Di ritorno dalla Siria
Di ritorno dalla Siria- Appunti sulla geopolitica del caos
di Paolo Sensini Comedonchisciotte 20 maggio 2012
Ormai siamo a un giro di boa. La grande operazione mediatico-militare passata alla storia come “Primavera araba”, è costretta a operare in Siria un brusco ripiegamento di rotta, soprattutto in conseguenza del fatto che Russia e Cina hanno posto il loro veto al Consiglio di Sicurezza dell’onu per un intervento armato.
Dopo i Regime change in Tunisia, Egitto e Yemen, ma ai quali non è di certo corrisposto il miglioramento delle condizioni di vita delle rispettive popolazioni, dopo la devastazione manu militari compiuta dalla nato in Libia che ha lasciato in dote al paese una guerra a bassa intensità di tutti contro tutti, ecco che la geopolitica del caos si è imbattuta in Siria in un muro per ora invalicabile.
Non che nel caso siriano siano mancati, anche qui per operare un “cambio di regime”, dei mezzi di eccezionale portata. Al contrario, tutto quello che era possibile tentare per disarticolare l’unità interna e destabilizzare il quadro politico del paese è stato tentato, con enorme dispendio di mezzi e risorse. Ma invano.
Se guardiamo infatti a quello che sta avvenendo ora alla Siria, possiamo dire che l’opposizione sponsorizzata dall’Occidente e dai Paesi del Golfo – il “Consiglio nazionale siriano” (cns) e l’“Esercito siriano libero” (fsa) – sia politicamente sconfitta e l’unica speranza rimanga quella di perseguire in una serie continua di attentati, di bombe e di uccisioni. A questa punto il “terrore” rimane l’unica carta spendibile per gli architetti del caos.
Non a caso la Siria, uno degli Stati guida del mondo arabo, che si è sempre considerata il “cuore dell’arabismo” (qalb’ al-‘urūbah), il centro del nazionalismo arabo e della lotta contro il sionismo, non ha mai avuto una così forte indipendenza come nel periodo di Ḥāfiẓ al-Assad (1970-2000), quando è diventata, da potenza minore nel concerto geopolitico mediorientale negli anni Cinquanta e Sessanta (subendo la guerra fredda araba e le influenze esterne britanniche e poi americane), una delle maggiori e rispettate potenze regionali, non più asservita ai tradizionali rivali come Iraq ed Egitto. Questo è il risultato più evidente dell’astuzia tattica di al-Assad che ha saputo compensare le limitate risorse e la relativa debolezza militare sfruttando abilmente le superpotenze e i popoli vicini.
Ed è esattamente per porre termine a una tale situazione, la quale incarnava un perdurante ostacolo al fine di ridisegnare un “Grande Medio Oriente” secondo le nuove direttrici strategiche internazionali, che ha preso le mosse nel 2011 la poderosa macchina bellica e propagandistica che vediamo in azione.
I
Prima di analizzare nel dettaglio l’attuale contesto siriano, è opportuno però tracciare un rapido quadro sulla panoplia dei gruppi sociali che popolano il mondo arabo. Una volta compiuta una panoramica su questo frastagliato arcipelago, entreremo nel merito degli aspetti essenziali per trarre un bilancio sullo stato del Paese così com’è emerso durante il viaggio in Siria della delegazione italo-siriana a cui ho preso parte.
Partiamo anzitutto dalla composizione etnica e settaria dell’intero spazio mediorientale. Il mondo arabo è costruito come un castello di carte, messo insieme da Francia e Gran Bretagna negli anni Venti del Novecento subito dopo la deflagrazione dell’Impero Ottomano. Fu diviso arbitrariamente in diciannove Stati, tutti formati da combinazioni di minoranze e gruppi etnici disomogenei, in modo tale da assemblare un puzzle sempre a rischio di entrare in stato di fibrillazione. Con la sola eccezione dell’Egitto, nel quale una maggioranza musulmana sunnita si trova di fronte una consistente minoranza di cristiani copti nell’Alto Egitto, tutti gli Stati maghrebini sono popolati da un miscuglio di arabi e berberi non-arabizzati.
L’islam combattente, emanazione delle petromonarchie feudali dei paesi del Golfo e delle potenze occidentali (gcc + nato), come ho ampiamente argomentato nel mio Libia 2011 (Jaca Book, Milano 2011), è riuscito a disarticolare il complesso equilibrio interno libico facendolo letteralmente implodere su se stesso a suon di bombe.
Neppure la composizione dell’Iraq è essenzialmente diversa, sebbene la maggioranza degli abitanti sia sciita (65%) e la minoranza sunnita (20%). Inoltre vi è una consistente minoranza curda nel Nord del paese (12%) dove si concentra il grosso delle riserve petrolifere. Dalla caduta di Saddam Hussein in seguito all’occupazione militare nato nel marzo 2003, gli sciiti iracheni considerano l’Āyatollāh iraniano il loro capo naturale. Quindi, com’è facilmente intuibile, una tale condizione rende il paese pressoché ingovernabile.
Tutti gli Stati del Golfo e l’Arabia Saudita sono fragili contenitori che racchiudono solo petrolio. In Kuwait, i kuwaitiani costituiscono solo un quarto dell’intera popolazione. Nel Bahrein, gli sciiti sono la maggioranza ma sono privi di potere; da qui le manifestazioni di protesta e la feroce repressione della famiglia regnante degli al-Khalifa che ancora continuano nel più completo silenzio dei media. Negli Emirati Arabi Uniti, sempre gli sciiti sono di nuovo la maggioranza ma al potere ci sono i sunniti. Lo stesso vale per l’Oman e per la Repubblica dello Yemen. In Arabia Saudita metà della popolazione è costituita da stranieri, prevalentemente egiziani e yemeniti, ma una minoranza saudita detiene il potere. La monarchia hashemita della Giordania, da parte sua, è costituita da oltre il 40% di palestinesi ma è governata da una minoranza beduina transgiordana.
