L’Italia nei Balcani: tradita dai partner e schiacciata dai titani
da TERMOMETRO GEOPOLITICO
( Emanuel Pietrobon)
Quando si scrive di presenza italiana nei Balcani si dovrebbe partire imperativamente dal seguente assioma: l’Italia è i Balcani. Perché questa penisola, oggi volgarmente nota come la “polveriera d’Europa” e ieri ribattezzata “Rumelia” dalla progenie di Osman I, è stata per lungo tempo la seconda casa dei popoli che hanno abitato l’Italia.
Dall’era imperiale di Roma caput mundi all’epoca delle città-stato e delle repubbliche marinare, passando per l’immediato post-unificazione e giungendo, infine, alle porte del terzo millennio, la penisola di Emo – questo era il nome primigenio dei Balcani – è stata l’appendice naturale dell’italosfera. Una storia d’amore, quella tra Italia e Balcani, che, cominciata all’alba dei tempi e sopravvissuta alle sfide ottomana, panslavista e comunista, sembra oramai essersi avviata lungo il viale del tramonto.
La (dura) verità è che nei Balcani, oggi, si parla di tutto – russo, cinese, turco, tedesco, arabo, persiano, ebraico – tranne che italiano, una lingua in arretramento ovunque, da Lubiana a Bucarest. Il loro destino somiglia a quello sperimentato da Mediterraneo, il Mare Nostrum divenuto Mare Lorum, e Africa orientale, silenziosamente conquistata dalla Turchia dell’era Erdogan, sebbene l’elemento della prossimità geografica avrebbe dovuto renderne – e debba renderne – palpabile e percepibile la rilevanza per la nostra sicurezza nazionale. Perché l’Italia non ha estero vicino più vicino dei Balcani, perciò la ritirata degli anni recenti andrebbe rivalutata e invertita in tempi rapidi.
Rimodulare le priorità della politica estera non è, però, la nostra unica urgenza; siamo chiamati, invero, a riconoscere come i nostri alleati, in primis Germania e Turchia, perseguendo delle agende velatamente anti-italiane nei Balcani, che li hanno condotti ad operare aggressivamente ed assertivamente ovunque siamo presenti, sia a livello di nazione sia a livello di settore, stiano accelerando (volutamente?) il ritmo della nostra espulsione da quello che è, a tutti gli effetti, il nostro estero vicino.
Schiacciati dalla Germania
Sera dell’11 giugno 2021. Il longevo primo ministro albanese, Edi Rama, festeggia la vittoria della nazionale di calcio italiana agli europei – contro la Turchia – con un post di Facebook, corredato di foto e tricolore. Da una disamina delle interazioni emerge chiaramente una divisione tra sostenitori, frequentemente autori di battute nei confronti di Recep Tayyip Erdogan, e detrattori del post, che si chiedono le ragioni del gesto e accusano Rama di partigianeria. Forse non significa nulla, perché potrebbe essere un semplice confronto tra tifoserie, o forse sì, possiede una certa significatività, e (ci) racconta qualcosa dell’Albania di oggi, di cui viene offerta una lucida simultanea.
Perché l’Albania del 2021 è una nazione spaccata, come indicano i risultati delle ultime parlamentari e le tensioni di piazza che le hanno precedute ed accompagnate, e tra quelle faglie, la maggior parte delle quali di natura squisitamente domestica e sociale, una è di tipo geopolitico, e riguarda direttamente l’Italia. Perché qui, nella Shqipëria, sta venendo scritto uno dei capitoli più importanti (e meno conosciuti) della competizione tra grandi potenze, coinvolgente a vario titolo Turchia, Germania, Israele e Iran e che, illogicamente, non ci vede né tra i protagonisti né tra le comparse.
I tempi dell’operazione Pellicano si allontanano, il ricordo di quella ciclopica missione umanitaria va lentamente sbiadendo, e vivere di rendita di posizione non è più possibile. Anche perché, approfittando dello stato catatonico in cui versa l’Italia, la cui dominanza nella terra delle aquile è oramai circoscritta al commercio – un terzo dell’interscambio totale dell’Albania con l’estero avviene con lo Stivale (dati 2020) –, Germania e Turchia stanno guadagnando terreno a nostro detrimento, infiltrandosi ed effondendosi in spazi di nostro interesse.
Berlino, storicamente refrattaria all’ingresso di Tirana nello spazio comunitario, negli ultimi tempi ha cambiato radicalmente registro, coerentemente con il dinamismo epinefrinico dimostrato sia in loco sia nell’intera regione balcanica. L’8 giugno, ad esempio, il titolare della diplomazia tedesca, Heiko Maas, ha velatamente ordinato al governo Borisov di porre fine al sabotaggio del processo d’adesione all’Unione europea della Macedonia del Nord – legato, per fascicolo, a quello dell’Albania –, inviando un messaggio all’intera comunità dei 27: i Balcani occidentali sono ufficialmente un affare della Bundesrepublik.
