Il ritorno dei russi in Africa tra basi, contractors, diplomazia e affari
di ANALISI DIFESA (Francesco Palmas)
Dopo una lunga eclissi, durata quasi trent’anni, la Russia sta riconquistando amici e nuovi partner anche in Africa, imbastendo un’offensiva poliforme che abbina investimenti, ricerca spasmodica di basi, commercio di armi e di altri beni, dirompenza dei contractor e penetrazione dei colossi energetici.
La sua impronta continentale si sta piano piano affermando come un contrappeso alle ambizioni smisurate di Pechino e comincia a creare più di un grattacapo nel giardino di casa dell’ex impero francese. Che Mosca faccia sul serio ce ne siamo accorti il 23-24 ottobre 2019, quando a Sochi si è tenuto il primo vertice Russia-Africa della storia, con la partecipazione dei rappresentanti di tutti i 54 paesi continentali, 43 dei quali con i capi di Stato.
Il Cremlino ha cominciato a fare come gli altri grandi, come Cina, India, Turchia e Brasile, che hanno tutti i loro summit con l’Africa, similmente a Stati Uniti, UE e Giappone.
A Soci sono stati firmati alcuni trattati bilaterali e multilaterali, ma nessun programma d’aiuto. Nei piani russi, dovrebbe esserci un vertice con l’Africa ogni tre anni. Sochi ha avuto un impatto mediatico enorme, maggiore dell’importanza economica e diplomatica. Ma non è stato un fulmine a ciel sereno. Già durante il secondo mandato di Vladimir Putin, c’era stata una rinnovata attenzione per il Continente nero.
Nel 2006, il Presidente vi si era recato per due volte in visita ufficiale, prima in Algeria, poi in Sudafrica e in Marocco. Una tendenza acceleratasi durante il mandato di Dmitri Medvedev. Nel 2009, quest’ultimo aveva effettuato un viaggio senza precedenti in Egitto, Nigeria, Namibia e Angola. Segno dei tempi, Mikhail Marguelov era stato nominato nella primavera del 2011 inviato speciale per l’Africa. Marguelov ricopriva allora l’incarico di presidente della Commissione Affari esteri del Consiglio della Federazione, la camera alta della Duma. Ovviamente, la Russia si appoggiava, e continua ad appoggiarsi, sulla fitta trama di reti e di relazioni intessute all’epoca sovietica.
L’epoca sovietica
Sebbene l’URSS si fosse erta a paladina della decolonizzazione e dell’indipendentismo dei paesi africani, pochi dei nuovi regimi autoctoni, neo-indipendenti, avrebbero stretto con Mosca legami più profondi di un’amicizia benevola, sia per calcolo, sia per errore dei padrini.
Nonostante tutto, grazie alle nuove capacità di rifornimento aereo e navale, l’URSS degli anni ’70 era stata in grado di sostenere e approvvigionare governi filosovietici in Madagascar, in Benin e più tardi in Burkina Faso. Approfittò della decolonizzazione dei possedimenti portoghesi in Angola, in Mozambico, in Guinea-Bissau e a Capo Verde, dove si affermarono movimenti marxisti-leninisti. Si impose in Sudafrica e in Rhodesia del Sud, l’attuale Zimbabwe, addestrando e appoggiando i quadri dell’African National Congress e della Zimbabwe African People’s Union. Il rovesciamento dell’imperatore etiope Hailé Selassié le fece guadagnare un nuovo alleato.
Se si somma la cooperazione con l’Algeria, la Libia, il Mali e il Kenya, si può dire che, negli anni ’70, l’influenza sovietica in Africa era all’apogeo, con quasi 40.000 consiglieri militari all’opera cui si aggiungevano le truppe cubane, forti di 36.000 uomini in Angola nel 1976.
Per i dirigenti sovietici, l’Africa era una gallina dalle uova d’oro per le armi fabbricate nei paesi del Patto di Varsavia. Ma l’aiuto materiale e tecnico, diretto a promuovere lo sviluppo degli alleati africani, avrebbe tardato a produrre frutti e sorsero mille dubbi sulle possibilità di esportarvi un socialismo alla sovietica. Di lì a poco, l’Africa divenne il simbolo della «sovra-estensione strategica» sovietica, impossibile da reggere e fu fra le primissime vittime della perestroika. Il ripiegamento deciso da Gorbaciov fu drastico, sia per motivi economici sia per favorire la distensione con l’Occidente.
Ne conseguì la scomparsa, non solo in Africa ma in tutte le regioni, dell’influenza russa. Ci si concentrò sulle riforme interne, almeno per 15/20 anni, continuarono solo alcuni progetti sporadici e poche forniture di armi a paesi dai legami inossidabili come l’Angola (nella foto sopra militari russi e cubani a Luanda).
Per il resto, la Russia post-sovietica si inabissò e di Africa non si parlò più. Basti pensare che l’aiuto a un progetto per una mega-acciaieria ad Ajaokuta, in Nigeria, fu interrotto quando l’opera era ormai ultimata al 98%. Il progetto è stato riesumato solo al vertice di Soci del 2019.
Prima di allora, chiusero consolati, missioni commerciali e centri culturali. Le pretese del governo di Boris Yeltsin sul rimborso del debito da parte di alcuni paesi africani incrinarono ulteriormente le relazioni. C’è voluto tutto il pragmatismo e la pazienza di Vladimir Putin per rilanciare l’immagine di Mosca, galvanizzata anche dal dinamismo del delfino Medvedev.
Mosca torna ad affacciarsi sull’Africa
Nei loro viaggi, i due presidenti si sono fatti accompagnare da nutrite delegazioni di uomini d’affari, per siglare intese private, una cosa ampiamente notata dagli analisti occidentali di politica russa. Putin ha voluto mettere da subito i puntini sulle ‘i’: «la Russia osserva senza invidia che altri paesi hanno stretto legami con l’Africa, ma punta a difendere i suoi interessi nel continente». Lo fa con una manovra classica di diplomazia economica, cercando innanzitutto di far fruttare le vecchie amicizie politiche.
Nello stesso tempo, amplia l’orizzonte geografico dei suoi interessi africani, stringendo partenariati con paesi un tempo ostili in un contesto che vede la penetrazione in Africa, anche militare, oggetto una crescente competizione internazionale, come evidenzia la mappa qui sotto.
Nella maggioranza dei casi, il ritorno russo avviene in due fasi: in un primo tempo, Mosca cancella il debito contratto dai governi africani con l’URSS; poi, firma contratti nei settori dell’armamento e delle materie prime. È quanto avvenuto subito con l’Algeria. Nel 2006, Putin ha annullato un debito di 4,7 miliardi di dollari dello Stato algerino in cambio di contratti militari miliardari per Rosoboronexport e affari energetici fra Gazprom e Sonatrach.
Mosca non aveva dimenticato la vicinanza di Algeri durante la crisi post-sovietica e gli aiuti alimentari e sanitari ricevuti. Uno schema simile è stato applicato alla Libia del colonnello Gheddafi: sono stati siglati contratti per ferrovie e gas a vantaggio di Gazprom in cambio dell’annullamento del debito libico. Con Gheddafi al potere era stato concordato un piano per forniture militari per 4 miliardi di dollari e c’erano in ballo centinaia di milioni di dollari in contratti per esplorazioni petrolifere. Le Ferrovie Russe avrebbero gestito la rete ferroviaria libica per 3 miliardi di dollari.
La caduta del dittatore, nel 2011, ha complicato i piani, ma la Russia ha conservato una sfera di influenza su parte del paese e sui suoi destini politici, appoggiando il governo di Tobruk e il maresciallo Khalifa Haftar, con i buoni uffici della compagnia militare privata Wagner.
L’asse militar-commerciale, con l’Egitto
In Egitto, invece, non c’erano debiti da cancellare, ma relazioni da rilanciare. Il Paese era stato il pupillo della cooperazione sovietica all’epoca di Nasser. Con il regime del generale Al-Sisi è nuovamente luna di miele: la Russia è stato il primo paese non arabo visitato ufficialmente dal nuovo uomo forte del Cairo. Subito si è parlato di affari e di geopolitica poiché i commerci fra i due paesi sono centrali.
L’export russo in Egitto va alla grande (37,5 miliardi) e la flotta mercantile di Mosca è una delle principali fruitrici del Canale di Suez, nonostante speranze riposte sulla rotta del Nord, che resterà commercialmente minoritaria per lunghi periodi dell’anno e non sarà sgombra dai ghiacci almeno nel breve periodo.
Il Canale è un choke point imprescindibile per collegare i porti occidentali russi a quelli estremo-orientali, attraverso quella grande porta girevole che è il Mar Nero, primo sbocco per le esportazioni marittime russe, con 252 milioni di tonnellate nel 2020, fluite in massima parte via Novorossiisk (141,8 milioni di tonnellate).
I dati dell’Autorità del canale di Suez, preposta ad amministrare l’asse marittimo, non mentono: la regione del mar Nero è la matrice del 10% circa del flusso di battelli che arriva annualmente all’ingresso settentrionale del Canale.
Di questo 10%, la quota battente bandiera russa è ancora molto lontana da quella rappresentata da Panama, dalla Liberia e dalle Isole Marshall, appena cinquantesima sul centinaio di bandiere che attraversano Suez annualmente. Ma se ci si addentra nei dati e si studiano l’origine dei cargo e il materiale trasportato, la musica cambia. Nel 2019, i mercantili provenienti dai porti russi hanno raggiunto il 6% del tonnellaggio totale passato attraverso il Canale, con 62 milioni di tonnellate. Fino al 2017, quella quota era inferiore al 5% annuo e non era conteggiata nei rilievi dell’Autorità.