Accanto a quelli arabi, gli altri Stati musulmani condividono la medesima situazione di complessità interna. Metà della popolazione iraniana è rappresentata da un gruppo di lingua farsi e l’altra metà circa da un gruppo etnicamente turco, senza dimenticare la minoranza curda esistente nel paese. La popolazione della Turchia è composta da una maggioranza turca che ammonta al 76%, 18% di curdi, il 3% di arabi alawiti e la restante parte di altri gruppi. Sul piano confessionale invece abbiamo l’82% identificati come sunniti hanafiti, il 9,1% sunniti shafi’i, il 5,7% alevista, il 3% alawiti e lo 0,2% di cristiani. Anche in Afghanistan la componente principale musulmana è quella sunnita, con minoranze sciite (15%) nel centro del paese e a ridosso del confine con l’Iran. Nel Pakistan sunnita sono invece presenti una minoranza di circa trenta milioni di sciiti con cui spesso vengono a crearsi pericolosi momenti di frizione.
La Siria non presenta differenze fondamentali rispetto al Libano, tranne che per il regime che la governa. I sunniti, da quando nel 1516 il sultano ottomano Selim i con la vittoria di Marğ Dabiq presso Aleppo occupò la Siria mantenendola sotto il proprio controllo per quattro secoli, hanno rappresentato il gruppo preponderante per tutto l’arco di dominio della Sublime Porta. Altri gruppi presenti nel paese sono gli ismaeliti, di cui permangono tre sette distinte che sono sopravissute sui monti siriani e che hanno sviluppato differenti tradizioni sociali e culturali: alawiti (14%), drusi (3,5%) e ismaeliti (1%). Gli alawiti o nusayrī costituiscono la più numerosa minoranza siriana. ‘Alawī è l’aggettivo relativo arabo derivato dal nome proprio di ‘Alī, che significa in questo caso “devoto di ‘Alī”. La setta prende corpo nel ix-x secolo nell’Iraq meridionale, crogiolo delle dottrine ismailite, su iniziative del notabile di Bassora Ibn Nusayr, da cui il nome nusayrī e che giunse in Siria settentrionale nel x secolo. Le roccaforti di questa comunità sono presenti soprattutto intorno a Latakia e Tartus. Gli alawiti sono stati per lungo tempo la più povera, arretrata e oppressa comunità della società siriana, fino a quando la potenza mandataria francese fondò il “territorio autonomo degli alawiti” (1920), poi Stato alawita (1922) che entrò successivamente a far parte della Federazione siriana e fu poi ridotto a vilayet.
I cristiani siriani rappresentano, dal punto di vista numerico, una delle tre comunità più importanti del Vicino Oriente con i maroniti del Libano e i copti d’Egitto. Ad Aleppo vi sono undici comunità cristiane e nove vescovi di riti diversi. Damasco è la sede di tre patriarchi: greco-ortodosso, greco-cattolico (melchita) e siriaco-ortodosso. Nella seconda metà del xx secolo la popolazione cristiana si è ridotta progressivamente in percentuale: sotto il mandato francese (1920-1946) i cristiani costituivano il 20% della popolazione siriana, nel 1948 il 14,1%, mentre nei primi anni del Ventesimo secolo si attestano intorno al 10%, di cui la metà concentrata a Damasco.
Dalla fine degli anni Trenta è presente nel paese anche una numerosa comunità di curdi che oggi ammonta a circa due milioni e cinquecentomila persone. A questi vanno poi aggiunti oltre quattrocentomila profughi palestinesi appartenenti a tutte le classi sociali ed economiche riparati in Siria. Tutti i cittadini hanno uguali diritti e la legislazione non contempla alcuna discriminazione; lo Stato è laico e stabilisce che la religione non prevarichi sulla vita di nessun cittadino, fatto salvo la libertà di culto garantita per ciascun individuo o comunità. Le minoranze etnico-linguistiche (curdi, circassi, armeni, beduini, e a partire dal 2003 circa due milioni di iracheni scappati dalla guerra), non sono meno rilevanti di quelle religiose.
Infine, pur essendo noto che il presidente Bashar al-Assad è alawita, come vanno ripetendo coralmente tutti i mezzi d’informazione, lo Stato Maggiore dell’Esercito, la polizia politica, i diversi servizi di informazione così come il governo civile e l’economia nazionale sono ampiamente guidate da sunniti. In realtà, contrariamente a quanto viene diffuso dalla stampa internazionale, l’apparato statale baathista rispecchia quasi fedelmente le diversità etnico-religiose di cui è venata la società siriana.
I media mainstream evitano poi accuratamente di citare la Vice Presidente della Repubblica araba di Siria, la dottoressa Najah al-Attar, la prima e unica donna araba al mondo a occupare una carica così elevata. La signora al-Attar non è soltanto di origine sunnita, ma è anche la sorella di uno dei dirigenti in esilio dei Fratelli musulmani, esempio emblematico del “paradosso siriano”.
II
Questo rapido affresco delle suddivisioni etnico-confessionali che spazia dal Marocco all’India e dalla Somalia alla Turchia, pone in evidenza tutto il potenziale tellurico a cui, se opportunamente “solleticato”, può essere sottoposta una così vasta area geografica. In questo mondo a macchia di leopardo, vi sono poi alcuni piccoli gruppi opulenti e una massa sterminata di indigenti. Negli Stati del Golfo, in Arabia Saudita, in Qatar e in Turchia è concentrata una straordinaria ricchezza in denaro e petrolio, ma coloro che ne beneficiano sono minuscoli strati elitari privi di una solida base di supporto, cosa che nessun apparato militare può evidentemente garantire.
Ecco che in questa situazione, una volta liquidato tra il 1989 e il 1991 l’Impero Sovietico, che per quasi un cinquantennio ha rappresentato il nemico strategico dell’Occidente Atlantico, viene a crearsi uno scenario del tutto nuovo. Con ovvie ricadute anche nel mondo arabo.
Gli Stati Uniti dispongono nell’area di un alleato di ferro come la Casa dei Saud, con la quale è tuttora pienamente operativo il “Patto di Quincy” firmato il 14 febbraio del 1945 tra Franklin D. Roosevelt e il re saudita ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd. Tale accordo avrebbe permesso agli Stati Uniti di garantirsi un approvvigionamento energetico senza ostacoli in cambio della protezione del suo vassallo nell’affrontare i loro comuni avversari nella regione, in particolare il nazionalismo arabo e l’Iran, di cui alcuni territori erano passati sotto l’influenza sovietica.
