Età, batteri e genetica: i fattori X che annullano la mortalità del Covid
di INSIDEOVER (Federico Giuliani)
Perché dall’inizio della pandemia di Covid-19 a oggi l’Europa intera ha pianto oltre 1,5 milioni di morti mentre l’Asia, con una popolazione oltre dieci volte maggiore, ne ha contati quasi 1,3 milioni e l’Africa, formata per lo più da Paesi a basso reddito e privi di sistemi sanitari adeguati, appena 234mila? Misteri della genetica, uniti a caratteristiche locali, come interventi governativi più o meno efficaci nel contenere la diffusione del virus, fattori demografici e, probabilmente, ad azioni di precedenti farmaci assunti negli anni passati. Quel che è certo – ma gli esperti lo hanno notato fin da subito – è che ciascuna persona contagiata da Sars-CoV-2 rappresenta una storia a sé.
C’è chi, dopo essere stato infettato dal virus, si ritrova a fare i conti con gravi forme del Covid, chi finisce in terapia intensiva, chi perde la vita e chi, sorprendentemente, risulta positivo ma asintomatico. E ancora: accanto a persone che si negativizzano nel giro di una settimana, troviamo individui costretti a quarantene lunghe ed estenuanti. Basta dare un’occhiata ai bollettini diramati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per rendersi conto che no, il Covid non ha creato gli stessi danni a ogni latitudine.
In Giappone, ad esempio, circa 127 milioni di abitanti con una densità di quasi 340,8 abitanti per chilometro quadrato, si contano poco meno di 18.500 vittime totali; in Nigeria, più di 210 milioni di abitanti e una densità abitativa di 226 abitanti per chilometri quadrato, sono stati registrati meno di 3.100 decessi; in Italia e Francia rispettivamente 140mila e 126mila morti. Al netto di non trascurabili errori tecnici contenuti negli stessi bollettini (pur con tutta la buona volontà del caso risulta infatti complesso mappare con esattezza tutti i contagi e i decessi dei Paesi più arretrati), è difficile affermare con certezza il motivo di simili differenze. È tuttavia possibile mettere in fila un po’ di ipotesi affidandosi alla sempre più nutrita letteratura scientifica apparsa nel corso degli ultimi due anni.
Il batterio intestinale
Uno studio realizzato da un team di ricercatori dell’Università di Nagoya, Giappone, ipotizza che l’abbondanza di un batterio intestinale negli organismi dei cittadini nipponici abbia giocato un ruolo chiave nel mantenere bassi i tassi di mortalità per Sars-CoV-2 in Asia e Nord Europa. Il paper, pubblicato sulla rivista PLOS One, suggerisce che la Collinsella, appunto un batterio intestinale, possa mitigare l’esacerbazione delle infezioni da Covid-19, e quindi ridurre i tassi di mortalità.
Gli scienziati hanno esaminato la flora intestinale di 953 soggetti sani provenienti da dieci Paesi (Corea del Sud, Giappone, Finlandia, Canada, Germania, Messico, Stati Uniti, Regno Unito, Italia e Belgio) ottenendo i dati mediante database pubblici; in un secondo momento hanno analizzato la relazione tra i loro batteri intestinali e i tassi di mortalità indotti da Covid-19 nei rispettivi Stati, arrivando a una conclusione sorprendente. Ci sarebbe una correlazione negativa tra la Collinsella e il numero di morti per Covid, e ciò potrebbe essere attribuito alla capacità dei suddetti batteri di produrre l’ursodesossicolato, che era stato scoperto per inibire il legame tra il virus e l’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (ACE2), ovvero il principale punto di ingresso nelle cellule per alcuni coronavirus. In altre parole, e in termini meno tecnici, questo batterio sarebbe capace di sopprimere il legame del coronavirus con i recettori delle cellule umane.
