Antropocene
da L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Alessandra Spallarossa)
Il mondo è al tracollo? Non illudiamoci: la scienza non ci salverà
Greta Thunberg, con il suo viso pulito da bambina, ma con quei due occhi pungenti, è scesa in piazza a Glasgow e ha bollato la Cop26 come l’ennesimo bla bla bla. Ha ragione, nonostante ciò che ognuno può pensare di lei e del suo personaggio, temo siamo tutti concordi nel dire che la questione ambientale è un grosso problema, che non possiamo più nascondere sotto il tappeto. I grandi leader della Terra temporeggiano rifilando chiacchiere, Greta Thunberg e gli scienziati chiedono azioni forti, veloci, ma la verità è che salvare il pianeta richiederà un cambiamento epocale. Non saranno gli accordi sulle emissioni a salvarci.
Secondo il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen – venuto a mancare nel gennaio scorso – l’ambiente terrestre sta subendo modifiche importanti, la composizione fisica, chimica e biologica del pianeta risulta profondamente compromessa a causa dell’azione umana, e proprio dall’uomo, dal suo etimo greco, prende così il nome l’era geologica in cui viviamo oggi: Antropocene. Il dibattito tra gli esperti per indicare la precisa data di inizio dell’Antropocene è ancora aperto, ma alcuni propongono la Rivoluzione Industriale. Periodo in cui l’innovazione tecnologica e il conseguente incremento della produzione modificarono drasticamente le economie e le strutture sociali. Altri sostengono che l’Antropocene sia iniziato con la globalizzazione, che ha reso il mondo interconnesso, e con il capitalismo, oppure con l’esplosione economica dell’Asia.
Dopo la Seconda guerra mondiale la popolazione globale si aggirava intorno ai 2.5 miliardi di esseri umani, oggi siamo quasi 8 miliardi, di cui il 70% vive in metropoli. La durata e la qualità della vita hanno raggiunto livelli incredibili, specie nei paesi dell’emisfero settentrionale, ma il pianeta è al collasso; siamo insostenibili. O meglio: il nostro stile di vita, associato a questi numeri, è insostenibile. Tuttavia, la nostra insostenibilità è solo una parte della crisi ambientale e climatica, le cui radici, e quindi anche la soluzione, andrebbero ricercate nel profondo mutamento che ha subito il nostro rapporto con la natura.
Se fino all’era preindustriale l’uomo doveva affidarsi ai doni della natura per sopravvivere, con l’avvento del carbone e grazie al progresso tecnologico l’uomo si è d’un tratto scoperto onnipotente, artefice del suo stesso destino, padrone di quella stessa natura che un tempo soleva fare il bello e il cattivo tempo. Negli Emirati Arabi fanno letteralmente questo, dopo aver tirato su dal nulla città brulicanti di ricconi, fanno piovere nel deserto. Si chiama cloud seeding, in parole povere si tratta di “seminare” le nuvole, tramite droni, con delle sostanze che ne stimolano la condensazione e quindi poi le precipitazioni. È una tecnologia ormai in uso da dieci anni e consente di far fronte alla carenza di acqua per le piante, ma anche di ripulire l’aria dalla polvere.
Il cloud seeding è l’esemplificazione più estrema di ciò che l’uomo può fare con le attuali tecnologie, è lontana l’era in cui si pregavano gli dèi per avere la pioggia, l’uomo moderno non si affida più a certe usanze triviali e tribali, siamo uomini di scienza, decidiamo noi quando piove. Ma, inutile dirlo eppure lo diciamo lo stesso, anche le piogge comandate rimangono un privilegio per ricchi, ci si annaffiano i giardini di Dubai, non si usano certo per portare l’acqua potabile in Africa.
Qualcuno giocando con la parola antropocene, ha ribattezzato la nostra era capitalocene, da capitalismo. In effetti non c’è più una scienza economica che serve l’uomo, è piuttosto la nostra stessa esistenza a piegarsi per soddisfare le avide fauci del sistema economico, siamo ormai una società fondamentalmente basata sui capitali, sui profitti, sui pil; conta solo ciò che si può contare. Siamo una società fondata sui numeri, e la conseguenza è che tutto diviene infine sacrificabile in nome dei soldi: la felicità, le persone, l’ambiente, non si salva nulla. Per aumentare i profitti inquiniamo i mari, avveleniamo la terra, distruggiamo ecosistemi, dimenticando che noi stessi siamo natura. Inseguendo i numeri abbiamo smarrito la strada, e con essa ciò che ci rende umani: ovvero la consapevolezza di essere una minuscola parte di un immenso universo che esiste benissimo anche senza di noi. Abbiamo dimenticato quanto siamo insignificanti.
Come le macchine che creiamo tendiamo noi stessi all’efficienza, alla performance, e in questo delirio dell’infallibilità ci ripetiamo che abbiamo tempo, nonostante tutti gli esperti concordino nel sostenere l’esatto contrario. Il mondo brucia e la natura umana si ossida, si fa ruggine, esorcizziamo quell’unico tassello che ci rende creature viventi: la mortalità. Creiamo la vita anche quando non nasce, rinviamo la morte, e se il pianeta brucia andremo su un altro pianeta; tutto grazie alla nostra tecnologia. A che prezzo? Chi se ne importa, paghiamo qualsiasi cifra.
«La degradazione fisica del mondo naturale è anche la degradazione del mondo interiore dell’essere umano. Tagliare le foreste centenarie non significa solo distruggere l’ultimo 5% delle foreste primordiali rimaste. Significa perdere la meraviglia e la maestà, la poesia, la musica e l’esaltazione spirituale evocate da un’esperienza tanto imponente dei misteri profondi dell’esistenza. Significa perdere l’anima, più che perdere legna o denaro».