Ma nella regione vi è anche un altro alleato di ferro, anzi d’acciaio, Israele, con cui i rapporti verranno stretti ancor di più soprattutto a partire dalla cosiddetta “Guerra dei sei giorni” del 1967. Un’entità, lo “Stato Ebraico”, in guerra praticamente con quasi tutti i paesi circonvicini sin dal momento della sua proclamazione in terra palestinese nel maggio 1948.
Da questo intricato groviglio emergeranno negli anni successivi talune proposte operative per ridisegnare il quadro geopolitico del Medio Oriente che rappresentano l’asse strategico fondamentale lungo il quale si muovono congiuntamente nato e Israele per il xxi secolo. La prima proposta venne formulata da Bernard Lewis, membro del Bilderberg, ex ufficiale dei servizi segreti britannici oltreché storico molto discusso per avere individuato le radici dello scontento arabo nei confronti dell’Occidente non già in una reazione all’imperialismo, ma nell’Islam stesso; quest’ultimo invero sarebbe incompatibile con l’Occidente e destinato a scontrarsi con esso, secondo la teoria dello “Scontro di civiltà”.
Lewis presentò alla Conferenza del 1979 del Gruppo Bilderberg una strategia britannico-americana “approvata dal movimento estremista Fratellanza Musulmana […], con lo scopo di promuovere la balcanizzazione dell’intero Vicino Oriente musulmano lungo linee di divisione tribali e religiose”. Secondo Lewis l’Occidente avrebbe dovuto “incoraggiare gruppi autonomisti come i curdi, gli armeni, i maroniti del Libano, i copti etiopici, i turchi dell'Azerbaigian e così via”. In quello che definiva “Arco di crisi” sarebbe “dilagato il caos, estendendosi poi nelle regioni musulmane dell’Unione Sovietica”. Dato che l’urss veniva reputato come un regime laico e ateo, l’ascesa dei governi islamici nel Medio Oriente e in Asia Centrale avrebbe impedito alla Russia di esercitare la propria influenza nella regione, visto che gli estremisti musulmani avrebbero diffidato dei sovietici ancor più di quanto diffidassero degli americani. Questi ultimi si sarebbero in definitiva presentati come “il male minore”.
Per decenni Lewis svolse un ruolo fondamentale come professore, guru e mentore per due generazioni di orientalisti, accademici, esperti dei servizi segreti statunitensi e britannici, membri di think-tank e un nutrito assortimento di neo-conservatori. Negli anni Ottanta Lewis frequentava abitualmente pezzi grossi del Dipartimento della Difesa. Nell’autunno del 1992 scrisse un saggio per “Foreign Affairs”, la rivista del Council on Foreign Relations (cfr), intitolato Ripensare il Medio Oriente. In questo articolo egli prospettò “un’altra politica” nei confronti del Medio Oriente dopo la fine della Guerra Fredda e agli inizi del Nuovo Ordine Mondiale: una “possibilità che potrebbe addirittura essere accelerata dal fondamentalismo, […] e che negli ultimi tempi è di moda chiamare ‘libanizzazione’. La maggior parte degli Stati del Medio Oriente sono di recente e artificiale costituzione e vulnerabili a questo processo. Se il potere centrale viene sufficientemente indebolito non c’è una vera società civile che possa tenere insieme la vita politica, né alcun vero senso di identità nazionale comune o di prioritaria lealtà allo Stato-nazione. Lo Stato allora si disintegra – come è accaduto in Libano – in un caos di fazioni, tribù e partiti litigiosi, rissosi e in perenne conflitto”.
Un proposta operativa, la sua, che s’inseriva nel solco già dissodato da George Lenczowski sempre su “Foreign Affairs” nell’estate del 1979, che descriveva con queste parole l’Arco di crisi: “Il Medio Oriente costituisce il suo nucleo centrale. La sua posizione strategica è incomparabile: è l’ultima grande regione del Mondo Libero direttamente adiacente all’Unione Sovietica, ha nel proprio sottosuolo circa tre quarti delle riserve mondiali stimate e dimostrate di petrolio ed è sede di uno dei più spinosi conflitti del xx secolo: quello tra il sionismo e il nazionalismo arabo”.
È in questo contesto che, come ammise in seguito lo stesso Zbigniew Brzezinski, “cominciò nel 1980 l’appoggio offerto dalla cia ai mujaheddin, cioè dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan il 24 dicembre 1979. Infatti, il 3 luglio 1979, il Presidente Carter firmò la prima direttiva per fornire segretamente aiuti agli oppositori del regime pro-sovietico di Kabul. E quello stesso giorno – continua Brzezinski – scrissi una nota al presidente in cui gli spiegai che secondo me questi aiuti avrebbero provocato un intervento militare dei sovietici […]. Non spingemmo i russi a intervenire, ma aumentammo scientemente la probabilità che lo facessero”. In altre parole, li “spinsero” a intervenire.
Fu allora che vennero creati i mujaheddin e attraverso questi al-Qaeda come sezione araba della cia, la quale in seguito ha polarizzato l’agenda geopolitica mondiale fino ai giorni nostri. Per tale ragione il “terrorismo” non può essere visto, come spesso accade, semplicisticamente come un “attore non statale” che reagisce alla politica di nazioni e corporation. Di fatto molti gruppi terroristici, soprattutto i più grandi, estremisti, violenti e meglio organizzati, sono “attori per conto di uno Stato” che vengono segretamente supportati – attraverso la fornitura di armi e addestramento – da vari servizi segreti. Non si limitano dunque a “reagire”, ma hanno un ruolo di spicco sullo scacchiere internazionale. Rappresentano, in altri termini, il perfetto pretesto per l’avventurismo militarista e la guerra.
