L’accordo sul clima, farsa e realtà in Libia e altre notizie interessanti
di LIMES (autori vari)
IL CLIMA DELLA COP26 [di Federico Petroni]
La conferenza dell’Onu sul clima di Glasgow si è conclusa con un accordo giudicato al ribasso.
Perché conta: Una carrellata sul significato dei principali punti emersi dalla Cop26 permette di rilevare i fattori che hanno determinato l’insuccesso.
Primo, il fatto che l’unico obiettivo numerico sia ridurre a livello globale del 45% le emissioni inquinanti entro il 2030 la dice lunga. La parola chiave è globale. I partecipanti riescono ad accordarsi solo su un traguardo che li impegna tutti, dunque non ne impegna nessuno. Non sono previsti sotto-obiettivi specifici per ciascun paese. Chi si occupa di geopolitica sa che non esiste un interesse collettivo mondiale. O meglio, esiste ma non è sufficiente a mobilitare l’azione. Il clima cambia con conseguenze diverse a latitudini diverse. Un’ovvietà, ma ancora i singoli paesi sono molto indietro nello studio di come convivere già da ora con il mondo che muta pelle. Lo testimonia la vaghezza della sezione 2 dell’accordo di Glasgow, quella sull’adattamento.
Secondo, gli impegni molto annacquati su carbone, petrolio e metano non sono dovuti solo all’impossibilità di Cina e India di rinunciarvi oppure al desiderio di non compromettere i conti pubblici dei produttori di idrocarburi (Russia, arabi del Golfo). Sulla cosiddetta transizione energetica impatta il coronavirus: prima ha inceppato le industrie di mezzo mondo, poi le ha spinte a ripartire a tutto gas per recuperare il terreno perduto e ora sta causando dissesti lungo tutte le filiere di approvvigionamento. Inoltre, le fonti alternative non sono ancora mature per i paesi più sviluppati e quelli meno sviluppati semplicemente non se le possono permettere.
Terzo, per inquinare meno bisogna riformare l’industria, cioè i metodi produttivi, cioè un aspetto molto sensibile delle varie società. Le potenze più fragili temono che i propri avversari cavalchino la retorica ambientalista per metterle in difficoltà. Per esempio, Cina e Germania sono sicure che gli Stati Uniti sfruttino l’opportunità per inceppare le rispettive manifatture. Per questo Pechino ha rifiutato il taglio del 30% delle emissioni entro il 2030 proposto dagli occidentali, spiegando che svilupperà il proprio piano. E ha proposto a Washington un tavolo bilaterale per lavorare a obiettivi concreti di riduzione delle emissioni: vuole il controllo dell’agenda. Gli americani hanno accettato perché sperano di imporre la loro. Il parziale accordo a due Cina-Usa trovato a Glasgow ci dice che la prima teme più i secondi che viceversa, anche perché giunto contemporaneamente a un appello di Xi Jinping a non innescare una “nuova guerra fredda“.
Quarto, europei e americani si sono rifiutati di pagare per i danni subiti nei paesi più arretrati dal cambiamento climatico. Al di là dell’incapacità di calcolarli, fisserebbero un precedente assai pericoloso. Non hanno nemmeno mantenuto la promessa di sei anni fa di stanziare cento miliardi di dollari per avviare la transizione energetica nei paesi meno sviluppati; figurarsi cosa ci si può attendere dall’impegno di Glasgow a raddoppiare quella cifra.
Per approfondire: Il clima del virus
FARSA E REALTÀ IN LIBIA [di Dario Fabbri]
La conferenza di Parigi sulla Libia, organizzata da Francia, Italia, Germania e snobbata da Turchia e Russia, si è conclusa con un comunicato che ribadisce la necessità di celebrare elezioni entro il 24 dicembre e invita soldati e mercenari stranieri ad abbandonare il territorio.
Perché conta: La conferenza fornisce un dato nuovo mentre palesa la dura realtà.
Anzitutto, racconta che Roma si è appiattita sulla posizione francese. Dopo aver subito il rovesciamento di Gheddafi ad opera di Parigi e averne osteggiato l’influenza incarnata dal sedicente generale Haftar, in questa fase il governo italiano prova ad avvicinarsi alla Francia per sopravvivere nell’ex quarta sponda. Tentativo che si inserisce nel più ampio trattato del Quirinale, accordo franco-italiano di imminente conclusione, pensato per premere congiuntamene sulla Germania affinché non torni all’austerity, nel quale dovrebbe rientrare anche la “comune” posizione sulla Libia, segnale di una perdurante fragilità del nostro paese su entrambi i dossier.
Quindi, il blando invito al ritiro per soldati e mercenari testimonia che a comandare sono turchi e russi, rispettivamente stanziati in Tripolitania e Cirenaica. Al di là gli degli inutili annunci riguardanti le elezioni del 24 dicembre, quasi in Libia esistesse un’opinione pubblica e governasse chi realmente domina il territorio, resta che Ankara e Mosca continueranno a disputarsi la maggiore influenza nel paese. Anche attraverso l’utilizzo di contractors. Non curanti di Francia e Italia che provano a unire le proprie debolezze.
