Matteucci: «Con la pandemia hanno prodotto l’esaurimento emotivo e psicologico dei cittadini»
di DIARIO DEL WEB (Fabrizio Corgnati)
Il professor Giorgio Matteucci, docente di Filosofia, spiega al DiariodelWeb.it le tesi che stanno alla base del suo libro «Totalitarismo digitale globale»
«Rendere tutti uniformi con l’ingegneria del consenso nell’era delle dittature pandemiche». Il sottotitolo del libro «Totalitarismo digitale globale» suona come una precisa quanto inquietante dichiarazione d’intenti: quella che avrebbe ispirato, secondo l’autore, la gestione della pandemia da parte dei governi occidentali. Che, pur non avendo ottenuto grandi risultati di contenimento sotto il profilo sanitario, sembra invece riuscita alla perfezione ad imporre la famigerata «nuova normalità» che fin da subito era stata evocata e prospettata. Il DiariodelWeb.it ha intervistato l’autore, il docente di Filosofia, Psicologia e Scienze umane Giorgio Matteucci.
Professor Giorgio Matteucci, da dove nascono le ricerche che l’hanno portata a scrivere questo libro?
Tutto è cominciato nell’estate 2021, con l’inizio di quella che ho definito come una campagna di deumanizzazione nei confronti di una particolare categoria di cittadini: quelli che non si volevano vaccinare. Questo fatto mi ha messo davvero paura: nella storia abbiamo già conosciuto eventi del genere, che hanno portato inevitabilmente a genocidi. Non credo che stavolta arriveremo a tanto, ma nella coscienza della gente si è sedimentato il concetto che alcune persone possano essere privati del tutto di qualunque diritto fondamentale.
Ora diversi esponenti politici dichiarano apertamente addirittura che i non vaccinati non devono nemmeno essere curati.
Se non si può lavorare e non si può essere curati questo significa venire consegnati alla fame e alla morte. Un trattamento che non viene riservato nemmeno ai peggiori criminali. Persino a chi è in galera per omicidio vengono garantiti tre pasti al giorno e l’accesso alle cure.
Eppure è ormai dimostrato dai dati che questa nuova ondata non può essere ricondotta alle loro responsabilità.
La storia non sta in piedi dall’inizio, a mio avviso. Io sono un insegnante e per me è stato evidente da subito un elemento. Le scuole hanno chiuso prima ancora del lockdown e immediatamente si sono affidate alla piattaforma di Google Suite for Education per la didattica a distanza. In molti erano scettici sulla diffusione di questi strumenti, dati i nostri storici limiti tecnologici: invece sono stati adottati da subito. Questo mi ha insospettito.
Perché?
Perché erano già un paio d’anni, almeno, che Google stava cercando di entrare nella scuola pubblica, con modalità che a mio avviso non erano molto corrette. Nel 2019 erano state inviate a casa di ciascun alunno delle circolari ufficiali, su carta intestata della scuola, che i genitori dovevano firmare per accettare le normative sulla privacy, sulla netiquette, sugli applicativi di Google. Ma queste norme erano tutt’altro che chiare: se si andava a consultare i siti web a cui facevano riferimento, si aprivano centinaia di pagine. A cui si dava l’assenso con una semplice firma distratta.
Un po’ come quando ci iscriviamo ad un servizio online e, senza leggere nemmeno i termini e le condizioni, ci limitiamo a cliccare sul pulsante «I agree».
Esatto.
Quindi la pandemia si è trasformata in una straordinaria opportunità per le multinazionali digitali di acquisire un potere sconfinato?
La mia tesi di fondo è questa. Nel libro parto da un documento: la «Carta della Coercizione» di Biderman, uno psicologo degli anni ’50. Lui analizzò i soldati americani rientrati dalla prigionia durante la guerra in Corea, che sembravano aver subìto un vero e proprio lavaggio del cervello, in pochi mesi e senza torture fisiche. In seguito avevano cambiato la loro visione del mondo, tanto da collaborare con il regime coreano. In italiano questa carta non è stata mai tradotta, ma è riportata in alcuni documenti di Amnesty International e nel manuale Kubark della Cia per gli interrogatori. La gestione della pandemia sembra ricalcarne perfettamente i metodi.