Come scrisse il “San Francisco Chronicle” nel settembre del 2001, subito dopo gli attentati dell’11 settembre, “la mappa dei covi e dei bersagli terroristici in Medio Oriente e nell’Asia Centrale è anche, in misura straordinaria, una mappa delle principali risorse energetiche mondiali del xxi secolo. Sarà l’accaparramento e la difesa di queste risorse energetiche, più che un semplice scontro tra l’Islam e l’Occidente, a costituire il primo punto di innesco di un conflitto globale per decenni a venire”. E proseguiva così: “Inevitabilmente la guerra contro il terrorismo verrà vista da molti come una guerra per conto delle americane Chevron, Exxon-Mobil e Arco, della francese Total-Fina-Elf, della British Petroleum, della Royal Dutch Shell e di altre multinazionali che hanno investimenti da centinaia di miliardi di dollari nella regione”. Di fatto, ovunque sia presente al-Qaeda e tutta la sua vasta rete di agenzie in franchising, l’esercito degli Stati Uniti e dei suoi alleati la segue a ruota, e dietro l’esercito aspettano e spingono le compagnie petrolifere; alle spalle di queste ultime, poi, vi sono tutte le ramificazioni dei grandi potentati finanziari.
III
Per quanto riguarda invece la compagine dell’entità sionista, nel febbraio 1982 un giornalista israeliano legato al ministero degli Esteri di Tel Aviv, Oded Yinon, scrisse un articolo per “Kivunim. A Journal for Judaism and Zionism” in cui veniva enunciata in maniera esplicita, dettagliata e univoca la Strategia di Israele negli anni Ottanta del Novecento per il Medio Oriente. Il piano si basava su due premesse essenziali. Per sopravvivere, Israele deve: 1) diventare una potenza imperiale nella regione; 2) dividere l’intera area in piccoli Stati attraverso la sparizione di tutti gli Stati arabi esistenti. La composizione etnica o settaria di ogni Stato sarà decisiva per determinare quanto “piccolo” dovrà essere un nuovo Stato. Pertanto, si auspicava che gli Stati “a base settaria” diventassero “satelliti di Israele” nonché, ironicamente, sua fonte di legittimazione morale.
L’idea non era nuova, essendosi già affacciata altre volte nel pensiero strategico sionista. Quello che invece risultava assolutamente innovativo era la maniera cristallina con cui si rendeva pubblicamente noto il progetto. “Ciò che vogliamo non è un mondo arabo, ma un mondo di frammenti arabi, pronto a soccombere all’egemonia israeliana”. Questo l’obiettivo finale.
L’autore, senza tanti giri di parole, propugnava esplicitamente “La dissoluzione della Siria e, più tardi, dell’Iraq in aree peculiari per etnia o religione come in Libano è l’obiettivo primario a lungo termine di Israele sul fronte orientale, mentre la dissoluzione della forza militare di questi Stati lo è a breve termine. La Siria si sfascerà in base alla sua struttura etnica e religiosa in Stati diversi, come accade nel Libano di oggi, così ci sarà uno Stato sciita alawita lungo la costa, uno Stato sunnita nell’area di Aleppo, un altro Stato sunnita a Damasco, ostile al suo vicino settentrionale, e i drusi creeranno un loro Stato, forse addirittura nel nostro Golan, sicuramente nell’Hauran e nella Giordania settentrionale […]. L’Iraq, ricco di petrolio da un lato, dilaniato all’interno dall’altro, è un candidato sicuro a far parte degli obiettivi di Israele. Per noi la sua dissoluzione è perfino più importante di quello della Siria. L’Iraq è più forte della Siria […]. Qualunque tipo di scontro interarabo ci sarà d’aiuto nel breve termine e accorcerà la strada per l’obiettivo più importante che è quello di spezzettare l’Iraq in varie comunità statali come nei casi della Siria e del Libano. In Iraq è possibile una divisione in province su base etnica e religiosa simile a quella della Siria all’epoca dell’impero ottomano. Così ci saranno tre (o più) Stati attorno alle tre città principali: Bassora, Baghdad e Mosul, e le aree sciite del sud saranno separate dal nord sunnita e curdo”.
Ricordiamolo ancora una volta: l’articolo è datato febbraio 1982, dunque senza alcuna diversione “complottista” possiamo tranquillamente convenire sulle capacità previsionali di questa analisi. L’Iraq, a seguito dell’invasione anglo-statunitense nel marzo 2003, è stato effettivamente smembrato con le modalità suggerite da Yinon, mentre per il momento le sorti della Siria non hanno ancora seguito le sue vaticinazioni.
Nel 1996 un think-tank israeliano che contava tra i suoi membri molti importanti neo-conservatori americani come Richard Perle, Douglas Feith James Colbert, Charles Fairbanks, Jr. e David Wurmser, pubblicò un documento per il leader del Likud Benjamin Netanyahu, che allora subentrava nell’incarico di Primo Ministro, intitolato A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm (Un taglio netto: una nuova strategia per garantire la sicurezza al Regno), in cui si auspicava che Israele “collaborasse più strettamente con la Turchia e la Giordania per contenere, destabilizzare e respingere alcune delle sue peggiori minacce”, in particolare per deporre Saddam Hussein.
Nel settembre del 2000, il Project for the New American Century (pnac), un altro think-tank neo-conservatore composto da personaggi del calibro di Paul Wolfowitz, Jeb Bush, Richard Perle, Donald Rumsfeld, Robert Zoellick, Richard Armitage, Lewis “Scooter” Libby, William Kristol, Robert Kagan, R. James Woolsey, Elliot Abrams, William J. Bennett, John Bolton, fece uscire un documento dal titolo Rebuilding America’s Defenses (Ricostruire le difese dell’America), dove si propugnava apertamente un impero americano nel Medio Oriente e in particolare l’eliminazione delle “minacce” rappresentate da Iraq, Siria e Iran. Nel testo in questione, a proposito del processo di trasformazione della difesa statunitense, troviamo una precisazione cruciale, molto dibattuta alla luce dei successivi eventi degli attentati dell’11 settembre 2001: “Il processo di trasformazione, anche se porterà un cambiamento rivoluzionario, risulterà molto lungo, se non si dovesse verificare un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbor”. Il riferimento è evidentemente allo shock che causò sull’opinione pubblica americana determinando l’immediata entrata in guerra degli Stati Uniti.