Quanto ai materiali, i tanker che, provenienti dalla Russia, hanno varcato il Canale nel 2019, hanno rappresentato il 26,1% del flusso totale di navi petroliere o trasportanti prodotti petroliferi, dando alla Russia il primato in questo segmento merceologico, con 33,2 milioni di t. Anche i cereali si piazzano bene, con il 21,4% del flusso totale nel 2019, vale a dire 11,3 milioni di tonnellate e seconda posizione per la Russia, appena dopo l’Ucraina.
Dalla seconda metà del 2010, Mosca è fra i primi 10 utilizzatori del Canale per l’export di carbone e di granaglie. Con pedaggi medi di 300mila dollari a transito, gli armatori russi costituiscono un cliente non indifferente per il governo egiziano.
E, dal 2014, conl’arrivo al potere del maresciallo al-Sisi, i tanker russi si affacciano sempre più spesso all’ingresso del Canale, suggellando ancora di più l’amicizia russo-egiziana, fatta di interessi economici profittevoli per entrambi. La crescente importanza commerciale di Suez per Mosca spiega in buona parte l’insistente ricerca di una base navale sicura sul mar Rosso, ormai in itinere da anni. Lo vedremo meglio dopo, per ora basti sapere che lungo l’asse Russia-Egitto le cose vanno a gonfie vele.
Sono stati firmati contratti per la fornitura di armamenti che superano i 6 miliardi di dollari, insieme ad accordi fra l’Agenzia russa per l’energia nucleare Rosatom e il governo del Cairo per la costruzione di una centrale nucleare nella regione di El Dabaa, oltre all’apertura del mercato egiziano al grano russo, a dispetto dell’embargo internazionale.
Archiviati gli anni cupi di Hosni Mubarak, Abdel Fattah Al-Sisi ha ridato lustro al partenariato con Mosca, commissionando un numero impressionante di sistemi complessi, fra cui una cinquantina di caccia MiG-29M(2), 46 elicotteri d’attacco Ka-52K, una prima tranche di Su-35, 600 MBT T-90, sistemi missilistici Buk-M2E ed S-300VM/Antey-2500, più un pacchetto che include un migliaio di missili anticarro Ataka e Vikhr per i Ka-52, 17 Mil Mi-8MT/Mi-17 e un satellite d’osservazione EgyptSat-2.
Ma c’è molto altro in ballo. La creazione di una zona industriale russa all’imboccatura del secondo canale di Suez punterebbe a garantire la supremazia delle aziende russe nel mercato egiziano, permettendo loro di proiettarsi in tutto lo spazio economico subsahariano. Nel frattempo, fervono i lavori preliminari per la costruzione della centrale nucleare.
Quattro tranches equipaggiate di reattori VVER-1200 sono già state ordinate e la prima entrerà in funzione nel 2026. È una strategia vincente per entrambe le parti, tanto più che il regime di Al-Sisi aiuta a contenere gli appetiti turchi sulla Libia e a puntellare la Cirenaica.
La penetrazione di Mosca in Africa
Il sistema della cancellazione del debito era uno degli obiettivi del G8, di cui la Russia faceva parte prima delle sanzioni, ma che Putin ha deciso di applicare caso per caso, anche in Africa, in cambio di vantaggi concreti. In Angola, il sistema ha fruttato diamanti e cooperazione spaziale. Fin dal 1993, la neonata Federazione Russa ha aperto in Angola la quarta miniera di diamanti più grande al mondo. Luanda ha confermato di recente il partenariato con il gigante diamantifero russo Alrosa e con l’agenzia Roskosmos.
L’approccio è stato invece differente nei paesi che non hanno fatto parte della sfera d’influenza sovietica. Qui sono andati all’arrembaggio i grandi gruppi privati, che effettuano tuttora investimenti in una pura logica di mercato. Ritrovi così Renova, di Viktor Vekselberg, in Sudafrica, Rusal, di Oleg Deripaska, in Guinea, o la compagnia petrolifera Lukoil in Costa d’Avorio, in Nigeria e in Ghana.
I colossi pubblici non sono da meno: Gazprom ha firmato la stragrande maggioranza dei contratti di cooperazione nel settore del gas e del petrolio e sta puntando, fra gli altri, a collegare le risorse gasifere nigeriane con l’Europa, un progetto un po’ chimerico mentre Rosneft è attivissima soprattutto in Nordafrica.
Rosatom ha fatto incetta di miniere d’uranio in Tanzania e in Namibia e sta portando avanti programmi di sviluppo bilaterali e ha progetti di cooperazione nucleare non solo con l’Egitto, ma anche con l’Algeria, con la Nigeria e con lo Zambia.
Rostec ha nel mirino i giacimenti di platino Darwendale in Zimbabwe, mentre Rosoboronexport ha fatto un primo exploit in Uganda, piazzandovi 18 cacciabombardieri ricondizionati Su-30K, ex indiani, e ha venduto elicotteri da combattimento Mi-35M alla Nigeria e al Mali.
Passo dopo passo, nel periodo 2009-2019, le esportazioni russe in Africa hanno raggiunto i 100 miliardi di dollari per l’80% concentrato in sette paesi: Egitto, Algeria, Marocco, Tunisia, Nigeria, Sudan e Sudafrica.
Con paesi in piena ascesa economica, come l’Etiopia, il Congo e l’Angola, gli scambi si aggirano ancora a poche decine di milioni di dollari l’anno. Quanto alla varietà merceologica, la maggioranza dei prodotti russi diretta verso i paesi africani si è ristretta a cinque categorie principali: materiale militare, cereali, prodotti petroliferi, metalli ferrosi e costruzioni navali.
Ancora oggi, come ai tempi dell’URSS, sono sempre in Nord Africa gli interessi preponderanti della Russia. Forse le cose cambieranno in futuro, ma è presto per dirlo. A lungo reputato come un terreno di caccia esclusivo di francesi e americani, il Marocco è ormai un eccellente partner commerciale, grazie all’export di beni agroalimentari e al turismo.
La visita di re Mohammed VI a Mosca, nel marzo 2016, è stato un colpaccio per la politica africana del Cremlino. Ma nulla è paragonabile all’asse russo-egiziano o a quello con Algeri. L’export russo in Algeria (25,8 miliardi) è secondo solo a quello con l’Egitto, trainato dalle armi e, presto, dai cereali, che potrebbero sottrarre quote di mercato al grano francese.
Negli ultimi sette anni Mosca ha venduto moltissimi sistemi d’arma ad Algeri. Basti solo pensare ai 14 caccia Su-57 e ai Sukhoi Su-34 ordinati, ai 58 Su-30MKA, ai 42 elicotteri da attacco Mil Mi-28NE, ai 6 elicotteri da trasporto pesante Mi-26T2, ai 600 T-90SA, ai 300 BMPT 72, ai sottomarini tipo Kilo e alle 4 batterie di missili balistici Iskander-E.
I paesi del Maghreb comprano oltre metà dei loro sistemi in Russia e Rosoboronexport detiene il primato nel mercato africano delle armi, forte dei legami speciali di epoca sovietica. Fra il 2016 e il 2020, è stato il primo fornitore di armamenti ai paesi subsahariani, con una quota di mercato pari al 30%, in aumento rispetto al 25% del quinquennio 2011-2015. La Russia ha sottratto clienti alla Cina, che ha visto il suo export nell’area calare dal 24% al 20%, e tiene a distanza Francia (9,5%) e Stati Uniti (5,4%).
Insieme alle armi, Mosca garantisce formazione e consulenza. Come spesso accade, le forniture di armi le stanno aprendo forme di cooperazione militare ad hoc, che passano dall’utilizzo dei porti mozambicani per la flotta, ai terreni di aviazione malgasci, senza dimenticare i porti di Pointe-Noire, Brazzaville e Mossaka, in Congo e alla base navale sul Mar Rosso in fase di negoziato con il Sudan.
Nel giro di pochi anni la crescita è stata impressionante. Mosca aveva siglato solo 7 accordi di cooperazione militare con nuovi paesi africani fra il 2010 e il 2017. Negli ultimi tre anni, ne ha firmato più di 20. Fra questi, spiccano le intese con l’Angola, la Guinea, la Guinea-Bissau, il Mali e la Mauritania, che hanno allarmato l’Occidente, perché punterebbero a «trarre vantaggio dall’aiuto militare concesso per ottenere in cambio diritti minerari e partenariati nel campo dell’energia»
Mosca coopera oggi sul piano militare con metà Africa. Spesso inquadra truppe con consiglieri militari, che siedono in consigli di difesa locali e opera con società di sicurezza privata, ormai sugli altari della cronaca dal 2010. Ampliando l’orizzonte, Mosca deve fare ancora molta strada. È appena il sesto partner commerciale del continente africano, con un interscambio che non supera i 20 miliardi di dollari l’anno anche se cresciuto del 17,2% fra il 2018 e il 2019, ma lontano dai valori francesi (55 miliardi di dollari l’anno) e cinesi (200).
La bilancia commerciale di Mosca è tuttavia in forte attivo, con l’export che è raddoppiato nel giro di un triennio (17,5 miliardi) a fronte di 3 miliardi di importazioni. Parliamo comunque di cifre contenute, soprattutto se paragonate ai dati dell’export totale russo nel 2020 (331,7 miliardi di dollari) e a quelli dell’import, pari a 239,7 miliardi.