Lavorando con dati raccolti entro febbraio 2021, i ricercatori hanno rilevato che Corea del Sud, Giappone e Finlandia contano più persone con Collinsella, e quindi un tasso di mortalità Covid-19 inferiore che va dal 34% al 61%; al contrario, Messico, Italia, Stati Uniti, Regno Unito e Belgio, che comprendono solo dal 4% al 18% delle popolazioni con Collinsella, hanno mostrato tassi di mortalità più elevati. “Non sto dicendo che i batteri intestinali da soli possano curare il Covid-19. Lo scopo di questo studio era quello di trovare almeno un aspetto correlato al fattore X, così da studiare eventuali contromisure”, ha puntualizzato, come riportato da Japan Times, il ricercatore Masaaki Hirayama, professore associato presso la Graduate School of Medicine dell’università di Nagoya.
Alla ricerca dei Fattori X
Insomma, molti esperti ritengono che alla base di bassi tassi di mortalità per Covid-19 potrebbero esserci uno o più fattori X. Le differenze genetiche e immunologiche, così come l’assunzione del vaccino BCG nella prima infanzia per proteggersi dalla tubercolosi, sono state spesso prese in esame e citate come possibili ragioni. Gli scienziati dell’Istituto di ricerca Riken hanno invece ipotizzato che la maggior parte dei giapponesi sarebbe in possesso di una componente ereditaria del sistema immunitario che ucciderebbe più efficacemente vari coronavirus, incluso quello che causa il Covid-19.
Breve spiegazione: i nostri anticorpi naturali sono come prima linea nel difendere il nostro organismo contro gli agenti patogeni. Ma quando un virus entra nel corpo, entra in gioco anche un altro meccanismo di difesa, ovvero una forte risposta immunitaria guidata dalle cosiddette cellule T all’interno dei globuli bianchi, i quali si legano e uccidono le cellule infette. Insomma, la chiave per prevenire casi gravi diCovid-19 sono le cellule T attivate, ed è qui che entra in gioco l’antigene leucocitario umano (HLA). Questo complesso insieme di geni aiuta le cellule T a identificare le cellule infette per distruggerle; un corpo umano contiene decine di migliaia di HLA, e ogni individuo ha più tipi di HLA che sono ereditati geneticamente. Ebbene, pare che la molecola HLA-A24, che giocherebbe un ruolo chiave in quanto appena enunciato, si trovi in circa il 60% dei giapponesi ma solo nel 10-20% delle persone situate in Europa e negli Stati Uniti.
C’è, inoltre, addirittura uno studio in vitro dell’Università di Medicina della Prefettura di Kyoto che ha dimostrato come i composti nel tè verde – noti come catechine – siano stati in grado di ridurre significativamente l’infettività del coronavirus. Altri fattori da considerare quando pariamo di mortalità per Covid-19 sono l’età dei pazienti e i loro possibili problemi di salute, tra cui obesità, diabete, fumo e una storia di infezioni respiratorie. A proposito dell’età è interessante guardare quanto accaduto nell’Africa subsahariana, anche perché Roma conta 229 morti ogni 100mila abitanti, mentre l’Uganda 7 su 100mila e la Nigeria addirittura 2. Perché una simile discrepanza? Gli scienziati ritengono che la giovanissima età media della popolazione africana abbia arginato gli effetti del Covid. C’è poi un’altra possibile spiegazione: vari scienziati sostengono che i Paesi più esposti alla malaria possano aver sviluppato nei cittadini alcune forme di immunità contro Sars-CoV-2. In attesa di saperne di più, alla scienza non resta che proseguire la caccia ai fattori X.
La domanda che mi pongo è….. quale virus?
Visto che nemmeno la CDC, massimo organo sanitario degli USA, ad una richiesta di informazione su tale virus, ovvero sapere se c’è o non c’è, la risposta È STATA…
NON LO ABBIAMO MAI VISTO.
Del resto nel mare magnum interno al ns corpo, trovare una sequenza di un virus è impossibile, come è impossibile che in un anno e mezzo vi siano “trovate” ben 600000 variabili… non lo dico io, ma il dr. Scoglio e altri ricercatori che da oltre un anno ce lo segnalano.