Subito dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, che seguiva di circa un anno e mezzo l’occupazione militare dell’Afghanistan per catturare Osama Bin Laden, membri di spicco del Council on Foreign Relations (cfr) avevano cominciato a promuovere la divisione dell’Iraq in almeno tre staterelli, esattamente come si era prospettato più sopra.
Nel 2006 l’“Armed Force Journal” pubblicò un articolo del Tenente Colonnello in congedo Ralph Peters sulla necessità di ridisegnare i confini del Medio Oriente. Innanzitutto Peters ribadiva la “necessità di dividere l’Iraq”; poi “l’Iran, uno Stato dai confini ‘capricciosi’, avrebbe perso gran parte del suo territorio a vantaggio di un Azerbaijan unificato, un Kurdistan libero, uno Stato arabo sciita e un libero Beluchistan, ma avrebbe guadagnato le province che circondano Herat nell’attuale Afghanistan”.
Peters compilò anche una breve lista di “perdenti” e “vincitori” di questo nuovo Grande Gioco: chi guadagnava territorio e chi lo perdeva. Tra i perdenti vi erano l’Afghanistan, la Libia, l’Iran, l’Iraq, la Siria, la Cisgiordania e il Pakistan. Inoltre egli esprimeva l’allarmante convinzione secondo cui il ridisegno dei confini “si ottiene spesso unicamente per mezzo di guerre e violenze e che un altro piccolo segreto insegnatoci da 5000 anni di storia è che la pulizia etnica funziona”.
IV
Naturalmente qualcuno potrà obiettare che, per quanto riguarda le affermazioni or ora riportate, si tratta di semplici parole in libertà. Peccato però che una buona parte delle cose scritte o riconducibili a costoro, che ricordiamolo sono personaggi di primo piano dell’intelligencija e del firmamento politico-militare a livello internazionale, si sono effettivamente realizzate talis et qualis. E altre, al momento in standby, sono in “via di esecuzione”.
Insomma, parliamo di gente che ha tutti i mezzi per far seguire alle parole i fatti. Gente, per dirla con Karl Rove, già capo dello staff presidenziale di George W. Bush, che non ha alcuna difficoltà a far sapere come Vuolsi così colà dove si puote: “Ora noi siamo un impero e quando agiamo – sentenziava Rove – creiamo la nostra realtà. E mentre voi state giudiziosamente analizzando quella realtà, noi agiremo di nuovo e ne creeremo un’altra e poi un’altra ancora che potrete studiare. È così che andranno le cose. Noi facciamo la storia e a voi, a tutti voi, non resterà altro da fare che studiare ciò che facciamo”.
Mettiamo dunque da parte qualsiasi attribuzione gratuita di “complottismo” o “dietrologia”, che non c’entrano assolutamente nulla in tale contesto. Concentriamoci invece in quest’ultima parte del nostro scritto su quanto è stato detto e fatto nell’ultimo anno per giustificare il clamore diffamatorio dei media mainstream nei confronti della Siria. Vedremo così se tutto quello che la stampa ci ha riversato addosso è giustificato da elementi concreti o se, invece, ciò a cui abbiamo assistito non è altro che l’ennesimo tentativo di “creazione di una realtà” già pianificata illo tempore.
Partiamo innanzitutto anche in questo caso dalla constatazione che Al Jazeera e Al Arabiya, esattamente come era già avvenuto nel caso della “Primavera Araba” e soprattutto con la Libia a partire dal febbraio 2011, hanno scatenato una campagna mediatica internazionale tutta tesa a far passare il postulato sulle “violenze disumane perpetrare dal regime di Bashar al-Assad contro il suo stesso popolo”. I “ribelli”, nel quadretto agiografico allestito negli Studios di proprietà dell’emiro del Qatar e del monarca saudita, erano semplici “civili desiderosi di instaurare la democrazia in Siria”. Non si sa bene a quale democrazia si faccia allusione, visto che in Qatar e Arabia Saudita di democrazia non ne esiste nemmeno l’ombra.
Il Qatar è soprattutto una gigantesca base militare americana, la più grande esistente fuori dagli Stati Uniti. E inoltre, per inciso, è il regno di un piccolo satrapo di stampo feudale e teocratico. Nel suo regno non vi è alcun Parlamento, nessuna Costituzione vigente, nessun partito, tanto meno vi hanno mai avuto luogo consultazioni elettorali. Quanto ai “diritti civili e umani”, meglio lasciar perdere. Nel giugno 1995 l’attuale signorotto, Sua Maestà Hamad bin Khalifa al-Thani, ha organizzato un colpo di Stato contro il suo stesso padre. Questa la pasta dell’uomo che, per il Segretario di Stato Hillary Clinton, è reputato un “partner decisivo per gli Stati Uniti”. E infatti costui, per rendersi meritevole di cotanta fiducia, nel corso del 2011 ha inviato ben cinquemila commandos per sostenere la ribellione jihadista contro la Libia.
Le peggiori accuse nei confronti della Siria, spesso documentate come false o fabbricate ad hoc ma sistematicamente avallate da un sedicente Osservatorio siriano per i diritti umani con sede a Londra, provengono da queste emittenti satellitari per essere poi subito riprese senza verifica alcuna da network come France 24, Fox news, cnn, bbc e dai circuiti internazionali ad esse collegate.
Da consumati esperti di chirurgia estetica, essi hanno trasformato l’Esercito siriano libero (fsa) in un movimento di “resistenza democratica” di bravi e simpatici filantropi, composto da “disertori umanitari” disgustati dalle atrocità commesse dall’esercito regolare siriano (il presunto leader del fsa, Riad Mousa al-Asaad, è ospitato nella provincia turca di Hatay, in precedenza siriana, e beneficia della diretta protezione del ministero degli Affari Esteri.).
