Messaggio alla Cina: per gli Usa Taiwan non è l’Ucraina
di LIMES (Bollettino imperiale)
La presenza contemporanea a Formosa di una delegazione inviata da Biden e di una guidata da Pompeo segnala la partita politica in corso nell’America in tempesta e conferma che per Washington Taipei conta più di Kiev.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia sta rendendo in questi giorni Taiwan (il cui nome ufficiale è Repubblica di Cina) teatro di due partite geopolitiche. Senza sorprese, una attiene al duello tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese. L’altra concerne la crisi d’identità dell’impero americano, cui si lega l’accendersi dell’agone politico a stelle e strisce.
Ne è prova la quasi contemporanea visita di due delegazioni statunitensi sull’isola. La prima, guidata dall’ex capo degli Stati maggiori riuniti Michael Mullen, è stata inviata dal presidente Usa Joe Biden. La seconda invece è diretta dall’ex segretario di Stato Mike Pompeo, che potrebbe candidarsi alle elezioni presidenziali a stelle e strisce del 2024.
Il messaggio consegnato a Taipei è lo stesso: gli Usa continueranno a sostenere Taiwan anche se non sono intervenuti per impedire l’attacco della Russia all’Ucraina.
Musica per le orecchie della presidente taiwanese Tsai Ing-wen, ora che la guerra in Europa orientale alimenta il dibattito domestico sul possibile attacco cinese all’isola. Eppure la sovrapposizione delle due delegazioni è frutto di una lotta di potere interna agli Stati Uniti. La quale a sua volta è legata alle faglie geopolitiche tra coste e porzione centrale del paese, al latente malessere sociale e all’epidemia di coronavirus.
Ciò è parso evidente quando, durante una conferenza, Pompeo ha detto che gli Usa dovrebbero riconoscere subito Taiwan come Stato “libero e sovrano”. Lo scopo del politico americano era mettere in difficoltà l’amministrazione Biden. L’ex segretario di Stato sa molto bene che se Washington prendesse questo provvedimento verrebbe meno il significato della già debole convenzione diplomatica secondo cui esiste “una sola Cina“, coniata da Usa e Repubblica Popolare nel 1992 per preservare la stabilità nello Stretto di Taiwan. Per inciso, il ministero degli Esteri taiwanese ha ringraziato Pompeo ma non ha approvato esplicitamente la sua proposta poiché un simile gesto potrebbe indurre Pechino ad accelerare i piani di conquista dell’isola.
Di fatto, le visite americane confermano l’ambiguità strategica degli Usa nei confronti di Taiwan.
Washington non è formalmente alleata di Taipei, né è obbligata a intervenire militarmente in sua difesa. Tuttavia, da diversi anni la rifornisce in maniera sostanziosa di armi e ne addestra i soldati. Il tutto per consentirle di potenziare le sue capacità di guerra simmetrica e asimmetrica. E quindi di metterla nelle condizioni di difendersi da sola.
Tuttavia per Washington il valore geostrategico di Taiwan è nettamente superiore a quello dell’Ucraina. Qualora quest’ultima tornasse sotto la sfera d’influenza russa, gli assetti lungo la nuova cortina di ferro non cambierebbero. Semmai assisteremmo a un compattamento della Nato in funzione antirussa e a una crescente militarizzazione dell’Europa. Peraltro, di tale processo si avvertono i primi segnali. La Germania investirà 100 miliardi di euro nello sviluppo delle proprie Forze armate e spenderà per la difesa il 2% del proprio pil, in linea con le richieste americane.
Invece, qualora la Cina prendesse il controllo di Taiwan dominerebbe i mari cinesi, vanificherebbe il contenimento americano lungo la prima catena di isole (Giappone, Taiwan, Filippine, Malaysia e Indonesia) e quindi accederebbe liberamente all’Oceano Pacifico. Ciò le consentirebbe di compiere un significativo passo in avanti nella complessa trasformazione in potenza marittima e quindi nella competizione con gli Usa, talassocrazia per eccellenza. Il risultato sarebbe un cambiamento inedito degli equilibri mondiali. Cambiamento che Washington difficilmente permetterebbe.
Posto che prima o poi gli Usa potrebbero esser costretti a porre fine alla propria ambiguità strategica nei confronti di Taiwan, per ora un attacco immediato della Cina contro l’isola pare improbabile.
Innanzitutto, nei prossimi mesi il presidente cinese Xi Jinping cercherà di concentrarsi sulla stabilità domestica. Così da evitare che, durante il XX Congresso nazionale del Partito comunista previsto in autunno, avversari politici mettano in discussione il proseguimento della sua leadership dopo il 2022. Date le circostanze, difficilmente Pechino si lancerà in avventate operazioni militari.
Inoltre, al netto della retorica, la Repubblica Popolare non ha gradito l’intervento russo sul suolo ucraino. Pechino definisce “senza limiti” l’amicizia con Mosca e si oppone all’espansione della Nato, ma non intende difendere il Cremlino a spada tratta. Così danneggerebbe irreparabilmente gli assai complicati (e cruciali) rapporti con gli Usa e con l’Europa. Rendendo peraltro ancora più ardua la penetrazione delle nuove vie della seta nella sfera d’influenza a stelle e strisce.
Infine, non è escluso che il grave danno di immagine ed economico subìto dalla Russia a causa della guerra in Ucraina spinga Pechino a modificare la propria tattica corrente. Senza archiviare il possibile uso della forza, il governo cinese potrebbe intensificare i tentativi di unificazione “morbidi” con l’isola tramite penetrazione politica, economica e culturale.
Perché l’impatto di una conquista bellica sarebbe straordinario sul piano strategico. Ma potrebbe essere altrettanto straordinario il danno complessivo per il soft power della Repubblica Popolare.
Fonte: https://www.limesonline.com/rubrica/usa-cina-taiwan-ucraina-russia
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