La Povera Patria di Franco Battiato
di QELSI QUOTIDIANO SOVRANISTA (Leonardo Giordano)
Se c’è un cantautore per le cui canzoni non si può assolutamente usare l’espressione ironica di Edoardo Bennato “sono solo canzonette”, questi è Franco Battiato. Nella stragrande maggioranza dei testi delle canzoni del cantautore catanese vi è l’attenzione piuttosto appassionata e solidamente sviluppata verso il trascendente, cioè una visione del mondo per cui l’esistenza umana rappresenterebbe “un’ombra”, il riflesso di una vita “superiore” che sembra precedere l’esistenza terrena ma al tempo stesso ne rappresenterebbe l’esito finale e la meta successiva.
Questi sono temi che chiaramente non rientrano nemmeno lontanamente nella definizione “canzonettara” coniata da Bennato e che rimandano al continuo “peregrinare” di Battiato di tradizione sacrale in tradizione sacrale, da Oriente ad Occidente, dal Sufismo alle religioni celtiche e da queste al misticismo cristiano.
Certo spesso egli, che non era né filosofo, né teologo, indulge in una forma di sincretismo religioso, ma il conato di trascendenza che anima e sostanzia le sue opere è non solo palpabile e percepibile ma cospicuamente predominante ed egemone.
Difficilmente se non raramente Battiato si è cimentato, come i suoi colleghi “coevi”, con tematiche sociali, civili, impegnate politicamente e per questo si è preso le reprimende della critica marxista ortodossa che, negli anni dominati dal “68”, gli rimproveravano di scrivere canzoni evasive, oltre che nei testi, anche negli spartiti e nelle forme musicali.
Egli avrebbe fatto poco uso del sound metallico e “duro” del rock, di un ritmo irregolare e asimmetrico, di un vocalismo squarciato e graffiato e molto uso invece delle atmosfere trasognate ed evanescenti proprie di un sound legato all’identità musicale italiana e mediterranea, ricorrendo all’orchestra completa o alla “sintonizzazione” degli archi, dell’organo e dei fiati quando la sua scelta cadeva sulla musica e sugli strumenti elettronici.
L’unica canzone in cui Battiato sembra “planare” con il suo sguardo poetico ‹‹dalle distanze siderali del suo percorso di maturazione e meditazione››, come dice Alberto Maurizio, sull’umano troppo umano della situazione politica italiana è “Povera Patria”.
Molti hanno pensato che il contesto socio-politico al quale il cantautore catanese si riferiva fosse quello dei tardi anni ’90 e del “berlusconismo imperante” e ad alcuni ha fatto comodo far credere ciò. La canzone invece è del 1991, l’epoca che precede immediatamente “tangentopoli” ed il disfacimento della Prima Repubblica, l’epoca in cui gran parte del patrimonio pubblico italiano stava per essere svenduto con l’alibi delle privatizzazioni, l’epoca nella quale la mafia e la criminalità organizzata stava metastatizzandosi come un cancro nel tessuto sociale e nei gangli vitali della “piccola patria” siciliana preparando il terreno per le terribili stragi del 1992.
Già l’uso, nel titolo della canzone, della parola “patria” rappresentava una sorta di trasgressione rispetto al “politicamente corretto” del tempo in cui vi si vedeva un lessico residuale, che la considerava un rudere verbale della terminologia risorgimentale e fascista.
Certo negli anni ’80 Craxi aveva avviato l’epoca del “socialismo tricolore”, aveva personalmente testimoniato con Sigonella quanto tenesse ad evitare che la “sovranità nazionale” fosse calpestata e totalmente cancellata, nel 1979 Francesco De Gregori cantava ironicamente “Viva l’Italia”, nel 1983 Toto Cutugno si presentava a Sanremo con “Sono un italiano vero”, ma ancora Ciampi e Galli della Loggia non avevano “sdoganato” questa parola e guai ad utilizzarla con evidenza e senza remore nei testi o nei titoli delle canzoni, specie quelle di autori ritenuti impegnati e non interessati alle “canzonette” commerciali su cui ironizzava Edoardo Bennato.
Perché questa “patria” si presenta “povera” per Battiato echeggiando il dantesco “Ahi serva Italia” ? Essa appare ‹‹schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame, che non sa cos’è il pudore››, svilita da “perfetti ed inutili buffoni”, nel suo fango “affonda lo stivale dei maiali” e ‹‹vedere un uomo come un animale›› provoca vergogna e scoramento. In questa metafora del maiale/ uomo/ animale è evidente il richiamo al brano “Pigs” dei Pink Floyd, incluso nel disco “Animals” del 1977.
Si è detto che vi sono anche riferimenti alla situazione della Sicilia dei primi anni ’90; al riguardo è piuttosto esplicito il riferimento che Battiato fa a quelle tragiche vicende che toccarono la sua “prima, piccola patria” siciliana quando afferma:‹‹ Questo paese è/ devastato dal/ dolore…/ ma non vi danno un/ po’ di dispiacere/ quei corpi in terra/senza più calore?››
Se il ritornello, intercalante ogni strofa, alterna la disperazione del “non cambierà” alla speranza del “sì che cambierà, / vedrai che cambierà” l’epilogo non chiude alla speranza di cambiamento ma, con il verso “La primavera intanto/ tarda ad arrivare”, fa capire che il ritorno ad un Italia “a quote più normali che possa contemplare il cielo ed i fiori” non è vicino, non appare prossimo ed imminente.
Del resto questa discesa da “quote siderali” al “fango” contemporaneo della società italiana rappresentava il risultato di una percezione davvero straordinaria della gravità della situazione. Battiato confessa quanto fosse addolorato del triste sentiero sul quale l’Italia si era incamminata in un’intervista del 1991 nella quale affermava:‹‹ Se ho scritto Povera Patria è perché sono coinvolto. Ogni sera guardare il Telegiornale è una sofferenza, a meno che non si resti indifferenti a questo, che so, passare da Riccardo Muti ai morti ammazzati.››
Queste espressioni del musicista cantautore catanese rappresentano un’evidente e più esplicita replica all’osservazione bennatiana del “sono solo canzonette” e il segno tangibile della sua riscoperta, attraverso il dolore e la sofferenza, della “patria”.
FONTE: https://www.qelsi.it/2021/la-povera-patria-di-franco-battiato/
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