Nessuna menzione invece ai “rapimenti, alle torture, alle esecuzioni sommarie, alle mutilazioni e alle pratiche criminali commesse dai gruppi armati che si oppongono al regime siriano”, come ha dovuto ammettere anche l’organizzazione non-governativa Human Rights Watch in un suo rapporto pubblicato il 20 marzo 2012, cioè dopo più di un anno di distanza da quando i terroristi imperversano in Siria. O ancora, per rimanere sulla contabilità cimiteriale del conflitto siriano, un “libero” massacratore intervistato da Ulrike Putz per “Der Spiegel”, attribuisce alla sua brigata di beccamorti da duecento a duecentocinquanta esecuzioni, quasi il 3% del bilancio complessivo delle vittime da quando si è iniziato a “esportare la democrazia” in Siria.
Per questo è calato un silenzio tombale – o quasi – sulle dimissioni di Ali Gashem, inviato speciale di Al Jazeera in Siria, del direttore dell’ufficio di Beirut Hassan Shaaban e del produttore di rete, quest’ultimo in protesta perché l’emittente qatariota “ha totalmente ignorato il referendum tenuto in Siria per la riforma costituzionale, che ha visto alle urne il 54% degli aventi diritto e il 90% dei voti a favore del cambiamento”. Un gesto plateale per denunciare le falsificazioni, le censure e le pressioni cui erano continuamente sottoposti dalla proprietà del network per presentare la tragedia siriana secondo i suoi desiderata.
Ma non è la prima volta che questo avviene: Da Wadah Khanfar a Ghassan Bin Jiddo, da Louna Chebel a Zeina al-Jaziji e a Eman Ayad, Al Jazeera ha dovuto subire importanti defezioni che passano sotto silenzio nella stampa occidentale. Malgrado questi scandali a ripetizione, i “nostri” media continuano tuttavia a considerare Al Jazeera come una fonte d’informazione affidabile, e il suo padrone, il cacicco feudale Hamad bin Khalifa al-Thani, come un apostolo della democrazia.
Sono parimenti considerati “dettagli” su cui si può tranquillamente sorvolare ciò che nell’estate del 2011 un alto funzionario saudita ha detto a John Hannah, ex-capo assistente di Dick Cheney, che fin dall’inizio della sollevazione in Siria il re saudita ʿAbd Allah ha creduto che il cambiamento di regime sarebbe un grande beneficio per gli interessi del proprio paese: “Il re sa che, oltre al collasso vero e proprio della Repubblica Islamica, nulla indebolirebbe di più l’Iran che perdere la Siria”.
È questo oggi il Grande Gioco: lavorare allo smembramento della Siria. Ed è così che si è giocato: istituire in fretta un Consiglio nazionale siriano (cns) come “unico rappresentante del popolo siriano”, indipendentemente dal fatto che avesse delle basi reali nel paese; alimentare gli insorti armati provenienti dagli Stati limitrofi; imporre sanzioni che colpiscano i ceti medi; montare una campagna mediatica per denigrare gli sforzi siriani di riforma, cercare di fomentare divisioni all’interno dell’esercito e dell’élite e, come risultato finale, fare cadere la testa del presidente al-Assad.
Le origini di questa operazione, come si è visto, sono precedenti il cosiddetto “risveglio arabo”. Esse risalgono al fallimento di Israele nella guerra del 2006 per danneggiare seriamente Hezbollah, e alla valutazione post-conflitto degli Stati Uniti secondo cui la Siria rappresenta il tallone d’Achille di Hezbollah, ossia il punto debole nella via di collegamento tra questa e l’Iran. Funzionari statunitensi e israeliani speculavano su cosa si sarebbe potuto fare per bloccare questo corridoio vitale, ma il principe Bandar bin Sultan dell’Arabia Saudita li ha sorpresi dicendo che la soluzione era “sfruttare le forze islamiche”.
“I passi successivi – spiega il diplomatico inglese Alastair Crooke – furono coinvolgere il presidente francese Sarkozy nella squadra, l’arci-promotore del modello del Consiglio di transizione di Bengasi (cnt), che aveva trasformato la nato in uno strumento per il cambiamento di regime. Barack Obama seguì contribuendo a persuadere il primo ministro della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, già piccato verso Assad, a usare la parte del Consiglio di transizione sul confine con la Siria, e a prestare la sua legittimità alla ‘resistenza’ ”.
Sembrava quasi fatta. Mancava solo, come passo finale, una legittimazione da parte della Lega Araba, egemonizzata dagli autocrati del Qatar e dell’Arabia Saudita. Si pensava che un’ispezione di osservatori sul territorio sarebbe stata sdegnosamente rifiutata da Damasco, cosa che in effetti non avvenne. Ma una volta iniziati i suoi lavori, la Commissione ha dovuto registrare le grida di dolore dei siriani che denunciavano le atrocità dei “ribelli”, che in moltissimi casi erano composti da stranieri. Nel suo rapporto ha quindi riferito di tali atrocità delle bande armate, tenute nascoste dai media e ignorate dalle capitali occidentali e dalle retrive monarchie arabe. Risultato: la Lega Araba ha gettato via il rapporto e ha preteso le dimissioni del capo-missione, il generale sudanese Mohammed Ahmed Mustafa al-Dabi, colpevole di aver turbato la “narrativa” corrente.
Alla luce di tutto questo, come ha avuto il coraggio di ammettere pubblicamente Giuseppe Nazzaro, vicario apostolico di Aleppo, possiamo dunque arguire che l’obiettivo primario di queste sollevazioni eterodirette è stato fin dall’inizio di frantumare la società siriana, infliggere quante più perdite possibili all’esercito di Assad, dividere il paese su linee etnico-confessionali, paralizzare la produzione agricola, industriale, artigianale. Insomma, distruggere il tessuto connettivo della società siriana facendola regredire a quel pulviscolo di entità territoriali che, per usare le parole del sociologo siriano Safouh al-Akhrass, “sotto i turchi era costituita da una serie di comunità, ognuna indipendente dalle altre, legate in ordine sparso a un apparato amministrativo simile al feudalesimo europeo”.