Lo stock russo di investimenti diretti in Africa si aggira sui 5 miliardi di dollari l’anno, che stridono di fronte ai 130 miliardi investiti dalla Cina. Ma qualcosa sta cambiando. L’anno scorso Mosca ha moltiplicato per 9 le sue esportazioni africane, eguagliando la Turchia, mentre Cina (19) e India (11) hanno fatto meglio. Perdono terreno Usa (2), Francia (1,7) e Regno Unito (1,6).
Segno che le potenze emergenti del continente nero stanno mutando fornitori tradizionali. La Russia non vuole assolutamente lasciarsi sfuggire la manna e sta scatenando un’offensiva a 360°, spesso affidandosi ad aziende dirette da oligarchi aventi legami personali con l’Africa, che servono sia i propri interessi privati, sia la politica estera del paese.
Si pensi a Igor Sechin, presidente di Rosneft, vicinissimo a Putin, e coinvolto come traduttore militare in Angola e in Mozambico negli anni ’80, prima di entrare nel Kgb.
La Russia non ha ambizioni egemoniche ma ambisce a esercitare un’influenza geopolitica (nella mappa qui sotto la presenza russa in Africa al novembre 20199, forte di un’immagine limpida, scevra da trascorsi coloniali. Mosca sta scommettendo sul sentimento antifrancese, evidente in Mali e in Centrafrica.
Nelle sue campagne di relazioni pubbliche, si presenta come alfiere della sovranità costituita. Offre servizi senza chiedere contropartite, senza ingerenze politiche o morali quanto a standard democratici minimi. Vanta, nel soft power africano, il successo della campagna siriana, presentata come una prova di quanto possa giovare il sostegno di Mosca nel garantire sovranità e indipendenza economica, a dispetto delle sanzioni occidentali, anche se il Caesar Act statunitense sta affossando le speranze di rinascita della Siria postbellica.
Il Cremlino si mostra meno avido di Pechino quanto ad appetiti di risorse. Tutti aspetti attraenti per i leader africani, desiderosi di diversificare i partner economici. Se le previsioni russe si avvereranno, gli scambi con l’Africa dovrebbero raddoppiare entro il prossimo vertice bilaterale Russia-Africa, previsto per la primavera 2022, molto probabilmente ad Addis Abeba, raggiungendo il livello francese.
Mosca è sempre più attiva anche nei dossier politici. Si interessa diplomaticamente della situazione in Sud Sudan; partecipa al contrasto internazionale della pirateria al largo della Somalia; nel 2008, si è unita alla missione europea EUFOR Ciad, una cooperazione dalla fortissima valenza simbolica, finita nel dimenticatoio; a inizio 2013 ha sostenuto l’operazione militare francese in Mali.
Gli uomini di Putin in Africa
Sta contribuendo al peacekeeping dell’ONU in Repubblica democratica del Congo e nel Sahara occidentale. Archiviata l’era Marguelov, il nuovo rappresentante speciale del presidente Putin per il Medioriente e l’Africa, Mikhaïl Bogdanov (nelle immagini sotto), si sta disimpegnando benissimo.
Nessuno ci avrebbe scommesso. Arabizzante e assorbito quasi in toto dalle politiche del Vicino Oriente, era un semplice vice ministro degli Esteri, quando fu nominato nell’autunno 2014. Invece si è riscattato: da allora, è stato più di 50 volte in Africa, in missione ufficiale.
Da ottobre è affiancato da Vsevolod Tkatchenko, voluto da Vladimir Putin al vertice del dipartimento per l’Africa Subsahariana del Ministero degli Esteri. Tkatchenko è un fine diplomatico. Parla inglese e swahili.
Ha servito in Uganda, è stato consigliere d’ambasciata in Zimbabwe e in Sudafrica, tra il 2014 e il 2019, è stato ambasciatore in Etiopia e ha rappresentato la Russia all’Unione Africana.
Sarà uno dei massimi artefici del prossimo summit Russia-Africa, insieme a Oleg Ozerov, un altro ambasciatore, con lunghi trascorsi nei paesi musulmani. Ozerov è stato nominato nel maggio 2020 a capo del Segretariato del Forum di partenariato Russia-Africa.
Serve come vice direttore del dipartimento per l’Africa al ministero degli Esteri. Nei suoi incarichi tesse una fitta trama di relazioni interafricane. A maggio 2021, era in Repubblica Democratica del Congo, paese che assicura la presidenza di turno dell’Unione Africana. Vi si è intrattenuto con Christophe Mboso, numero uno dell’Assemblea nazionale, con il quale ha discusso le linee guida del prossimo vertice Russia-Africa.
Il Segretariato presieduto da Ozerov ha obiettivi ambiziosi: punta a tenere aperti canali di consultazione annuali fra i ministri degli esteri russi e di tre paesi africani alla volta, non scelti a caso, ma opzionati secondo un criterio preciso, vale a dire il paese che assicura la presidenza dell’Unione Africana, quello che l’ha preceduto nell’incarico e il terzo che gli subentrerà. Non solo, tra gli scopi del Segretariato figura la promozione della cooperazione fra le associazioni russe e africane e il supporto politico e diplomatico ai progetti africani patrocinati dai conglomerati statali russi e dalle aziende private.
Forse il Cremlino dovrebbe fare uno sforzo in più: federare i diversi attori economici e politici per l’Africa, darsi una dottrina strategica ad hoc ed aumentare la densità umana delle relazioni bilaterali, nonostante i 70.000 studenti africani formati nelle università sovietiche e russe e i 240.000 plasmati da insegnanti sovietici in Africa, alcuni dei quali assurti ai massimi livelli delle dirigenze nazionali, come in Namibia.
L’Africa rimane ancora l’ultimo dei 50 obiettivi prioritari regionali esteri elencati nelle tre versioni del Concetto russo di Politica Estera (2008, 2013 e 2016) e non è nemmeno menzionata nelle versioni principali della Dottrina Militare. Mosca deve scuotersi, se vuole galvanizzare ulteriormente la sua impronta africana. Fatica a competere con Pechino per numero di ambasciate, avendone in 40 paesi africani contro le 52 della Cina, le 47 della Francia e le 48 degli Stati Uniti. Ma sta ripartendo da un lungo letargo e sta scommettendo su settori in cui eccelle, dando prova di un pragmatismo invidiabile.
La geopolitica delle basi militari
Nel tessere la sua tela africana, la Russia ha nel mirino la ricostituzione di una rete di basi militari e di punti d’appoggio. Non ha la forza militare ed economica dell’URSS, ma non le manca l’ambizione di un tempo. Putin non ha mai dimenticato che i sovietici avevano una presenza militare nell’Oceano Indiano e una 5a Eskadra, forte di 70 navi nel Mediterraneo.
La flotta sovietica incrociava nell’Atlantico, disponeva di basi in Guinea e in Angola. Nel Mar Rosso avevano in pugno la Somalia e godevano di facilitazioni navali in Yemen, nel porto di Hodeida e a Nocra, nell’arcipelago etiope (oggi eritreo) delle Dahlak.
In Nordafrica le navi sovietiche utilizzavano il porto di egiziano di Mersa Metruh e quello libico di Tobruk. Dopo il successo siriano, la Russia odierna comincia ad incassare i dividendi di pace. Ha blindato Tartus per cinquant’anni, trasformandola in vera e propria base navale con la vicina base aerea di Hmeimin (Latakya).
Il Cremlino ha in mano un potenziale enorme, fra i choke points turchi e Suez, con un’autostrada spianata fra il Mediterraneo, l’Oceano Indiano e il Golfo Persico. Nel Mar Rosso, qualcosa si muove. Data l’importanza strategica del Corno d’Africa, Mosca ha sempre puntato a insediarsi a Gibuti, strappando una concessione per una base, non dissimile da quella francese, statunitense o cinese. Per il quotidiano Kommersant, l’interesse si era manifestato a partire dal 2012, in primis per una base aerea.
Erano stati avviati negoziati nel 2012 e nel 2013, con discussioni precise sulla superficie del terreno a uso esclusivo della Russia, sul grado d’influenza delle autorità americane nella gestione dello spazio aereo gibutino e sugli investimenti russi nel paese.
C’erano stati sviluppi promettenti, ma, la crisi ucraina del 2014 ha messo una pietra tombale su ogni prospettiva di accordo. Il “cordone sanitario” intorno alla Russia e la crescente rivalità con l’Occidente e gli Usa, hanno spinto Washington a fare pressioni su Gibuti perché rompesse il dialogo con Mosca, senza concederle basi.
Oggi i russi non hanno possibilità a lungo termine, anche se è rimasta in piedi la cooperazione bilaterale con Gibuti in materia di lotta alla pirateria. Ma si sono arrangiati, trovando soluzioni di ripiego.
I rapporti col Sudan
Il paese più ospitale è sembrato fino a poco tempo fa il Sudan, memore dei suoi trascorsi filosovietici. Durante la guerra fredda, Mosca aveva partecipato, principalmente fornendo armi, alla prima guerra civile sudanese (1955-1972) e a una parte della seconda (1983-2005).
Nonostante il crollo verticale degli scambi dopo il 1991, sotto banco ci sono stati flussi ufficiosi. Nel 2007-2008, la Russia è stata accusata di violare l’embargo sulle armi, imposto dall’ONU a Khartoum, per i massacri nel Darfur. È finita inoltre sul banco degli imputati per i mercenari forniti al governo sudanese, impresentabile agli occhi della comunità internazionale per l’ospitalità concessa a Osama Bin Laden e ai suoi accoliti e per le molteplici violazioni dei diritti umani.