Thomas Berry, The Great Work
Nel libro The Divide, l’antropologo Jason Hickel dedica un capitolo a quello che lui chiama il ‘saccheggio del XXI secolo’: spiega come il capitalismo abbia dato vita ad un fenomeno chiamato carbon colonialism: le distese boschive assorbono grandissime quantità di anidride carbonica, quando quegli alberi vengono abbattuti ne rilasciano quantità ancora più grandi, dunque questa oscena pratica consente alle grandi potenze industriali, che hanno contributo alla deforestazione tramite un feroce sfruttamento della terra, di acquisire coattamente altri terreni, con il capzioso fine di rimediare alla devastazione ambientale che loro stessi hanno scatenato. In pratica, compensano le devastazioni ambientali comprando altri terreni vergini da tutelare. Sembra uno specchietto per le allodole, e in effetti lo è, ed è reso possibile da una strategia per la tutela dell’ambiente messa in piedi dalle Nazione Unite e la Banca mondiale nel 2005, tale strategia si chiama Redd (acronimo di Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation) e di fatto prevede una cosa tanto intelligente quanto ambigua: permette alle imprese dei paesi più ricchi di acquistare crediti di emissioni per aggirare i limiti da cui sono gravati, e utilizza il ricavato per proteggere le foreste nei paesi in via di sviluppo ed evitare che vengano abbattute a fini commerciali. Purtroppo però questo progetto sta portando molti paesi e multinazionali ad accaparrarsi enormi appezzamenti di foreste nei paesi in via di sviluppo per incassare i crediti.
Questo è il nuovo colonialismo, il colonialismo del carbonio, che in sostanza permette ai più grandi attori della distruzione ambientale di evitare di ridurre le emissioni pagando. Inoltre, fa notare Jason Hickel, sulla carta sembrerebbe che i paesi in via di sviluppo abbiano ormai superato le grandi potenze a livello di emissioni, quando in realtà ciò avviene come conseguenza della globalizzazione, che ha spinto le grandi multinazionali a spostare la produzione nei paesi in via di sviluppo, dove i costi sono più bassi, esternalizzando così la responsabilità dell’inquinamento.
La crisi ambientale è dunque, fondamentalmente, una crisi di giustizia, dove a pagare le conseguenze dei cambiamenti climatici saranno sempre le persone più povere, perché più vulnerabili. Inutile prendersela con la Cop26, o col G20, gli accordi sulle emissioni sono solo atti pubblici di lavaggio della coscienza, green washing, o forse sarebbe più corretto dire guilt washing, perché siamo tutti incapaci di accettare la verità: l’unico modo di risolvere questa crisi è sovvertire l’intera struttura sociale, partendo da un cambiamento economico radicale e proseguendo con un mutamento culturale profondo. Servirebbe un’economia non mirata ai profitti – dunque un’utopia – e una cultura meno materialista. Non basta più rispettare la natura, è necessario tornare a essere natura.
Papa Francesco, al Secondo forum delle Comunità Laudato sì, nel 2019, ha detto che non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia. Invero, il nostro rapporto con la natura, è corrotto, e senza una svolta culturale estirpare quella corruzione è impossibile. Siglando accordi ecologici tentiamo di curare la malattia agendo sui sintomi, dimenticando l’origine di questo morbo e, ahimè, lo sappiamo bene ma fatichiamo ad accettarlo, il morbo siamo noi. Papa Francesco ha saputo esprimere questo concetto con eleganza, non ha detto che siamo un cancro che sta distruggendo il pianeta, anzi, ha poi continuato invitando la comunità a riappropriarsi di quel senso di lode, di gratitudine e di rispetto per il mondo che abitiamo. Ma l’uomo oggi non è pronto ad accogliere queste consapevolezze, i sacrifici che la natura ci chiede per salvarla sembrano esorbitanti, e non conosciamo più il valore della parola “dono”, perché un uomo senza Dio non ha nessuno da pregare, come non ha nessuno da ringraziare. Continuiamo imperterriti sulla nostra rotta funesta, convinti che, se mai dovesse arrivare l’Apocalisse, la scienza ci salverà. La scienza, il nostro nuovo Dio, sterile ed efficiente.
La giornalista e attivista Naomi Klein, autrice del libro Una rivoluzione ci salverà, sostiene che la salvezza non giungerà affatto dalla scienza e invita a ripensare drasticamente la cultura capitalista, dichiarando che l’unica speranza per il futuro è da ricercarsi nel diritto all’uguaglianza e nella compassione. Per i più disillusi queste parole potrebbero assomigliare ad una favoletta per bambini, eppure, se è vero che ogni civiltà ha una ascesa, un apice e infine una caduta, e se accettiamo di non poter cambiare, allora dobbiamo anche accettare che probabilmente abbiamo raggiunto la nostra vetta umana; ad attenderci c’è dunque solo lo schianto.
«Il nostro sistema economico e il nostro sistema planetario sono oggi in conflitto. Da un lato, ciò di cui il clima ha bisogno per evitare il collasso è una contrazione del nostro modo di utilizzare le risorse; dall’altro, il nostro modello economico richiede, per evitare il collasso, una continua espansione senza vincoli. Solo uno di questi due insiemi di regole può essere cambiato, e non è quello delle leggi di natura».
FONTE: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/societa/antropocene-ambiente/
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