Va infatti sottolineato, come ricorda opportunamente Bahar Kimyongür, che “per i salafiti la Siria in quanto tale non esiste. Questo nome sarebbe, come quello dell’Iraq, una fabbricazione degli atei. Nel loro gergo ispirato dal Corano, l’Iraq si chiama Bilād al-Rafidain (la terra dei due Fiumi) e la Siria, Bilād al-Shām (la terra di Cam). Colui che adotta l’ideologia nazionalista e si consacra alla liberazione del suo paese, commette per loro un peccato di associazione (shirk, politeismo, l’associare all’unico vero Dio una pletora più o meno vasta di altre divinità, ad esempio l’idea di nazione, costituisce uno dei più gravi peccati). Egli viola il principio del tawhid, l’unicità divina, e per questo merita la morte. Per tali fanatici, la sola lotta approvata da Allah è la jihad, la guerra definita ‘santa’, scatenata nel nome di Allah con l’obiettivo di estendere l’Islam. In quanto corollario del nazionalismo arabo, il panarabismo, questa idea progressista di unità e di solidarietà inter-araba, è a fortiori un sacrilegio, in quanto mina il concetto di ‘Umma’, la madre patria musulmana”.
Composti da tutte le nazionalità che popolano la regione, i movimenti jihadisti presenti in Siria ostentano un radicale antinazionalismo che non riconosce alcun limite territoriale. Dunque non possono essere associati in senso stretto a un solo paese della regione. Nelle loro fila si trovano sauditi, maghrebini, libici, giordani, libanesi, turchi, afghani, ma perfino tanti palestinesi ultraconservatori che respingono l’idea di una lotta di liberazione nazionale in Palestina. I paesi nato e gli Stati Uniti, come del resto già avvenuto in tempi recenti, completano un simpatico quadretto familiare del terrorismo contro la Siria a fianco delle monarchie del Golfo, dei mercenari libici, dei propagandisti salafiti e di al-Qaeda.
È un scenario ingarbugliato con venature surrealiste (o surreali?) che ci viene confermato, a riprova della consapevolezza nei confronti di ciò che sta accadendo, dalle personalità più disparate che abbiamo incontrato nei giorni trascorsi in Siria: dal Patriarca greco-cattolico melchita di Antiochia e di tutto l’Oriente Gregorios iii Laham, che parla esplicitamente di una “dittatura della stampa” tesa a falsificare e sovvertire completamente i fatti reali, allo sceicco Muhammad Sa’id Ramadan al-Buti, presidente del congresso islamico dei paesi dello Sham e forse il più eminente studioso vivente dell’islamismo.
Costui, facendoci l’onore di riceverci nella sala antistante la Moschea degli Omayyadi, il più grande edificio di culto a Damasco e una delle più belle moschee al mondo, di cui è anche Imam, ci ha salutato con queste parole: “Credo nella vostra fratellanza più che in quella dei nostri cugini arabi che falsificano la verità”. E stiamo parlando di un islamico sunnita di rito hanafita, i cui saggi discorsi contrastano radicalmente con gli appelli all’omicidio e all’odio degli sceicchi wahhābiti dell’Arabia Saudita, come per esempio il telepredicatore Aidh Al-Qarni, il quale dagli schermi di Al-Arabiya ha dichiarato che “ammazzare Bashar al-Assad è un dovere per ogni vero fedele!”. O ancora lo sceicco Yusuf al-Qaradawi, che lancia abitualmente dal pulpito di Al Jazzera delle fatwah che legalizzano l’assassinio di alawiti, cristiani, drusi oltreché dei sunniti favorevoli al governo siriano. Telepredicatori islamici che, incredibili a dirsi, promettono addirittura dei “passaporti per il paradiso” ai volenterosi fanatici che si immolano nella “guerra santa” contro gli infedeli.
Sulla medesima lunghezza d’onda degli incontri precedenti va senz’altro collocata anche Madre Agnès-Mariam de la Croix, di origine palestinese con cittadinanza libanese e francese, superiora del Monastero Mar Yakub (San Giacomo l’Interciso) a Qâra, ubicato a circa duecentocinquanta chilometri a Nord di Damasco e quasi al confine con il Libano, la quale mi ha raccontato dettagliatamente i risultati della sua inchiesta tesa a controllare la veridicità delle informazioni propalate quotidianamente dai media mainstream.
Madre Agnes-Mariam espone una realtà molto diversa dal quadro che, volente o nolente, si è raffigurato in Occidente sui fatti siriani. Senza interrompere la sua attività di pittrice per “guadagnarsi il pane” e fare andare avanti i lavori di sistemazione dello splendido Monastero che condivide con un’altra ventina tra suore e frati provenienti da varie parti del mondo, mi parla di “persone spacciate per morte ad uso televisivo e che morte invece non erano”, di “individui uccisi e orribilmente mutilati affinché le loro morti potessero essere attribuite alle violenze dell’esercito siriano, ma che invece erano stati assassinati dai cosiddetti ‘ribelli’ a beneficio delle troupes dei grandi network”. Parla ancora di “violenze inaudite su bambini, di stupri, di mutilazioni di seni, di uccisioni seriali di cristiani presenti nelle città teatro delle rivolte dei fanatici islamisti, di omicidi compiuti anche ai danni di sunniti che non condividevano la loro violenza belluina”. Parla di tutto ciò che ha potuto appurare in prima persona, senza frapporre tra se e i fatti alcun filtro televisivo o giornalistico, ma la sua testimonianza non viene raccolta da nessun mezzo di comunicazione, neppure da quelli cattolici. Non rientrando nei canoni del “politicamente corretto”, la sua voce fuori dal coro risulta sgradita ai corifei del Big Brother. E tutto questo, per una donna della sua tempra e della sua dirittura morale, è fonte di scoramento trovandosi al cospetto di una Chiesa che, precisa Madre Agnes-Mariam, “non ha più il coraggio di testimoniare la verità”. La sua conclusione è che stiamo vivendo in tempi Apocalittici, giudizio forse condiviso oggi da molte persone.