Soltanto alcune settimane prima, a metà maggio, i governi tedesco e albanese avevano siglato un accordo da cinquanta milioni di euro in materia di trasporto urbano a basso impatto ambientale, coinvolgente il potente Istituto di Credito per la Ricostruzione (KfW, Kreditanstalt für Wiederaufbau) e da inquadrare nel più ampio contesto dell’egemonizzazione del processo di transizione verde in Albania ad opera della Germania. La presenza del KfW nell’accordo è emblematica: è uno dei più potenti instrumenta regni al servizio della Bundesrepublik, e dagli anni Novanta ad oggi ha inondato i Balcani di prestiti e donativi, contribuendo in maniera determinante a riscriverne la morfologia – trattandosi di capitale impiegato fondamentalmente per acqua, energia e infrastrutture – e a trasformare Berlino nel primo donatore di Belgrado, Podgorica, Pristina e Tirana, e fra i principali di Chişinau e Sarajevo.
La Germania, dunque, si è fatta largo tra gli ispidi Balcani facendo leva su diplomazia dell’acqua, “edilizia umanitaria”, donazioni e supporto concreto nel cammino verso quel sogno chiamato Unione europea, ma anche ampliando il raggio d’azione degli strumenti di persuasione culturale – con il risultato che, oggi, il tedesco è tra le lingue più studiate nei Balcani, specialmente in Albania e Bosnia – e sottraendo all’Italia lo scettro di primo mercato di riferimento della regione – subentrando a noi, ovvero superandoci, in Bosnia, Croazia, Moldavia, Montenegro, Romania e Slovenia.
Immobili dinanzi al ritorno degli ottomani
Il pericolo per l’Italia non giunge soltanto da settentrione, ma anche da levante, ovvero dalla Turchia. La presenza della Sublime Porta nei Balcani, ristabilita nell’immediato post-guerra fredda partecipando clandestinamente alle guerre iugoslave – l’Organizzazione di Intelligence Nazionale (MIT, Millî İstihbarat Teşkilatı) addestrò i combattenti irregolari albanesi e kosovari e li supportò in termini di intelligence –, negli anni dell’era Erdogan è divenuta capillare, pervasiva e onnipresente, estesa dalla religione alle infrastrutture, e ha eroso ulteriormente il suolo sul quale soleva camminare l’Italia.
I turchi, che reclamano una voce in capitolo nei Balcani in ragione del fattore storico – il legato del loro inglobamento nell’impero ottomano, cominciato nel quattordicesimo secolo, è tanto profondo quanto attuale: dall’islam religione maggioritaria in Albania, Bosnia e Kosovo ai turchi secondo gruppo etnico in Bulgaria –, hanno esportato e stanno esportando una miriade di prodotti culturali e religiosi, in particolare moschee, scuole coraniche, istituti linguistici, film e serie televisive, sullo sfondo di una briosa alacrità nel commercio, nelle infrastrutture, nell’informazione, nell’assistenza umanitaria e nel dominio securitario.
L’Italia, in sintesi, è rimasta schiacciata tra Germania e Turchia perché le loro agende per i Balcani sono perfettamente complementari: stese su due rette parallele che non si scontrano mai, perché differenti i loro campi d’azione – i tedeschi militarizzano acqua e commercio, i turchi finanziano moschee e stuzzicano il palato degli apparati militari –, vanno erodendo le dimensioni del campo di gioco italiano ad un ritmo allarmante e irrefrenabile.
A complicare il quadro clinico, già di per sé precario, si aggiunge l’inerzia della classe dirigente nostrana, che, apparentemente indifferente a quanto accade al di là dell’Adriatico, ha abbandonato l’Albania a se stessa durante la pandemia – lasciando che la Turchia protagonizzasse la scena con un’intensa diplomazia umanitaria, inclusiva di mediazione con le autorità cinesi per l’invio in loco di un ingente carico di Sinovac – e non sta profittando come potrebbe (e dovrebbe) delle innumerevoli opportunità presenti nei campi energetico – specie nella metano-ricca Romania –, culturale – la questione del potere morbido inespresso – e infrastrutturale – i Balcani hanno fame di strade, autostrade, porti, aeroporti e ferrovie, e l’Italia, iperpotenza del cemento e del catrame, potrebbe saziarla ampiamente e adeguatamente.
Il quadro è a tinte fosche, sembra essere stato dipinto da Anton Semenov, ma questo non significa che tutto è perduto. Perché prossimità geografica, gemellaggio culturale e qualità del Made in Italy continueranno ad essere presenti ed utilizzabili a nostro vantaggio anche in futuro, trattandosi di elementi fissi ed immobili (perlomeno i primi due). Il punto, però, è un altro: agire oggi significa proteggere il nostro estero vicino, agire domani equivarrebbe a (tentare di) recuperarlo, perché quasi sicuramente spartito tra una costellazione di potenze, in primis Germania e Turchia.
Ripristinare la primazia italiana sui Balcani è possibile, oltre che caldamente auspicabile per ragioni di sicurezza nazionale – tutto quello che accade nella penisola, specie nel suo paragrafo occidentale, si ripercuote sull’Italia per via della continuità territoriale –, ma più scorre il tempo e più si restringono i nostri margini di manovra; da qui l’imperativo di rammentare alla nostra classe dirigente una verità dimenticata e motivante: l’Italia è i Balcani.
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