Giornata lavorativa e progresso tecnologico. Spunti per una effettiva prospettiva di emancipazione
di La Fionda (Giuseppe D’Elia)
Alla questione della giornata lavorativa, Marx dedica e intitola il capitolo ottavo del libro primo de Il capitale. Emerge con forza, in queste pagine, quella tendenza naturale all’estrazione di valore che è l’essenza stessa del capitalismo: l’impiego del lavoro degli altri per la trasformazione delle (altrui) energie lavorative in propria ricchezza privata alienata. Il processo di accumulazione capitalista, in definitiva, è questo: «lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo»[1].
L’immagine orrorifica del capitale quale vampiro succhia-lavoro, vero e proprio mostro che «più vive quanto più ne succhia»[2], ovviamente, non è puramente evocativa. Marx dettaglia con estrema cura questo processo, evidenziando in special modo l’insanabile conflitto tra i due interessi contrapposti: quello di chi vende e quello di chi compra la forza-lavoro. Rivolgendosi al padrone, la voce del lavoratore (sfruttato) pone la questione con una chiarezza cristallina: «il consumo della merce non appartiene al venditore che la aliena, ma al compratore che l’acquista. A te dunque appartiene l’uso della mia forza-lavoro quotidiana. Ma, col suo prezzo di vendita quotidiano, io debbo, quotidianamente, poterla riprodurre, per poterla tornare a vendere»[3]. Ed ecco come si evidenzia perfettamente il nodo centrale da sciogliere: «a parte il logorio naturale per l’età ecc., io debbo essere in grado di lavorare domani nelle stesse condizioni normali di forza, salute e freschezza di oggi», prosegue la voce dell’operaio, nella eloquente prosa del filosofo di Treviri. Infine, la stoccata decisiva: «tu mi predichi continuamente il vangelo della «parsimonia» e della «astinenza». Ebbene: voglio amministrare il mio unico patrimonio, la forza-lavoro, come un ragionevole e parsimonioso economo e voglio astenermi da ogni folle sperpero di essa. Ne voglio render disponibile quotidianamente, mettendolo in moto e convertendolo in lavoro, soltanto quel tanto che è compatibile con la sua durata normale e col suo sano sviluppo»[4]. E, ancora più esplicitamente, casomai non fosse del tutto chiaro: «tu puoi mettere a tua disposizione, in un solo giorno, con uno smoderato prolungamento della giornata lavorativa, una quantità della mia forza-lavoro maggiore di quanta io ne possa ristabilire in tre giorni. Quel che tu guadagni così in lavoro, io lo perdo in sostanza lavorativa»[5].
Questa contraddizione insanabile spiega perfettamente perché il progresso tecnologico non si riesce mai a tradurre, automaticamente, in liberazione del tempo di vita, attraverso una diffusa e generalizzata riduzione del tempo di lavoro. Così come, al netto delle innovazioni nelle tecniche produttive, il capitalista cercherà sempre di ottenere il massimo di lavoro possibile da ciascun suo dipendente, pagando il minimo corrispettivo che gli sia consentito, allo stesso modo, ogni progresso tecnologico che renderà più rapido e conveniente il processo produttivo automatizzato, finirà con l’espellere dalla produzione tutto il personale che diventa, sic et simpliciter, costo superfluo.
In linea di principio, il superamento del capitalismo è dunque la condizione necessaria (anche se non del tutto sufficiente) per la fine del lavoro salariato, inteso come sfruttamento dello stato di bisogno altrui. Perché è questo il punto di caduta di qualunque ipocrita pretesa meritocratica, nel regno del ‘libero’ mercato: quante sono le persone in grado di avere una capacità di lavoro talmente specifica e insostituibile da poter contrattare il prezzo della propria prestazione[6] senza doversi mai svendere? Senz’altro si tratta di una minoranza che, per quanto possa estendersi, in ogni caso non riuscirà a cancellare il problema delle condizioni di vita e di lavoro delle masse che svolgono i compiti più semplici e ripetitivi e che pertanto sono immediatamente sostituibili da chiunque, mosso da uno stato di bisogno maggiore, si renda disponibile a lavorare a condizioni peggiorative (per più tempo e/o per una paga inferiore). Discorso analogo, naturalmente, si avrà ogni qualvolta il processo di sostituzione/espulsione dei lavoratori è determinato da una innovazione tecnologica che rende più economicamente vantaggioso l’impiego delle macchine.