Un’ulteriore smentita dei cumuli di menzogne ai danni della Siria proviene anche dal Centre Français de Recherche sur le Renseignement, un gruppo d’intelligence privato allestito da vecchi dirigenti della Direction de la Surveillance du Territoire (dst), insieme al Centre International de Recherche et d’Études sur le Terrorisme & l’Aide aux Victimes du Terrorisme. Il titolo del loro rapporto: Siria, una libanizzazione artificiale, è già molto indicativo del risultato della loro ricerca. Senza risparmiare critiche al regime siriano e alla sua gestione della crisi, vi si dichiara senza tanti orpelli “la falsificazione orchestrata degli eventi, il gioco degli attori stranieri che perseguono, attraverso il loro sostegno agli oppositori, obbiettivi di politica estera che nulla hanno a che vedere con la situazione interna del Paese”. Il documento colloca la rivolta nella strategia israelo-americana in Medio Oriente, che è stata battezzata come “instabilità costruttiva”. Tale strategia, secondo gli analisti francesi, “è basata su tre principî: creare e gestire conflitti a bassa intensità, favorire lo spezzettamento politico e territoriale, promuovere il settarismo, se non addirittura la pulizia etnico-confessionale”. Insomma gli stessi principî che, come abbiamo visto in precedenza, informavano il “Piano Bernard Lewis” e le linee direttrici per Israele stilate da Oded Yinon.
Quel che si vuole distruggere, aggiunge la dottoressa Nadia Khost, siriana, autrice di molte opere sulla conservazione del patrimonio culturale della civiltà araba, è “un Paese che si distingue per un tessuto sociale dove le religioni, le confessioni e le etnie si mescolano in una unità nazionale. Un Paese che traduce le opere della letteratura mondiale, che ascolta la musica classica e la musica locale, e dove le donne partecipano alla vita produttiva e pubblica”.
Non a caso la “nuova” bandiera tricolore con tre stelle riportata in auge dal cns era quella in vigore durante l’occupazione coloniale francese della Siria, quando appunto il paese era smembrato in tre entità distinte. Proprio com’è avvenuto in Libia, con la sola differenza che in questo caso il drappo “ufficiale” risale all’epoca in cui il paese era sotto dominio anglo-americano.
“Tutto questo deve finire, e al più presto”, strepita al nostro indirizzo un taxista le cui parole sono chiaramente riconducibili al modus pensandi e forse anche operandi… del salafismo o della Fratellanza Musulmana. Nell’ascoltare il suo eloquio esagitato mentre ci conduce per le strade affollate di Damasco, un brivido corre lungo la schiena. Soprattutto per frasi che, d’un lampo, materializzano quell’oggetto impalpabile chiamato bipensiero così magistralmente descritto da George Orwell. Per lui, come del resto per tutti i fanatizzati della sua specie, “la Siria deve essere liberata dagli infedeli che la governano e diventare al più presto un paese in cui regna la Sha’ria, esattamente come nelle Teocrazie dell’Arabia Saudita e del Qatar… Al Jazeera e Al Arabiya dicono la pura verità su quello che accade in Siria, chi dice il contrario è un infedele… Israele fa il bene dei palestinesi ed è un Stato amico. Vi raccontano un sacco di bugie su Israele. Credetemi, è molto buono e ci aiuta tanto!… L’Occidente è nostro alleato nella nostra lotta di liberazione… Dovete raccontare la verità su tutte le bugie che vi dicono nei vostri paesi, cioè che Bashar al-Assad è buono e fa il bene dei suoi cittadini… È un bugiardo, il più grande bugiardo, dovete raccontarlo a tutti!…”, non sapendo forse che è da un anno che i grandi media occidentali dipingono il presidente siriano ad immagine e somiglianza di un mostro assetato di sangue. Insomma, un miscuglio di ignoranza, fanatismo e creduloneria che compendia fedelmente il tipo di ominide sul quale fanno presa i rigurgiti neofeudali che tentano di gettare nello scompiglio il paese.
Fortunatamente la Siria è composta per la maggior parte da ben altre persone, quelle per esempio che nelle elezioni del 7 maggio hanno tributato in tutto il paese una maggioranza schiacciante alla coalizione riunita intorno al partito Ba‘th, garante dell’unità e del carattere laico e a-confessionale dello status quo. Persone che magari ambiscono del tutto legittimamente a migliorare le proprie condizioni di vita e a far avanzare quelle del proprio paese, ma che hanno ben chiaro nella loro mente e nei loro cuori che quanto gli viene presentato come “alternativa” alla Siria di oggi è un futuro remoto costellato di barbarie, un salto nel buio gravido di lotte intestine, di fanatismo religioso, di guerra di tutti contro tutti, di conflitti etnici e confessionali che ci si augurava di aver definitivamente gettato nella pattumiera della Storia.
Perché l’Occidente Atlantico, a fronte di un variegato panorama di partiti di opposizione presenti in Siria, ha deciso unilateralmente che il cns sia l’“unico rappresentante del popolo siriano”? Forse perché è il solo raggruppamento, tra i tanti oppositori disponibili nel paese, che spinge per un intervento militare della nato contro la Siria? Sulla base di quale “istanza democratica” si è potuta prendere una decisione così grave da passare addirittura sopra la testa di un intero popolo? Chi autorizza queste entità (nato – petromonarchie del Golfo – Turchia – Israele) a fare sfoggio di una tale arroganza in nome della “Democrazia”? Domande talmente semplici da lasciare disarmati, ma che in ciò che resta del decadente mondo occidentale non si ha più neppure la forza di porre.
Chissà, forse nel tragico epilogo che sembrava travolgere la Siria ma da cui siamo certi possa presto riemergere con rinnovato vigore, è contenuto anche un messaggio che, sia pure in forme per il momento meno traumatiche, può servire da memento anche per il neofeudalesimo che ormai sembra lambire tutti i paesi bagnati dal Mare Nostrum. Del resto il triste destino della Libia è lì a ricordarcelo ogni giorno.
Segnalo un nuovo e pregnante articolo di Thierry Meysan sul Réseau Voltaire sulla situazione in Siria, riletta come terreno di confronto fra l'impero occidentale e una Russia sempre più spalleggiata dalla Cina. I terreni di confronto si moltiplicano: le nuvole di guerra sono ancora lontane sull'orizzonte, ma ogni anno si fanno più vicine.
http://www.voltairenet.org/Coups-de-semonce-russes