L’allora presidente Omar Al-Bashir aveva tutto l’interesse a coltivare i rapporti con la Russia per tentare di rompere l’isolamento internazionale del paese. E ha giocato tutte le carte a sua disposizione, parteggiando per Mosca nella guerra dei cinque giorni con la Georgia e votando all’ONU a favore dell’annessione della Crimea.
Accolto in Russia il 23-25 novembre 2017, Bashir ha incontrato Putin, Medvedev e il ministro della Difesa Sergei Shoigu.
È stato allora che ha invitato i suoi protettori a costruire una base navale in Sudan, reiterando l’offerta nel 2018. Mosca si è mostrata inizialmente prudente, nonostante i vantaggi geopolitici e strategici del paese, che offre un accesso al mar Rosso e frontiere comuni con Egitto e Libia, tornate a gravitare nell’orbita amica del Cremlino. Ma, nel 2017-2018, la base sarebbe costata troppo, avrebbe comportato benefici incerti e scatenato, forse, un conflitto d’interessi con la Cina, dominante nell’industria petrolifera locale, con la Turchia e con altri attori.
Meglio allora approfondire i legami economici e la cooperazione multisettoriale, anche nel campo della sicurezza e della difesa. E muoversi di soppiatto, con le Compagnie Militari Private. Durante il soggiorno di Bashir a Soci, Mosca ha ottenuto un accordo di concessione nella regione di Meroe, firmato direttamente dal gruppo M-Invest, strettamente legato a Evgenij Prigozhin (nella foto sotto), proprietario principale del Gruppo Wagner, e dal ministero delle Risorse minerarie del Sudan.
Prigozhin, che ha fatto fortuna con le sue catene di catering di lusso a Mosca e San Pietroburgo, ha diversificato le attività: possiede una holding mediatica, Media Patriot, compagnie di costruzione ed è attivo nell’industria del petrolio e in quella mineraria. Il suo modello di sviluppo in Africa affianca le ambizioni geopolitiche di Mosca. Si offre come un fornitore di servizi, specie in materia di consulenza politica e di campagne d’influenza, ottenendo in cambio partecipazioni azionarie in compagnie minerarie.
Dopo l’inizio dei lavori di sfruttamento a Meroe, molte fonti russe e occidentali hanno cominciato a segnalare la presenza di security contractors russi, chiamati a proteggere i siti minerari. Per Al-Bashir fu un successo: era tornato dalla Russia rafforzato e vedeva in Putin un puntello al suo regime, affidabile e rigoroso, tanto più dopo il trionfo di Mosca nell’arginare il crollo del governo di Bashar Al-Assad. Pensava di essersi assicurato l’invulnerabilità di fronte a qualsiasi intervento occidentale. Intanto, per contenere le rivolte si era assicurato i buoni uffici della società militare privata Wagner.
Fonti sudanesi avrebbero confermato poco dopo che i contractors russi si sarebbero limitati ad addestrare le forze speciali del NISS, il Servizio nazionale d’intelligence e sicurezza, anche se si sospetta che abbiano coordinato i reparti antisommossa.
Nel maggio 2019, la Russia è passata all’incasso. Ha rotto gli indugi, accettando l’offerta di Bashir e firmando l’accordo che concedeva alla sua flotta l’uso delle installazioni navali di Port Sudan. Era il più grande successo di Mosca nel Mar Rosso. Il crollo del regime di Al-Bashir e il nuovo corso diplomatico fra Khartoum e Washington, inaugurato a ottobre 2020, sono stati un duro colpo per Mosca.
Per un attimo è sembrato che il valore dell’amicizia russa per la giunta interinaria del tenente generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan ne potesse uscire ridimensionato.
E invece la cooperazione militare bilaterale è andata avanti, con un successo insperato. Sempre a maggio 2019, un mese dopo la destituzione di Al-Bashir, Mosca e Khartoum hanno firmato due nuovi accordi militari, validi per sette anni: il primo punta a condividere le esperienze relative alle operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, mentre il secondo mira a rafforzare la cooperazione in campo navale, in particolare nella ricerca e nel salvataggio in mare. Un terzo accordo è stato finalizzato fra l’11 novembre e l’8 dicembre 2020. Secondo le autorità russe, che hanno pubblicato in proposito la risoluzione governativa 1790, la marina russa godrà di un punto di appoggio a Port Sudan. Nel testo di 33 pagine, si parla di un’intesa valida per 25 anni, e rinnovabile per altri 10.
Si tratterebbe di costruire un «centro logistico» su un terreno concesso da Khartoum, in cambio di «assistenza gratuita» alla marina sudanese per missioni di ricerca e salvataggio e di lotta «antisabotaggio».
Un’altra clausola prevede la disponibilità russa a riequipaggiare gratuitamente le difese aeree sudanesi, in cambio dell’uso dello spazio aereo del Paese. Sentito da Interfax, l’ex numero uno della VMF (Marina Russa), Viktor Kravchenko, ha detto chiaro e tondo che la Russia potrebbe costruire le infrastrutture navali nel giro di 3-4 mesi.
Le capacità del punto d’appoggio dovrebbero essere limitate all’accoglienza simultanea di quattro navi russe, comprese quelle a propulsione nucleare, come l’incrociatore Pietro il Grande e i sottomarini atomici, e di 300 fucilieri di marina. Ma la stampa russa parla anche di una stazione SIGINT e di mezzi di difesa aerea: quasi una bolla A2/AD.
L’accordo permetterebbe alla Russia di importare e di esportare, attraverso i porti e gli aeroporti sudanesi, «tutte le armi, le munizioni e gli equipaggiamenti» necessari al funzionamento della ‘base’ e «all’esecuzione dei compiti affidati alle navi da guerra», senza tasse doganali.
Le navi russe che faranno scalo a Port Sudan saranno «inviolabili» e beneficeranno di un’«immunità d’ispezione». Ai russi, farebbe poi gola l’aeroporto a sud della città portuale, sempre sulla costa.
Il testo precisa che il punto d’appoggio, espressione eufemistica che malcela la natura di vera e propria base, ha natura «difensiva», non è «rivolto contro nessun paese» e «risponde agli obiettivi di mantenimento della pace e della stabilità nella regione».
Per Mosca sarebbe un atout chiave, anche nella prospettiva di ricostruire le capacità costiere delle forze navali sudanesi, che potrebbero essere riequipaggiate in tempi brevi con vedette del tipo Raptor, pattugliatori Projekt 10410 e così via: sarebbe una vetrina di inestimabile valore, da sfruttare con altri paesi costieri africani.
Ma è chiaro che, nel nuovo Sudan, se tutto andrà per il verso giusto, la Russia non sarà che un attore fra tanti altri. Dovrà vedersela con concorrenti avidi e ambiziosi, economicamente più dirompenti, come la Cina, politicamente più influenti, come gli USA, e culturalmente e religiosamente più affini come gli Emirati Arabi Uniti. Sulla futura base russa, tuttavia, non è stato affatto apposto il sigillo finale, nonostante la Duma abbia avviato l’iter di ratifica del trattato.
Ad aprile, la stampa sudanese ha scritto che Khartum avrebbe deciso di sospendere l’accordo di concessione
Le autorità russe hanno prontamente reagito, smentendo la notizia e ribadendo di non aver ricevuto nessuna notifica dagli omologhi sudanesi. Il 1° giugno, il generale Mohamed Othman al-Hussein, capo di Stato maggiore delle forze armate sudanesi, è stato più preciso, sottolineando che Khartum vorrebbe rivedere alcune clausole dell’accordo stipulato con la Russia, perché svantaggiose.
Il generale non è però entrato nei dettagli. Si è limitato a dire che finché il trattato non è ratificato dal Consiglio legislativo, le autorità sudanesi sono libere di discuterlo. Si è poi piccato di ribadire che il Sudan sta per ripristinare i legami militari con gli Stati Uniti. Dopo la defenestrazione di Bashir, il Sudan è rientrato nell’orbita statunitense. Ha firmato gli accordi di Abramo e ha ristabilito relazioni diplomatiche con Gerusalemme e Washington.
Il dipartimento di Stato americano l’ha depennato dalla lista dei paesi sponsor del terrorismo internazionale e il Tesoro americano gli ha concesso un prestito per permettergli di rimborsare una parte del debito contratto con la Banca mondiale.
Anche la Francia, in una logica di guerra d’influenza con Mosca, ha annullato un debito di 5 miliardi di dollari dovutole da Khartum e ha rilanciato l’alleanza con un prestito di 1,5 miliardi di dollari.
L’offensiva diplomatica e creditizia statunitense e francese potrebbe aver indotto le autorità sudanesi a un parziale dietrofront sulle guarentigie concesse ai russi. Vedremo come si dipanerà la matassa.
Le altre opzioni tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden
Per ora, la Russia continua a coltivare molte ambizioni intorno all’area strategica dello stretto di Bab-el-Mandeb. Anche se non dovesse concretizzarsi l’affare Port Sudan, Mosca cercherà un altro approdo nel Mar Rosso.
E sta già sondando il terreno. Dopo l’accordo di pace con l’Etiopia, nel giugno del 2018, e la fine dell’embargo internazionale, l’Eritrea è rientrata nell’orbita di Mosca. La relazione è vantaggiosa per entrambe. Permette all’Asmara di rompere l’isolamento internazionale e attrarre capitali, mentre Mosca guarda con interesse al negoziato avviato nell’agosto 2018.