Nondimeno, anche in presenza di società capitaliste, i tassi di sfruttamento dei lavoratori – che sono massimi quando vigono le sole regole dell’economia di mercato – possono essere mitigati dalle rivendicazioni collettive delle organizzazioni dei lavoratori e/o da un adeguato impianto normativo posto a tutela della parte strutturalmente più debole nel rapporto di lavoro. Invero questo riconoscimento di una parte strutturalmente debole nelle contrattazioni di lavoro è la base stessa del diritto del lavoro. Le lotte del movimento operaio, reso cosciente dal lavoro di Marx, hanno prodotto frutti un po’ ovunque nel secolo scorso. Nel nostro Paese, queste istanze di protezione dei lavoratori, per la loro condizione di strutturale subordinazione, in linea di principio, hanno trovato riconoscimento anche nella Costituzione repubblicana. E, tuttavia, per quanto l’art. 36 Cost. preveda che «la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge» (comma 2) e che «il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi» (comma 3); per quanto, soprattutto, chiarisca che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare […] un’esistenza libera e dignitosa» (comma 1), nella concreta determinazione delle relazioni economiche, il giusto principio non ha mai trovato una sua puntuale realizzazione.
Nello specifico, in Italia manca da sempre una legge sul salario minimo legale, da intendersi come paga oraria minima che la contrattazione individuale e collettiva può andare ovviamente a migliorare ma mai a peggiorare. E questo, ovviamente, incide moltissimo anche sulla durata della giornata e della settimana lavorativa standard e, conseguentemente, sulla effettiva possibilità di esercitare il proprio diritto al riposo e alle ferie retribuite. Le 40 ore settimanali, «una soglia che non è stata ancora ritoccata[7]», sono una conquista politica che è avvenuta al culmine di una lunga stagione di lotte operaie. Dopo il Sessantotto e l’Autunno caldo dell’anno successivo, nei primi anni Settanta, si sono finalmente ottenuti riconoscimenti normativi di maggiore favore, a cominciare dallo Statuto dei Lavoratori (Legge 300/1970). Il dramma epocale che abbiamo vissuto e ancora stiamo vivendo è che quella stagione di lotte è stata chiusa, messa ai margini e rovesciata completamente a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Con le parole del compianto Luciano Gallino possiamo ben dire che, a partire da allora, e con intensità sempre crescente, a seguito del crollo del blocco dei Paesi socialisti, «la classe di quelli che possiamo definire genericamente i vincitori sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti[8]». Mezzo secolo di egemonia culturale del pensiero padronale ha inciso pesantemente anche sul modo stesso di pensare al rapporto di lavoro: «abbiamo vissuto troppo a lungo al di sopra dei nostri mezzi. Sono le pensioni a scavare voragini nel bilancio dello Stato. Agevolare i licenziamenti crea occupazione. La funzione dei sindacati si è esaurita: sono residui ottocenteschi. I mercati provvedono a far affluire capitale e lavoro dove è massima la loro utilità collettiva. Il privato è più efficiente del pubblico in ogni settore[9]».
Sulla scorta di questa martellante propaganda, si è realizzata così quella graduale e persistente opera di smantellamento del settore pubblico che ha favorito una sempre più ampia e diffusa precarizzazione delle esistenze, andando a limitare pesantemente l’unico elemento in grado di svolgere il ruolo di calmiere, rispetto agli squilibri strutturali del mercato del lavoro. Ridurre il campo di operatività del settore pubblico, infatti, non serve solo a liberare ampie fasce di mercato che possono portare nuovi profitti agli investitori privati. Sanità, istruzione, previdenza sociale, persino l’acqua! Tutto oggi è al servizio del profitto privato. E, tuttavia, il punto dolente è che anche il residuo settore pubblico che rimane operativo viene gestito secondo criteri aziendalisti. La manovra a tenaglia è disarmante nel suo cinismo: da un lato, si riduce il personale col blocco del turnover e, dall’altro, non solo si evita di sostituire chi va in pensione con assunzioni quantomeno di pari unità, non solo si aumenta l’età per il pensionamento, rallentando quindi anche lo stesso percorso di collocamento a riposo dei lavoratori più anziani, ma si cerca anche di far sì che il contratto a termine e i tirocini gratuiti divengano la forma standard di inserimento dei lavoratori, nella P.A., così come lo è già nel mercato del lavoro privato.
