Il rischio crolli è anticipato dai cartelli sistemati attorno alle strutture. Ma la scritta “pericolo” è pura formalità al cospetto di quei simboli della storia mineraria, ormai più simili a edifici bombardati e che, pezzo dopo pezzo, si arrendono impotenti anche alle piogge che ultimamente cadono con abbondanza. Come nei giorni scorsi il tetto di quel che fu il laboratorio chimico di San Giovanni miniera, a Iglesias: sbriciolato sotto il peso dell’indifferenza.
RICONVERSIONE SVANITA – In Sardegna, cessata l’attività estrattiva che a lungo ha tenuto viva l’economia di territori quali, in primis, il Sulcis-Iglesiente-Guspinese, la tanto proclamata riconversione non è mai avvenuta. O è avvenuta solo in parte, cosicché un patrimonio immenso è rimasto in balìa del tempo e dei saccheggiatori. Per questo si ha l’impressione che venga strappata ogni giorno una pagina da un libro prezioso. O meglio: un’enciclopedia che racconta di storia e fatiche operaie, tecnologia e bella architettura che, comunque, emerge con prepotenza nonostante l’abbandono. Perché il patrimonio immobiliare in capo all’assessorato regionale dell’Industria, attraverso la società Igea, è uno scrigno di tesori.
IL TENTATIVO DI VENDITA – Quanto valgano è difficile dirlo: non si esprime al riguardo l’abbottonatissimo Michele Caria, amministratore unico della società mineraria. Ma per avere un’idea si può andare indietro nel tempo e arrivare al 2016 quando la Regione fece un bando per la vendita a privati di parte di quel patrimonio, suddividendolo in cinquantacinque lotti. La gara interessava, in particolare, due compendi: area Masua-Monte Agruxau (Iglesias) e Ingurtosu-Pitzinurri-Naracauli (Guspini e Arbus) per i quali prevedeva un importo a base d’asta, rispettivamente, di 32,52 milioni e 11 milioni. Le polemiche non mancarono, soprattutto per il timore di speculazioni in un territorio caratterizzato anche dalla bellezza paesaggistica e dalla vicinanza alla costa. Non se ne fece nulla, con il sollievo di molti. Ma il nulla che ne seguì è da intendersi come assoluto, giacché ancora oggi si parla di recupero e valorizzazione.
RECUPERO O DEMOLIZIONE? – Non è dato sapere se sia stata fatta una valutazione di quali siano gli immobili recuperabili e quali, invece, dovrebbero essere aiutati a venir giù completamente. Impossibile, quindi, ipotizzare l’ammontare di un eventuale investimento da fare. “È assurdo che ancora non sia stato fatto il punto sullo stato degli immobili e sugli eventuali piani di riutilizzo – dice Nino D’Orso, figlio di minatore e segretario regionale della Femca-Cisl, il sindacato della categoria chimici, minatori e tessili – Quando è possibile, evito persino di fare certe strade perché è sempre un colpo al cuore vedere lo stato degli edifici: lo considero un’offesa alla memoria di mio padre e di tutti coloro che hanno lavorato in miniera, anche perdendo la vita”.
Il sindacalista avanza una proposta: “Sediamoci di nuovo tutti attorno a un tavolo, Regione, Igea, amministrazioni locali, rappresentanti sindacali e cittadini, e facciamo in modo di portare avanti proposte serie per far sì che con i fondi del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, trovino copertura anche i progetti di valorizzazione dei compendi minerari”.
ARCHITETTURA DI PREGIO – Di valorizzazione parla Marco Piras, giovane architetto che suggerisce di verificare, in primis, l’interesse culturale in accordo con il Ministero. “Alla domanda se abbia un senso recuperare, rispondo sicuramente sì. Ma il tempo è nemico e il patrimonio vastissimo. Tutti meriterebbero di essere conservati, ma dovendo indicare una priorità, penserei subito ai beni che possiamo definire urbani, quelli inseriti in un contesto abitato e dalla forte connotazione identitaria”.
L’elenco degli immobili di pregio è lungo: dalla Villa Stefani di Normann (Gonnesa) al laboratorio chimico di San Giovanni miniera continuando con sala compressori e impianto elettrolisi di Monteponi (tutti a Iglesias), senza dimenticare le strutture del “villaggio fantasma” tra Montevecchio e Arbus. “Dal punto di vista architettonico possiamo apprezzare la cura maggiore nelle strutture di Monteponi e Montevecchio, mentre altre hanno una maggiore connotazione di carattere tecnologico industriale”.
PRIMA LE BONIFICHE – Per la valorizzazione non si può prescindere dalle bonifiche e su questo punto insiste il geologo Franco Manca il quale non si stanca di ricordare che “in tutto il territorio regionale ci sono 70 milioni di metri cubi di discariche minerarie e la parte più cospicua, circa 60 milioni, è nel Sulcis-Iglesiente-Guspinese. L’operazione di bonifica, indispensabile nell’ottica del ripristino ambientale, lo è anche se pensiamo a recupero e valorizzazione delle strutture per le quali, in passato, era stato fatto una sorta di inventario: questa dovrebbe essere la base per stabilire cosa si deve recuperare”.
I SITI META TURISTICA – Ma tra abbandono e situazioni paradossali (come il complesso turistico mai aperto a Monteponi, formato da fabbricati minerari trasformati in albergo, centro benessere e ristorante) ci sono anche esempi di avvenuta riconversione in chiave turistica e culturale. Da Porto Flavia (galleria affacciata sul mare mozzafiato di Nebida-Masua, a Iglesias) e grotta Santa Barbara (a San Giovanni miniera, nello stesso Comune) all’ex miniera Serbariu (a Carbonia) e Rosas (Narcao) o Su Zurfuru (Fluminimaggiore), senza dimenticare la Palazzina della direzione e la galleria (a Montevecchio, Guspini). O, ancora: galleria Henry (Buggerru), Sos Enattos (a Lula, nel Nuorese) e l’Argentiera, a Sassari.
Il numero sempre crescente di visitatori è un esempio eloquente di quanto interesse riscuota la storia mineraria.
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