Quell’estate, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha annunciato ufficialmente l’avvio di discussioni bilaterali per l’apertura di una base «logistica» russa sulla costa eritrea.
L’anno dopo, Mosca ha revocato le sanzioni vigenti da quasi un decennio. Complice la censura del regime eritreo si sa poco dello stato dei negoziati ma è certo che gli scambi militari proseguono. A gennaio 2020 sono arrivati all’Asmara i due elicotteri Ansat acquistati nel 2019, nell’ambito del partenariato militare rafforzato con Mosca.
Intanto, ci sono altri paesi in ballo per ospitare una potenziale base russa nel Mar Rosso: lo Yemen e il Somaliland, entrambi ex partner sovietici. Il primo esula dal tema principale dell’articolo: Basti solo dire che Mosca ha giocato nel conflitto yemenita in corso un ruolo di mediatrice fra tutte le parti, eccezion fatta per i jihadisti.
Fin dal 2009, un ufficiale di Marina aveva citato Socotra come ubicazione potenziale per un’installazione navale russa, come ai tempi sovietici. Poi, nel 2016, il governo Saleh aveva candidato Aden, ex base sovietica. Oggi è tutto nel limbo. Socotra è occupata dagli Emirati Arabi Uniti dal 2019 e tutti i contratti russi in Yemen sono sospesi nei settori di gas, dell’energia e della difesa.
Anche il Somaliland non promette bene. La flotta sovietica aveva bazzicato per un certo periodo a Berbera. Oggi il ‘paese’ è parte, de jure, della Somalia, ma ne è di fatto indipendente dal 1991. Vorrebbe essere riconosciuto internazionalmente ed è a caccia di partner, soprattutto fra le potenze di rango, che darebbero peso al suo status. La Russia farebbe al caso suo. Secondo alcuni rapporti, è nel 2017 che si è presentata nuovamente la possibilità di aprire una base militare russa nel Somaliland.
Quell’anno, all’ambasciata russa a Gibuti, un rappresentante del governo del Somaliland ha proposto di concedere a Mosca il diritto di costruire un’installazione a Berbera in cambio del riconoscimento ufficiale del paese. Ai russi sarebbe piaciuta Zeïlah. A gennaio 2020, si è parlato di un’apertura imminente della base, ma le voci sono state subito smentite dall’ambasciatore russo a Gibuti.
Mosca non sembra avere interesse a riconoscere una Repubblica dissidente e secessionista, visti i processi centrifughi che si innescherebbero nelle marche di frontiera di quel che resta del suo “impero euroasiatico”.
Il futuro della base in Somaliland resta incerto ma secondo un rapporto del ministero degli Esteri tedesco, citato dalla Bild, il Cremlino avrebbe intenzione di costruire basi militari in altri paesi africani, fra cui il Mozambico, il Madagascar, il Centrafrica e l’Egitto.
Durante le elezioni presidenziali del 2018, consiglieri politici russi hanno cercato di favorire i candidati dell’opposizione malgascia. Mosca è in pressing nel paese. Ne ha finanziato la classe politica locale, nella speranza di insediarsi in un’isola strategica, perno di rotte marittime cruciali e crocevia di cavi sottomarini, ricca di nickel, cobalto e uranio.
Gli accoliti di Prigozhin hanno già cercato di acquistarvi alcune miniere di cromo, ma il progetto è saltato per l’intervento dell’agenzia di anticorruzione locale. Per orientare l’opinione pubblica è stato promosso un nuovo media panafricano, Afrique Panorama, con fondi legati all’impero finanziario di Prigozhin.
Ma l’offensiva in Madagascar può considerarsi fallita, almeno per ora. Poi c’è il Mediterraneo. Con il Cairo, vige già un accordo quinquennale, ulteriormente rinnovabile, che garantisce l’uso congiunto delle basi e dello spazio aereo all’aeronautica russa e viceversa. Ogni anno, Egitto e Russia stilano una lista di aerodromi disponibili, militari e non solo, elencando i servizi a pagamento e quelli gratuiti.
Sono esclusi dall’intesa i velivoli da ricognizione e i cargo che trasportano materiali pericolosi. Ma la geopolitica di Putin mira in alto, quanto meno a ottenere scali navali in Egitto, in primis a Sidi Barrani, a un passo dalla Cirenaica, dove sono stati segnalati in passato contractors della società RSB. Mosca vorrebbe punti d’appoggio anche in Libia, a Tobruk, porto in acque profonde, e ha sostenuto a spada tratta il Maresciallo Haftar e il parlamento di Tobruk.
Il dinamismo dei contractors russi in Libia
Secondo diversi rapporti, nel novembre 2018, Mosca avrebbe inviato in Cirenaica tra 800 e 1.200 operatori del Gruppo Wagner, inclusi 25 piloti e tecnici aeronautici incaricati di far volare i velivoli da combattimento Sukhoi Su-22 dell’Esercito Nazionale Libico (ENL).
Gran parte degli effettivi sarebbe russa, ma non mancherebbero bielorussi, moldavi, serbi, ucraini e siriani. Questi ultimi, reclutati fra i filo-Assad, sarebbero stati proiettati in Libia, a inizio 2020, con 33 voli speciali operati dalla società aerea privata siriana Cham Wing Airlines.
Altre due società militari private russe hanno fornito servizi ed effettivi ad Haftar (nella foto sotto a bordo della portaerei russa Admiral Kuznetsov al largo di Tobruk) n. Fra settembre e novembre 2019, gli attacchi dell’ENL e dei contractor russi contro la capitale libica e la Tripolitania si sono intensificati a tal punto da provocare la reazione di Ankara, che ha ingaggiato sul campo mercenari siriani inquadrati da consiglieri delle sue forze speciali e dai servizi segreti del MIT. Similmente a quanto avvenuto in Siria nella regione di Deir Ezzor a inizio 2018, il Gruppo Wagner ha cominciato a incassare dure perdite. Anche il comandante locale, Alexander Kuznetsov, sarebbe stato ferito in battaglia.
Il disastro è stato lampante a partire da gennaio 2020, quando le milizie del Governo di accordo Nazionale hanno bloccato l’offensiva su Misurata. A inizio aprile i mercenari di Haftar si sono ritirati verso la base di Bani Walid, più a sud, per essere poi esfiltrati verso una destinazione ignota. C’è però un fatto spesso trascurato: i contractor lamentano enormi ritardi nei pagamenti. Il Gruppo Wagner avrebbe incassato solo metà dei 173 milioni di dollari che Haftar si era impegnato a pagare nell’ottobre 2019, data teorica della fine del contratto, poi prorogato.
Il crollo delle forze di Haftar potrebbe essere legato in parte anche al malcontento dei contractors per il trattamento ricevuto ma Mosca non ha mai abbandonato l’alleato. L’ha anzi puntellato con 14 cacciabombardieri MiG-29 e Su-24, spediti da Hmeimin ad al-Khadim e ad al-Jufrah, il 20 maggio 2020, con un volo scortato da due Su-35.decollati dalla base di Hmeimin in Siria.
I velivoli sono stati poi raggiunti da elicotteri Mi-24. Una garanzia in più, in un momento in cui si stanno negoziando le sorti della Libia, dopo l’accordo di cessate il fuoco, firmato a Ginevra il 23 ottobre 2020.
Il 12 novembre, la commissione mista libica 5+5 aveva trovato un’intesa sul ritiro dei mercenari stranieri dal paese, a partire dal 23 gennaio 2021. Una scadenza calpestata da tutti i contendenti, nonostante la Libia abbia oggi un governo ad interim che dovrebbe traghettare il paese verso le elezioni del 24 dicembre.
É molto dubbio che Russia e Turchia sgombrino il campo senza essersi prima assicurate basi e assicurazioni circa i loro interessi in Libia. La seconda conferenza di Berlino non ha risolto la questione della presenza militare straniera.
La Turchia ha posto riserve al testo finale, pur accettando il principio di un ritiro graduale e simmetrico delle forze. La Russia, da parte sua, ha snobbato il vertice, facendosi rappresentare dal viceministro degli Esteri, Seghej Vershinin e non dal titolare del dicastero, Serghej Lavrov. Il testo partorito a Berlino non prevede nessun meccanismo specifico per ‘forzare’ il ritiro. Nell’incertezza, alcuni dati non depongono favorevolmente, perché i contractors del Wagner Group hanno ripreso i lavori di riassestamento delle basi operative avanzate nel centro del paese e pare stiano spalleggiando le operazioni militari di Haftar nel Fezzan.
Tuttavia il nuovo premier ad interim Abdel Hamid Dbeibah gode dei favori di Mosca e Ankara, così come il presidente provvisorio Mohamed Younes Menfi. Dbeibah è un ricco uomo d’affari di Misurata, rampollo di una famiglia influente. Ha fatto fortuna sotto Gheddafi. I suoi interessi commerciali lo legano strettamente alla Turchia, di cui rappresenta molte società in Libia. Ma è in ottimi rapporti anche con la Russia, dove è stato in visita ufficiale. I russi sono di casa in Libia. Alla fine degli anni ’80, consiglieri militari sovietici avevano partecipato alla «guerra delle frontiere».
Dopo il 1991, molti di loro erano rimasti in Libia, sempre al fianco di Gheddafi, beneficiando di lauti compensi come subcontraenti militari privati almeno fino ai primi anni 2000. A inizio 2021, i soldati di ventura del Gruppo Wagner si sono ridispiegati in varie basi: ad Al Marj, ad Al Khadim e nella zona petrolifera di Marsa al Brega. Hanno creato un ridotto difensivo in Libia centrale, ergendovi un continuum di postazioni fortificate, opere difensive e basi lungo i 120 km che separano la costa mediterranea a ovest di Sirte e la base aerea di al-Jufra.