In questo quadro, è chiaro dunque che uno sviluppo tecnologico che possa essere messo, efficacemente, al servizio del benessere sociale, attraverso una opportuna ridefinizione dei tempi e dei modi di lavoro, necessita di un completo ribaltamento del piano della discussione. Solo ribaltando questo piano si possono creare le basi per una nuova egemonia, che dia concretezza ad un’effettiva prospettiva di emancipazione. In tal senso, la battaglia accelerazionista per il reddito universale[10] segna un punto di svolta che merita estrema attenzione per gli sviluppi che potrebbe determinare, se pienamente compreso. Fondare le nuove piattaforme rivendicative non più sul mero diritto al lavoro, ma sul diritto al reddito è appunto quel rovesciamento di prospettiva che potrebbe letteralmente rivoluzionare tutto. La piena automazione diventa così non più lo scenario desolante e orrorifico, in cui si è costretti a lottare in massa per quelle poche mansioni che ancora possono essere svolte dagli umani, ma una concreta prospettiva di liberazione dal lavoro come asservimento. Il diritto al reddito, in definitiva, non cancella il lavoro ma garantisce la libertà di poter lavorare senza dover mai più sottostare al ricatto occupazionale.
Sul piano materiale, questo orizzonte di lotta permetterebbe agevolmente di utilizzare lo sviluppo tecnologico per la realizzazione di quel processo di redistribuzione del lavoro e della ricchezza che solo la mancanza di una volontà politica largamente maggioritaria di fatto impedisce. Qui e ora, una settimana lavorativa di 32 ore, con due giorni liberi oltre a quello festivo, e almeno sei settimane di ferie retribuite, non è materialmente irrealizzabile. In una società in cui il settore pubblico organizza la produzione e garantisce in ogni caso un reddito a tutte le persone e un lavoro come funzione di servizio, anche il settore privato, in teoria, potrebbe continuare a operare, ma non più facendo leva sul bisogno e quindi sullo sfruttamento (di chi ha bisogno).
In prospettiva, si potrebbe anche ridurre la giornata lavorativa alle tre/quattro ore ipotizzate, già nel secolo scorso, rispettivamente da Keynes[11] e Russell[12]. Cambiando tutto, però. E cambiando in meglio, per la stragrande maggioranza degli esseri umani. Un più giusto equilibrio tra il tempo da dedicare al lavoro, inteso come mero strumento per guadagnarsi da vivere, e il tempo per poter godere a pieno e liberamente delle gioie della vita, al netto dei mille affanni, è un obiettivo politico concreto e alla effettiva portata del genere umano, allo stadio attuale del suo sviluppo tecnologico. Quello che manca è un progetto politico che sia effettivamente in grado di fare egemonia culturale e tradurre in pratiche concrete (e coerenti) questi assunti teorici.
[1] Cfr. Marx K. (1867), Il Capitale, Libro I, sez. III, cap. 8.
[2] Ivi.
[3] Ivi.
[4] Ivi.
[5] Ivi.
[6] Cfr. Gragnoli E., Palladini S., La retribuzione (2012).
[7] Cfr. Fana N., Fana S., Basta salari da fame! (2019).
[8] Cfr. Gallino L., La lotta di classe dopo la lotta di classe (2012).
[9] Ibidem.
[10] Cfr. Srnicek N., Williams A., Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro (2015).
[11] Cfr. Keynes J. M., Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930).
[12] Cfr. Russell B., Elogio dell’ozio (1932).
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