Per approfondire: Perché all’Italia serve la Francia
AI CONFINI DELLA RUSSIA [di Mirko Mussetti]
La Federazione Russa ha eseguito vaste esercitazioni militari a ridosso del confine polacco. In particolare, lancio di paracadutisti nei pressi di Hrodna, città della Bielorussia a 20 chilometri dalla frontiera, e bombardieri strategici in volo non lontano dal Suwałki gap. Al contempo, il presidente Vladimir Putin comunica di aver bloccato il proprio ministro della Difesa Sergej Šojgu dall’organizzare esercitazioni militari non programmate nel Mar Nero.
Perché conta: L’inquilino del Cremlino cerca di correggere le fragilità strutturali della nuova cortina di ferro per imporre una netta linea rossa. La differenza fra le ampie manovre nel Baltico e la cautela pubblica nel Mar Nero rivela un atteggiamento pragmatico: prima si mette in sicurezza il settore nordico della cortina di ferro, il più vicino al cuore pulsante della Russia; poi ci si approccia al più enigmatico segmento meridionale.
Con la “battaglia dei migranti” e la sottoscrizione di 28 nuovi programmi per l’Unione statale tra Russia e Bielorussia (più nuova dottrina militare congiunta), il Cremlino ha l’occasione per spingere le proprie truppe al confine della Polonia, sancendo in via definitiva che la Russia Bianca è cosa sua. Ma soprattutto accerchia a nord la rivale Ucraina in vista di un suo futuro eventuale riassorbimento nella sfera d’influenza moscovita.
Richiamando il più potente dei propri ministri – e potenziale successore nella verticale del potere – Putin tende la mano a Washington. Il gioco manifesto del “poliziotto buono/poliziotto cattivo” serve a segnalare che gli apparati russi sono pronti a combattere e al contempo che Mosca non vuole un confronto aperto.
Se la Russia permette agli Stati Uniti di operare sotto basso profilo in un piccolo mare semichiuso – azione geostrategicamente insensata sia per il litoraneo monopolista sia per l’oceanica potenza talassocratica – è per un motivo semplice: Washington non concentrerà mai una gran quantità della propria flotta in un bacino angusto e serrabile artificiosamente, esponendo le imbarcazioni intrappolate all’irruento attacco costiero. Mosca lo sa, ma permette al rivale a stelle e strisce di rassicurare simbolicamente i membri rivieraschi della Nato. Il Cremlino è conscio altresì che gli americani non insedieranno mai ampi contingenti militari nell’Ucraina centro-orientale – piana priva di elementi orografici difensivi – in assenza del dovuto supporto navale nel Mar Nero.
La premura di evitare uno scontro diretto è manifesta anche nei pressi del valico di Suwałki. Le recenti esercitazioni russe non vanno lette come una minaccia diretta a Varsavia, bensì come un invito a Washington, ritenuto attore geopolitico razionale: il personale militare (e d’intelligence) statunitense dovrebbe abbandonare con una certa celerità la base di Orzysz nel nord-est della Polonia, presa ormai in pianta stabile tra due fuochi ravvicinati (Kaliningrad e Hrodna). Il corpo statunitense verrebbe incoraggiato a ritirarsi a ovest del fiume Vistola mediante l’impiego di cannoni a microonde – diretti non sui mezzi, ma sulle persone – senza lasciar traccia di pistole fumanti. Se Polonia e Lituania dovessero operare un blocco dei transiti logistici tra Bielorussia e l’exclave di Kaliningrad, Mosca interverrebbe militarmente. In ogni caso è bene che gli Stati Uniti siano esclusi da un coinvolgimento diretto.
Per approfondire: La crisi dei migranti tra Bielorussia e Polonia è un grande diversivo
AUSTRALIA-TAIWAN [di Federico Petroni]
«Sarebbe inconcepibile per noi non supportare gli Usa» qualora questi ultimi decidessero di intervenire a Taiwan. Parola del ministro della Difesa australiano Peter Dutton. Commento reso dopo che il segretario di Stato americano Antony Blinken ha dichiarato che Washington e i suoi alleati risponderebbero nel caso in cui la Cina usasse la forza contro Taiwan.
Perché conta: Blinken non ha chiarito in che modo reagirebbero gli Stati Uniti. L’ambiguità strategica americana è sempre meno ambigua, ma non fino al punto da far cadere il dubbio sulla protezione dell’isola. Chi invece ha fatto cadere del tutto la propria ambiguità è l’Australia. Le parole di Dutton equivalgono alla prima volta in cui il governo di Canberra chiarisce di essere disposto anche a entrare in guerra al fianco degli Stati Uniti per difendere Taiwan nel caso questa fosse la decisione di Washington. Non esattamente un dettaglio per una popolazione spaccata a metà sull’idea di fare la guerra alla Cina in caso di aggressione a Formosa. Ma perfettamente in linea con la traiettoria degli ultimi anni di Canberra, che ha gradualmente dismesso un atteggiamento passivo nei confronti di Pechino per schierarsi nettamente nel contenimento allestito dagli americani. Resta da definire l’entità del supporto agli Stati Uniti in un conflitto. Ma il dado è tratto.
Per approfondire: La straordinaria scelta dell’Australia
Commenti recenti