Il sistema difensivo corre attorno a una lunga trincea. Ha già richiesto mesi di lavoro, ma è ormai completo per 70 km e consta di oltre 30 postazioni fortificate proteggendo l’accesso a Sirte e la base aerea di Ghardabiya, caposaldo della Wagner e lo snodo strategico di al-Jufra, da cui passano una delle principali arterie interne per la Cirenaica e l’unica direttrice rapida per Sebha, capoluogo del Fezzan. Uomini della Wagner sarebbero stati avvistati con mezzi blindati anti-mina anche nella base di Al Wigh, poco distante dalla frontiera con il Ciad e il Niger, dove si sono spinte le forze di Haftar.
La base sarebbe un semplice avamposto, una Forward operating base. I russi starebbero puntando sulle basi di al-Jufra e Brak al-Shati, che potrebbero rimpiazzare Ghardabiya come hub principale, visto che Sirte potrebbe presto diventare la sede ufficiale di alcune delle nuove istituzioni unitarie libiche. Si tratta di basi strategicamente ubicate, collocate in posizione centrale, da cui è possibile esercitare una discreta pressione sulla Tripolitania, mantenendo il controllo sul crescente petrolifero libico e presidiando gli snodi viari tra le tre regioni storiche del paese.
Non è un caso che entrambe le installazioni siano state rafforzate: al-Jufra è difesa da un numero imprecisato di sistemi antiaerei a corto raggio Pantsir-S1, da una batteria di obici semoventi da 122 mm, da radar portatili IL 122M Garmon e da radar VHF early warning P-18.
A difendere Brak è invece una serie di batterie di SAM Pantsir S1, affiancate da 3 radar P-18 e da un Garmon. Sono tutte manovre che lasciano supporre un radicamento del Gruppo Wagner, antitetico al disimpegno auspicato da più parti. L’iniziativa potrebbe anticipare il ritorno in massa delle aziende russe in Libia, per cogliere le opportunità legate allo sviluppo ufficiale delle infrastrutture strategiche.
Fin dal 2017 la Russia ha cercato di anticipare i concorrenti per strappare contratti futuri. Nel febbraio di quell’anno, Rosneft ha siglato un accordo con la NOC (National Oil Company) libica per potenziare il settore petrolifero e, nell’ottobre 2018, il ministro libico dell’Economia e dell’Industria, Nasser Shaglan ha discusso con l’omologo russo un piano per riesumare il progetto ferroviario lungo la tratta fra Bengasi e Sirte.
Se dovesse essere revocato l’embargo delle Nazioni Unite, potrebbero decollare anche i vecchi accordi per i jet militari e le difese missilistiche, che sarebbero un affare di Rosoboronexport. Ma sono tutte ipotesi che non è certo reggano alla prova dei fatti. In Libia, ci sono appetiti concorrenti. Il progetto ferroviario egiziano per un nodo trans-africano fra Bengasi e il Congo potrebbe ostacolare le ambizioni di Russian Railways.
Per non parlare della concorrenza turca. Ankara si è già accaparrata 16 miliardi di contratti in Libia. Total ed Eni sono inoltre due giganti dell’industria petrolifera libica, e di mezzo c’è pure la Cina, che ambisce a includere la Libia nella sua mastodontica via della seta africana. Per ora, di certo, c’è che i contractor di Mosca sono ben presenti nei principali porti di esportazione degli idrocarburi, a Sidra e Ras Lanuf, e sono presenti a sud, tra il campo petrolifero di Sharara, Ghat e al-Wigh.
Avrebbero uomini anche nel sud-est libico, ricco di oro e terre rare, in un quadrante prossimo all’Africa saheliana e centrale. Mosca si è posizionata dietro le quinte per parare ogni eventualità ma nel frattempo sta tessendo una fitta trama a livello diplomatico. Dbeibah era in Russia il 15 aprile. Ha incontrato il premier Mikhail Mishustin, Sergei Shoigu e il segretario del Consiglio di Sicurezza Nikolay Patrushev.
Al centro delle trattative c’erano il dialogo tra le fazioni libiche e gli investimenti nel settore energetico. Con il solito pragmatismo, la Russia sta appoggiando il governo di unione nazionale fin dalla data della sua costituzione, il 9 marzo scorso, e supporta i piani per indire elezioni generali il prossimo dicembre.
Ciò non toglie che i russi continuino a spalleggiare Haftar. Un modo per tenere aperte tutte le opzioni e avere un ventaglio di opportunità da cogliere nella ricostruzione postbellica e nella torta geopolitica di domani. L’incaricato d’affari russo in Libia, Jamshed Boltaev, mantiene ottime relazioni con i membri del parlamento libico, cui ha annunciato la prossima riapertura dell’ambasciata russa a Tripoli.
Mosca ha consegnato di 100mila dosi di vaccini contro il Covid Sputnik V, il 4 aprile, i primi ad arrivare in Libia, iniziativa di soft power che tenta di bilanciare l’immagine negativa di Mosca nell’ovest della Libia per il sostegno militare offerto all’esercito di Haftar.
La penetrazione in Mali
Mentre Mosca riposiziona le sue pedine in Libia, forte della sua diplomazia, dei suoi contractor e del successo mediatico del canale in arabo di Russia Today, sta concentrando le sue attenzioni sul Mali, con cui nel 2019 ha siglato un accordo di collaborazione tecnico-militare.
A fine novembre di quell’anno l’allora ministro maliano della Difesa, generale Ibrahim Dahirou Dembele, aveva annunciato «l’arrivo in dicembre di militari russi nel Paese, per supportare tecnicamente le forze armate locali», aiutare nella manutenzione dei due elicotteri d’attacco Mi-35 consegnati da Mosca nell’ottobre 2017 e addestrarne all’impiego i piloti maliani, preziosi nelle operazioni di controguerriglia jihadista.
Poche settimane dopo, il Cremlino spediva a Bamako una ventina di consiglieri militari, apparentemente forze speciali, tecnici e logisti, versimilmente uomini della Wagner. Secondo fonti di sicurezza operanti in Africa Occidentale, sentite dall’AFP, «la decisione di istituire un’unità Wagner in Mali era stata approvata a Soci, al vertice Russia-Africa».
Durante la guerra fredda Mosca e Bamako avevano coltivato stretti rapporti, dopo che il Mali aveva adottato un modello economico di stampo ‘socialista collettivista’, conquistata l’indipendenza dalla Francia. Parigi è quanto mai guardinga. Sospetta vi sia la crescente influenza russa dietro il sentimento anti-francese in aumento in molti paesi del Sahel. Macron l’ha denunciato apertamente su JeuneAfrique.
Mosca dispone di mezzi d’influenza in loco, come il canale televisivo RT in lingua francese o l’organizzazione «Patrioti del Mali», apertamente antifrancese. Nelle piazze di Bamako si inneggia sempre più spesso al ruolo salvifico della Russia e girano cartelli che invocano «le départ de la France».
Quanto c’è di vero nelle parole di Macron?
La propaganda russa è in forte crescita, come il soft power di Mosca. Le pubblicazioni in francese di RT e dell’agenzia Sputnik su temi africani sono quasi raddoppiate fra il 2017 e il 2018 (da 322 a 548), rilanciate da innumerevoli pagine web, balzate da 1.169 a 3.889 nello stesso periodo di tempo.
I francesi hanno notato che, dopo il colpo di stato dell’agosto 2020 che ha defenestrato IBK e la vecchia guardia al potere in Mali, Igor Gromyko, ambasciatore russo nel paese, è stato uno dei primi diplomatici stranieri ad essere ufficialmente ricevuto dalla nuova giunta maliana.
Sospetti alimentati anche di recente, quando il colonnello Assimi Goïta, di simpatie filorusse, si è issato al vertice degli apparati statali, dopo un secondo colpo di stato. Nella sua giunta, il Colonnello ha mantenuto l’omologo Sadio Kamara al vertice del ministero della Difesa. Il defenestramento di Kamara, era stato uno dei motivi scatenanti il golpe.
Kamara si apprestava a firmare diverse convenzioni con la Russia, a detrimento della Francia, spiega Fakaba Sissoko, direttore del Centro di ricerca di analisi politiche, economiche e sociali del Mali.
Adesso avrà le mani libere tanto più che la giunta maliana è stata pungolata nell’orgoglio dalla tracotanza francese. Parigi ha sospeso ogni collaborazione militare bilaterale con Bamako e, ridimensionando l’operazione Barkhane, chiuderà le basi operative avanzate nel nord del Mali, abbandonando l’area al suo destino. Sullo sfondo ci sono malumori geopolitici e di calcolo elettorale, di cui Mosca potrebbe approfittare.
Giochi di potere in Ciad
Nella regione del Sahel la Russia stava corteggiando anche il presidente ciadiano Idriss Deby Itno, prima che venisse ucciso dai ribelli del Fronte per il cambiamento e la concordia in Ciad (FACT).
Bogdanov si era incontrato con rappresentanti governativi per discutere di un eventuale accordo di partenariato tecnico-militare, in un momento in cui in Francia si cominciava già a ipotizzare un taglio all’operazione Barkhane. Secondo alcune fonti, Déby potrebbe essere divenuto meno funzionale ai piani di Parigi, almeno dal 2018.
