012). “Deliberazione n. 19/2012/G”. Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato, I, II e Collegio per il controllo sulle entrate, 10 dicembre.
[12] Bibow, J. (2013). “At the crossroads: the euro and its central bank guardian (and saviour?)”. Cambridge Journal of Economics, 37(3), 609-626.
[13] De Cecco, M. (2011). “Una divinità chiamata Core Tier 1”. La Repubblica, 7 novembre.
[14] Draghi, M. (2012). “Speech by Mario Draghi, President of the European Central Bank”. Intervento alla Global Investment Conference, Londra, 26 luglio.
[15] Varoufakis, Y. (2020). “Adulti nella stanza: la mia battaglia contro l’establishment dell’Europa”. Milano: La nave di Teseo.
[16] IlSole24Ore (2011). “Il testo della lettera della Bce al Governo italiano”. IlSole24Ore, 29 settembre.
[17] Fubini, F. (2017). “Monti: «Renzi è un disco rotto, ripete accuse a impatto zero Insensato il deficit al 2,9%»”. Corriere della Sera, 14 luglio
[18] Klein, M. C. (2017). “The euro is not a punishment system”. Financial Times, 9 novembre.
[19] Zamponi, L. (2021). “Il governo dei Giavazzi”. Jacobin Italia, 25 febbraio.
[20] Bersani, M. (2021). “Torna l’austerità espansiva”. Il Manifesto, 27 febbraio.
[21] Michalopoulos, G. (2021). “Draghi preferisce McKinsey a Keynes. E non è una sorpresa”. Kritica Economica, 8 marzo.
[22] IlSole24Ore (2021). “Consulenze e oppioidi, McKinsey paga 573 milioni a 49 stati americani”. IlSole24Ore, 4 febbraio.
[23] Draghi, M. (2020). “Draghi: we face a war against coronavirus and must mobilise accordingly”. Financial Times, 25 marzo.
[24] Draghi, M. (2020). “Incertezza e responsabilità”. Intervento al 41° Meeting, Rimini, 18 agosto.
[25] Group of Thirty (2020). “Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid: Designing Public Policy Interventions”. Washington, DC: Group of Thirty.
[26] Brancaccio, E. & Realfonzo, R. (2021). “Letter: Draghi’s plan needs less Keynes, more Schumpeter”. Financial Times, 12 febbraio.
[27] D’Orsi, R. & Guerriero, A. (2021). “Perché il Next-Generation EU non è una panacea per l’Italia”. Econopoly, IlSole24Ore, 2 febbraio.
[28] Canelli, R., Fontana, G., Realfonzo, R., Veronese Passarella, M. (2021). “L’efficacia del Next Generation EU per la ripresa dell’economia italiana”. Economia e Politica, 17 marzo.
[29] Istat (2021). “Occupati e disoccupati”. Statistiche Flash, 8 marzo.
[30] Kalecki, M. (1969). “Studies in the Theory of Business Cycles 1933-1939”. Oxford: Basil Blackwell.
[31] Minsky, H. P. (2014). “Combattere la povertà: lavoro non assistenza”. Roma: Ediesse.
[32] Minsky, H. P. (1986). “Stabilizing an Unstable Economy”. New York, NY: McGraw-Hill.
Fonte: https://www.kriticaeconomica.com/falso-mito-draghi-keynesiano/
https://www.youtube.com/watch?v=PLh
Questo è un bell’esempio, di come ci infinocchiano.