Quindi questi due anni di paura del contagio non sarebbero altro che una prolungata tortura psicologica?
Sì. Alcuni magistrati italiani, come Giorgianni, hanno persino presentato delle accuse al riguardo alla Corte de L’Aia. Gli elementi sono innumerevoli: dalle mascherine, all’isolamento, alle chiusure a intermittenza… Che non sembrano essere serviti a molto a livello sanitario: secondo molti studi scientifici da Pubmed, confrontando i Paesi che hanno adottato misure restrittive più dure o più blande, le relative curve del contagio sono sovrapponibili. Quindi appare inquietantemente evidente che il solo scopo fosse quello di creare uno stato di esaurimento emotivo e psicologico.
Il green pass che ruolo sta giocando in questa strategia?
Per ottenere il green pass bisogna registrarsi su una piattaforma europea, che viene sbloccata con una vaccinazione. Ed è almeno dal 2016 che alcune lobby o alleanze tra varie aziende spingono per realizzare questa identità digitale, indicando proprio il vaccino come lo strumento ideale per diffonderla in tutta la popolazione mondiale. Mi riferisco all’alleanza Id2020, istituita tra la fondazione di Bill Gates, la Gavi Alliance per i vaccini, la fondazione Rockefeller… E nello stesso senso spinge anche la Id4d, del gruppo Banca mondiale, anch’essa finanziata dalla fondazione Gates.
Ma se il progetto dell’identità digitale e la paura così sostenuta rientrano in un piano, qual è il suo obiettivo finale?
A mio avviso l’obiettivo lo si può rintracciare in un documento del maggio 2019 della Commissione nazionale americana sulla sicurezza dell’intelligenza artificiale, presieduta da Eric Schmidt, ex ad di Google e tuttora il maggior azionista di Alphabet, partecipante alle riunioni Bilderberg e al forum di Davos. Questa commissione pullula di rappresentanti dei consigli di amministrazione di Microsoft, Amazon, Oracle…
Perché questo documento è così importante?
Si tratta di una visione del panorama della tecnologia cinese. Da cui emergono due preoccupazioni di fondo rispetto alle grandi aziende come Alibaba, Baidu, Huawei, Tencent, TikTok. La prima è che ricevono dal governo fondi pubblici illimitati per costruire infrastrutture di sorveglianza di massa ad alta tecnologia. La seconda è che la Cina ha una normativa sulla privacy praticamente inesistente. L’idea di fondo è che siamo all’interno di una guerra per prendere il sopravvento sulla quarta rivoluzione industriale. E i due fattori che ho appena citato sembrano favorire la Cina rispetto all’Occidente.
Quindi, per essere competitivo, anche l’Occidente ha deciso di imitare la Cina?
Fondamentalmente sì. Il punto è che l’intelligenza artificiale va vista un po’ come quella naturale. Se ho un bambino e lo chiudo in una stanza, senza fornirgli esperienze, rimarrà un po’ tonto. Se invece lo metto di fronte a tante situazioni diverse e lo metto in condizione di elaborarle, diventerà più sveglio. E il modo per fornire più dati possibile alle intelligenze artificiali è proprio quello di digitalizzare tutto: le smart city, le smart school, i sistemi bancari, la sanità, le identità personali. Sotto questo profilo, probabilmente, noi eravamo indietro, e la pandemia è servita proprio a rieducare il popolo, abituandoci ai sistemi di sorveglianza, alla scansione biometrica del volto, ai droni che volavano durante il lockdown.
Forse non è un caso che la pandemia sia partita proprio dalla Cina e che l’Italia, che è stato il primo Paese occidentale a farci i conti, sia intervenuta ispirandosi dichiaratamente proprio al modello del lockdown e alle misure restrittive cinesi.
Credo che il modello a cui si aspiri in Occidente sia qualcosa di analogo al credito sociale cinese. Che, ovviamente, può essere attuato solo con la massima digitalizzazione possibile. Non a caso, nei vari ambiti, tutti i decreti usciti negli ultimi due anni la incentivano in ogni modo.
Fonte: https://www.diariodelweb.it/opinioni/articolo/?nid=20220127-548930
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