Nel marzo di quell’anno, una delegazione di uomini d’affari russi si era recata a N’Djamena, annunciando investimenti per 7,5 miliardi di euro. I russi avrebbero costruito un aeroporto internazionale, una raffineria di petrolio, una centrale elettrica alimentata dal sole e un nuovo sistema nazionale di alimentazione elettrica.
A ottobre 2019, Déby era andato a Soci, al vertice Russia-Africa, per ribadire che «il supporto della Russia sarebbe stato vitale per la stabilità regionale. L’appoggio dal punto di vista della formazione e dell’equipaggiamento, lo scambio d’intelligence e di expertise con le forze africane impegnate nel Sahel sarebbero state di grande utilità».
A novembre 2020 il Ciad e la Russia avevano intavolato discussioni per arrivare a un accordo di cooperazione giudiziaria, proficuo per consolidare e diversificare ulteriormente le relazioni bilaterali fra i due paesi. L’elezione presidenziale in Ciad, l’11 aprile 2021, avrebbe riconfermato Déby (nella foto sotto) al potere, ma ancora per poco.
Il 19 aprile, il Presidente sarebbe rimasto ucciso in seguito alle ferite riportate in uno strano scontro a fuoco con i ribelli del FACT, sulla linea del fronte, a poche centinaia di chilometri dalla capitale N’Djamena, che è anche il quartier generale dell’operazione anti-jihadisti Barkhane composta da 5100 militari francesi (nella foto sotto).
Il proiettile che l’ha ucciso gli ha attraversato il petto e si è conficcato in un rene, seguendo una traiettoria dall’alto verso il basso. Dovrebbe esser stato sparato dall’alto. Da un velivolo? Forse francese? Aerei ed elicotteri di Parigi sorvolavano la zona della località Mao, a nord di N’Djamena, in cui il Presidente è stato ferito. È solo un’ipotesi, ma Déby si stava avvicinando troppo ai russi ed era meno prono ai desiderata di Parigi.
Forse non era nemmeno disposto a destabilizzare ulteriormente il vicino centrafricano, come fatto in passato. Nel 2014, il presidente Déby aveva deciso di ritirare il contingente messo a disposizione della Missione internazionale di sostegno al Centrafrica (Misca) dopo una serie di incidenti e dopo che il suo governo era stato accusato di fare il gioco dell’ex coalizione ribelle della Séléka.
Più di recente, con la comparsa della Coalizione dei Patrioti per la Repubblica Centrafricana (CPC) e poco prima delle nuove elezioni in Centrafrica, N’Djamena aveva smentito la presenza di suoi uomini fra i ribelli. Sta di fatto che tra Ciad e Centrafrica, da quando si è insediato Mahamat Idriss Déby, con un colpo di stato mascherato, non corre nuovamente buon sangue. Il 30 maggio, le forze armate centrafricane appoggiate dai contractors del Wagner Group avrebbero attaccato un posto di frontiera ciadiano a Sourou, poco distante dalla località di Mbéré, nel dipartimento montuoso di Lam, quasi sul confine con il Centrafrica. Un soldato ciadiano è stato ucciso, cinque sono stati feriti e altri cinque sono stati sequestrati e poi giustiziati in territorio centrafricano.
Al momento dei fatti, i soldati centrafricani stavano inseguendo dei combattenti dell’Unione per la pace in Centrafrica, un gruppo ribelle della galassia CPC. Perché abbiano sconfinato resta un mistero. Lo scontro a fuoco è stato violento. Secondo alcune fonti, i mercenari russi che accompagnavano le unità centrafricane avrebbero cercato di riparare in Camerun, ma la Brigata d’intervento rapido camerunense li avrebbe messi in fuga, costringendoli a ripiegare in Centrafrica. I soldati ciadiani avrebbero inseguito i russi fino a Mbang, oltreconfine. Superiori in numero e in volume di fuoco, li avrebbero costretti a cercare rifugio a Mbang, poi nella sotto prefettura di Ngaoundaye
La conquista del Centrafrica
Nell’area del G5-Sahel e sud-sahariana, Parigi ha già dovuto rinunciare allo strumento di influenza economica del franco CFA. Ed è sempre più alle strette proprio in Centrafrica, messa all’angolo dall’invadenza del nuovo grande “protettore” di Bangui. Prima del 2017 Mosca non aveva mai mostrato particolare interesse per il Centrafrica, neanche in epoca sovietica. Sta di fatto che il presidente Faustin Archange Touadéra, eletto nel 2016, è stato più volte in Russia negli ultimi anni: una prima volta al Forum economico di San Pietroburgo, nel giugno 2017, quando ha discusso con Putin di rapporti bilaterali, chiedendogli di rafforzare in primis i legami militari. Poi, pochi mesi dopo, a Soci, invocando l’aiuto russo all’ONU per alleggerire l’embargo sulle armi.
Mosca ha colto la palla al balzo. A dicembre 2017, ha sollevato la questione al Consiglio di Sicurezza che, con la risoluzione 2127, l’ha autorizzata a inviare armi leggere e istruttori militari in RCA. Entrambi hanno cominciato ad affluire a Bangui a gennaio 2018. I russi si vantano di aver offerto un’assistenza tecnico-militare gratuita, ma il Cremlino ha iniziato a sondare fin da subito le possibilità di sfruttare le risorse energetiche del Paese, in un classico do ut des «mutualmente benefico».
Solo 5 dei 175 istruttori militari giunti nel paese sono peraltro militari regolari, gli altri sono civili, contractor di SMP. Il loro ruolo, a volte oscuro, è ormai attestato dalla nomina ufficiale di Valeri Zakharov a consigliere di Touadéra per la sicurezza nazionale, oltre che a capo di tutti gli istruttori.
Zakharov è un ex agente dell’intelligence russa, che ha lavorato in seguito per Prigozhin. E non è più un mistero che i ‘mercenari’ della società militare privata Sewa Security Service (SSS), appartenente al Gruppo Wagner, assicurino la protezione ravvicinata del presidente Touadéra.
SSS ha rimpiazzato i soldati ruandesi della MINUSCA, posti un tempo a difesa del capo dello Stato centrafricano. Altra conferma: Lobaye Invest Ltd, sanzionata dal dipartimento del Tesoro americano e controllata dal gruppo di San Pietroburgo M-Invest, legato a Prigozhin, ha ottenuto la licenza per sfruttare una miniera d’oro presso Ndassima, in una regione controllata dai ribelli musulmani della Séléka, nel nord del Paese.
Due sono le figure chiave di Lobaye in Centrafrica: Eugenii Khodotov, un ex ufficiale di polizia ora direttore generale della compagnia, e Dimitri Alexandrov che cura la strategia mediatica russa in Centrafrica.
Sia SSS, sia Lobaye Invest Ltd sono registrate a Bangui. Entrambe ruotano nella galassia della holding M-Invest che, grazie a Prigozhin, fa i buoni uffici del Cremlino in Africa, almeno a livello para-imprenditoriale.
Nel maggio 2018, diversi giornalisti d’inchiesta avevano intravisto camion blindati Ural-375 in provenienza dal Sudan entrare in RCA. Sospettavano trasportassero operatori della Wagner. Tre giornalisti russi recatisi in Centrafrica per indagare sui fatti erano stati assassinati vicino a Sibut, 200 km a nord-est di Bangui, il 31 luglio 2018.
Un fatto non isolato, che si è sommato ad altri ‘incidenti’ mortali e ad avvelenamenti sospetti di giornalisti d’inchiesta ed esperti russi forse troppo ‘curiosi’. Molti osservatori hanno parlato apertamente di omicidi premeditati, anche se la Russia ha ben poco da nascondere, tanto la sua presenza è ben gradita alla leadership centrafricana.
Incontrando Putin nell’ottobre 2019, Touadéra ha ringraziato Mosca per «l’enorme assistenza militare alla RCA, e il contributo dato all’addestramento di soldati, gendarmeria, polizia e alla modernizzazione dell’esercito».
Il Presidente ha auspicato che «i nostri partner russi ci forniscano armi letali con un calibro superiore a 14,5 mm, così come veicoli corazzati per il personale, veicoli da combattimento per fanterie, mortai e altre armi di artiglieria. Abbiamo chiesto al ministero della Difesa russo di addestrare quattro piloti di elicotteri e specialisti nella manutenzione di elicotteri».
L’intesa è talmente cordiale che, nel gennaio 2019, Marie-Noëlle Koyara, ministro della Difesa, ha accennato alla possibilità di installare una base militare russa nel Paese.
Per ora, Mosca si è limitata ad aprire a Bangui una missione di rappresentanza militare, forte di cinque ufficiali agli ordini del generale paracadutista Oleg Polguev. I colloqui sono però intensi e sempre ai massimi livelli. Touadéra era a Mosca, in ‘visita privata’, il 7 ottobre 2020, giorno del compleanno di Putin. Poco tempo dopo è arrivato anche l’ex premier Firmin Ngrebada. I due altissimi dirigenti centrafricani si sono intrattenuti con diversi esponenti governativi, fra cui Lavrov.
Pochi giorni dopo, a Bangui, si festeggiava lo sbarco da un Antonov An-124-100 di un primo lotto di 20 blindo BRDM-2, altro dono russo al Centrafrica, dopo le 900 pistole, i 5.200 fucili d’assalto e i 270 lanciarazzi che hanno contribuito ad equipaggiare circa 1.300 militari addestrati dalla missione europea EUTM RCA. Mosca sta manovrando su tutti i fronti. Il 21 dicembre, il ministero degli Esteri russo ha confermato l’invio temporaneo di altri 300 istruttori militari in Centrafrica, per fronteggiare le sedizioni della coalizione 3R-MPC, un gruppo ribelle che ha tenuto in pugno Bambari, 380 km a nord-est di Bangui e minacciato altre città lungo l’arteria principale per la capitale.
Non è chiaro se i nuovi ‘istruttori’ appartenessero alle forze armate regolari o alla solita Wagner. Buona parte è stata richiamata in Russia il 15 gennaio; un’altra parte sta affiancando i regolari centrafricani e ruandesi nelle battaglie a nord di Bangui. A maggio, il governo centrafricano ha notificato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la sua intenzione di mettere a disposizione delle Forze di difesa e Sicurezza 600 istruttori russi aggiuntivi, 200 dei quali tra le fila delle forze armate, 200 nella gendarmeria nazionale e altri 200 nella polizia.
Uomini che andrebbero ad aggiungersi ai 535 istruttori già presenti sul territorio centrafricano, almeno ufficialmente, perché diverse fonti stimano la presenza russa in Centrafrica tra 800 e 2mila uomini, tra militari e contractors.
Questi ultimi sono finiti nel mirino delle agenzie umanitarie e delle Nazioni Unite che ne denunciano in maniera esplicita le esazioni contro i civili centrafricani e i metodi sbrigativi contro i caschi blu.
Un affare da seguire, tanto più che le accuse coinvolgono anche i regolari di Bangui. Il Cremlino sta pure alzando la posta, chiedendo libertà per i suoi velivoli nell’uso dello spazio aereo centrafricano.
In passato, ha corteggiato anche tre dei principali capi ribelli, fra cui l’ex presidente Michel Djotodia e Noureddine Adam, capo del Fronte popolare per la Rinascita del Centrafrica, entrambi sanzionati dagli USA e dall’ONU per il ruolo nel golpe del 2013. Il doppio gioco di Mosca puntava a blandire tutti gli attori in campo, per aprire i forzieri minerari allo sfruttamento diretto o indiretto. Oggi Zakharov sta invitando apertamente i ribelli a consegnare i leader. La situazione è precaria.
I governativi, supportati dai russi, dai ruandesi e dalla MINUSCA hanno ripreso diverse città, liberando le linee di comunicazione fra Bangui e il Camerun. Ma i ribelli controllano ancora due terzi del paese e hanno in pugno aree ricche di petrolio, uranio e diamanti. Djotodia ha in mano giacimenti di platino e di mercurio, che farebbero gola a Mosca, insieme all’uranio, già incluso negli accordi di concessione mineraria con Touadéra.
Ma, forse, più che le risorse minerarie, di cui la Russia è già ricchissima e di cui il Centrafrica non abbonderebbe troppo, a Mosca interessano la geopolitica regionale e la stabilità del paese, che potrebbero essere sfruttate come un trampolino di lancio verso altre zone più attraenti economicamente.
Un alto responsabile dell’ONU, che si occupa di questioni di sicurezza, non esclude che «i russi si stiano stabilendo in RCA per creare un duplice asse d’influenza, attraverso il Sudan a nord e verso l’Angola a sud». Per molti esperti conservatori russi, fra cui Vyacheslav Tetekina, membro del comitato di difesa della Duma, citato dall’IFRI, «Mosca ha ormai escluso Parigi dal gioco centrafricano».
Il Mozambico
La Russia ha spiazzato la concorrenza e gli avversari un po’ dappertutto, anche in Mozambico. Per un certo periodo, le relazioni sono sembrate nuovamente all’acme, come ai tempi sovietici. Tutto era partito in sordina, nel 2015, con un accordo di cooperazione tecnico-militare. Poi, nel 2019, il presidente Filipe Jacinto Nyusi ha impresso un’accelerata improvvisa, invitando le aziende russe a investire massicciamente nel paese.
È lui che ha voluto la joint venture fra Empresa Nacional de Hidrocarbonetos e Rosneft, il 22 agosto 2019, dicendosi irritato dagli accordi «ingiusti» siglati con le major occidentali.
Ed è lui che ha ‘comprato’ le capacità antiterroristiche russe per contrastare la ribellione jihadista nella provincia di Cabo Delgado, ricca di idrocarburi. Nyusi ha spedito il ministro della Difesa, Atanasio M’tumuke, a Mosca, per reclamare consiglieri militari (2017) e, nel 2019, ha semplificato l’accesso delle navi militari russe ai porti mozambicani.
Il Cremlino non ha negato di ambire a una base navale permanente e a una stazione mobile per il GRU, durante il colloquio a Mosca fra Putin e Nyusi, nell’agosto di quell’anno. Sono stati momenti interlocutori.
Fra i russi e i mozambicani c’erano di mezzo i sudafricani. Alcune società militari private, che raggruppano veterani sudafricani, molto esperti e fini conoscitori della zona, hanno offerto i loro servizi. Ma sono stati i russi a spuntarla, perché più economici e, soprattutto, affini al Cremlino, ottima garanzia di forniture di equipaggiamenti per le disastrate forze armate locali.
I primi elementi del Wagner sono arrivati in Mozambico il 13 settembre 2019. Si sono stanziati a nord, a Pemba. Il loro arrivo ha segnato la fine della missione per gli elicotteri Gazelle, senza insegne, affittati per tre mesi con tanto di equipaggi alla società Frontier Service Group di Erik Prince, tramite Umbra Aviation in Africa del Sud. A inizio ottobre 2019, i russi hanno permesso ai governativi di prendere il sopravvento sui jihadisti. Sembrava la svolta tanto attesa, ma era un fuoco di paglia. Mentre Mosca smentiva ogni coinvolgimento in Mozambico, un importante carico di armi per il Wagner Group sbarcava a Nacala.
A quella data erano già 200 i mercenari russi in loco, supportati da tre elicotteri Mi-24 e Mi-171Sh. Sebbene sul campo le cose cominciassero ad andar male, i russi orchestravano una campagna mediatica sui social media, rivendicando i buoni risultati raggiunti e il gradimento del governo mozambicano. Un modo per confondere le carte, tanto più che Ansar al-Sunna si era appena rafforzato, inglobato nella strategia generale dello Stato islamico e nella sua provincia d’Africa centrale.
Alcune katibe (battaglioni) erano in quelle fasi capeggiate da jihadisti siriani, esperti di guerriglia. Le vittorie avrebbero permesso agli islamisti di ghermire armi e soldi, bestiame e diversi mortai. Il morale delle forze mozambicane crollò e i jihadisti seppero approfittarne. Prima degli attacchi, ammonivano chi e dove avrebbero colpito. Molti regolari cominciarono a sbandare e a disertare. Ma i jihadisti sembravano puntare più in alto.
Miravano ai russi. Grazie ai legami con il jihad dello Stato islamico in Africa Centrale, catalizzavano rinforzi nel nord del Mozambico. Volevano impedire al Wagner Group qualsiasi iniziativa. Il 10 ottobre 2019, uccidevano due contractor russi. Il 27, una squadra mozambicana inquadrata da consiglieri russi cadeva in un’imboscata.
Rimanevano uccisi 20 mozambicani e 5 russi. Il mese di novembre si rivelò tragico. I rapporti fra mozambicani e russi si inasprirono. I consiglieri del Wagner cominciarono a spazientirsi per l’imperizia delle forze di sicurezza governative. La cooperazione sul terreno si interruppe, fino a cessare completamente. Anche i russi avevano le loro pecche, soprattutto avevano sottovalutato il peso dell’intelligence le capacità del nemico.
In quelle fasi il Wagner Group mostrò i suoi limiti. Impiegato su più fronti aveva abbassato gli standard qualitativi. A fine novembre una parte dei consiglieri venne rimpatriata. Rimaneva qualche elemento a Pemba, capoluogo della provincia di Cabo Delgado, a Nacala, loro base principale, e a Mocimboa da Praia. Violando in teoria la legge americana, Erik Prince (fondatore della compagnia militare privata Blackwater, poi Academy) propose al Wagner Group un appoggio in Mozambico ma i russi rifiutarono.
A febbraio 2020, ExxonMobil e Total, principali contraenti dei progetti di sfruttamento del gas a Cabo Delgado, chiesero a Maputo di potenziare la sicurezza della provincia, aumentando da 500 a 800 uomini gli effettivi della forza operativa congiunta, composta da elementi delle forze armate, della polizia e da contractor.
Di lì a poco il Wagner Group cessò ogni consulenza alle forze armate mozambicane e il governo mozambicano tentò di parare il colpo assoldando i sudafricani della SMP The Dyck Advisory Group, più esperti dei russi e più integrati con i militari locali. I risultati non furono però più soddisfacenti e il contratto con i contractors di Pretoria non venne rinnovato.
Oggi in Mozambico sono “ritornati” i portoghesi, ex colonizzatori che hanno offerto consulenza e formazione militare anche a vantaggio delle forze speciali locali e che guideranno anche una missione addestrativa dell’Unione Europea. mentre i Berretti Verdi statunitensi addestrano i marines di Maputo.
Si prospetta inoltre all’orizzonte un’operazione della SADC (Southern African Development Community) anticipato dall’invio di mille militari ruandesi in appoggio ai governativi.
Dopo una fase di rapida espansione costellata di successi in diversi stati del continente, le ambizioni africane del Cremlino sembrano aver subito una prima battuta d’arresto proprio in Mozambico dove peraltro si riscontra la volontà delle potenze occidentali di non lasciare altri margini e opportunità alla penetrazione russa.
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