Diario russo: normalizzare la tragedia
di DOPPIOZERO (Giovanni Savino)
In questa settimana di ulteriori, inutili, atrocità consumatesi al fronte, inizia ad avvertirsi la realtà delle perdite. Se il Cremlino rifugge l’idea stessa della sconfitta, orizzonte non contemplato in un’ottica da manager di call center sempre efficienti e trionfanti, arrivano notizie e immagini dei funerali dei caduti dell’operazione speciale. Militari di professione, “contrattisti”, soldati di leva, i cui corpi tornano a casa chiusi nella bara di zinco, accomunati da stringati comunicati sul proprio eroismo in battaglia, da picchetti d’onore e brevi discorsi delle autorità. Familiari, spesso donne, divaricate tra l’orgoglio ufficiale e il dolore privato di una vita senza mariti, padri, figli, fratelli. Di questi uomini restano le bandiere usate durante i funerali, le foto di servizio, e ora in alcune regioni i “banchi degli eroi”, introdotti nelle scuole come memoria dei caduti, da esempio per gli alunni.
Una iniziativa lanciata da Russia Unita, il partito di Putin, già da qualche anno, inizialmente dedicata ai combattenti della Grande guerra patriottica, poi estesa a celebrare i soldati che avevano preso parte al conflitto afgano e ora usata come ulteriore strumento di propaganda, con l’obiettivo nemmeno tanto nascosto di crescere nuove reclute per future battaglie. E forse non è un caso che i banchi con le storie dei militari caduti si trovino in gran parte nelle regioni e nelle repubbliche più depresse della Russia, dove l’arruolamento spesso è l’unico mezzo per riuscire a guadagnare cifre ben più significative dei salari offerti a chi decide di non continuare gli studi, garantendo anche una serie di benefit in futuro, come la possibilità di avere una casa, anche se si dovrà attendere qualche anno.
I dati, raccolti con grande fatica perché gli ultimi forniti dal Ministero della Difesa sono fermi ai 1351 caduti comunicati il 25 marzo, forniscono una geografia sociale atrocemente interessante delle forze armate russe, dove Mosca e San Pietroburgo scompaiono, le grandi città diminuiscono la propria dimensione, e a primeggiare in questa classifica assai tetra sono angoli remoti di Russia, con una percentuale considerevole riservata a chi proviene dalle repubbliche nazionali. Il Daghestan, dove i russi sono una piccola minoranza (il 3,6%), è in testa con 146 soldati caduti, notizie ricostruite attraverso un lavoro certosino di analisi dei media e dei siti delle amministrazioni locali, dove appaiono cronache assai stringate delle cerimonie funebri, incrociato al conteggio delle sepolture nei cimiteri dei villaggi e delle cittadine nei pressi delle basi militari. E spesso, da queste visite ai camposanti, emergono altri nomi, mai menzionati nei comunicati ufficiali, come nel caso del cimitero della città di Michajlovsk, nella regione di Stavropol’, dove è apparso un nuovo settore dedicato ai militari: in questo caso, di almeno sette soldati lì sepolti non vi è traccia sui media né nei necrologi delle autorità.
A Kopanskij, villaggio alle porte di Krasnodar che ospita una delle necropoli cittadine, vi son undici tombe di “sconosciuti”, e altre ve ne sono a Kazan’. Secondo quanto ricostruito da un pool di giornalisti di varie testate (Meduza, Kholod, BBC in lingua russa, Mediazona), vi sono 2336 caduti da parte russa al 12 maggio 2022, ma le difficoltà nell’avere un conto preciso sono enormi, e non sono una novità, nella recente storia post-sovietica: ufficialmente, in Cecenia durante le due guerre vi sarebbero stati undicimila uomini mai tornati a casa, ma questa versione è sempre stata contestata dall’Unione dei comitati delle madri dei soldati, che fornisce la cifra di più di ventimila morti.
In questa cornice la retorica bellicista, il militarismo inculcato a piè battente, le fanfare della propaganda approdate definitivamente nelle scuole e nelle università, risultano essere ancor più inquietanti. Un culto della vittoria a ogni costo, dove il sacrificio è annullato perché a morire sono i perdenti, in un’ottica trionfalistica da manager in mimetica, si coniuga alla necessità di altri uomini da mandare al fronte. La mobilitazione generale, tanto attesa e non proclamata, vorrebbe dire ammettere di non esser riusciti a piegare l’Ucraina in 72 ore, come qualche propagandista impenitente riteneva possibile, e rischierebbe di far passare la guerra da uno spettacolo orribile ma virtuale, da tifare seduti sul divano, in una realtà difficile da controllare: lo testimoniano la dozzina di uffici dei distretti militari colpiti da bottiglie Molotov negli ultimi giorni.
Le immagini dei primi processi a soldati russi accusati di crimini di guerra iniziano ad arrivare anche al pubblico russo, e a colpire sono le espressioni di uomini, in realtà ragazzi di vent’anni e poco più, spaesati, carnefici che “obbediscono agli ordini”, definizione ripetuta in ogni conflitto del XX secolo. “Ho sparato perché volevo che (i miei superiori) mi lasciassero in pace”, ha detto Vadim Šišimarin, sergente ventunenne accusato di aver ucciso il sessantaduenne Aleksandr Šelipov nella regione di Sumy, quest’ultimo colpevole solo di pedalare mentre un gruppo di soldati russi allo sbando si trovava nel suo villaggio. Secondo la ricostruzione del sergente, a insistere è stato un ufficiale di grado superiore, e per non sentirlo più ha deciso di mirare, la propria tranquillità mentale aveva la priorità rispetto a una vita qualunque.
La normalizzazione della tragedia, l’indifferenza verso la morte, i discorsi vuoti e pomposi di trionfi effimeri sono cose già viste, ma che si ripetono sempre. Un mostro sacro del rock sovietico e post, il frontman dei DDT Jurij Ševčuk, durante un concerto a Ufa ha detto ai fan “La patria, amici, non è il culo di un presidente da leccare e baciare di continuo. La patria è una misera nonnina che vende patate alla stazione. Ecco cos’è la patria.” Il cantante è stato subito raggiunto dalle forze dell’ordine e ora probabilmente verrà processato per vilipendio, come se la fedina penale contasse qualcosa per le coscienze della società. Alle parole di Ševčuk è seguita una canzone di Zemfira, leggenda della canzone russa di questi due decenni, esempio di alterità al potere nel suo essere laconica nelle dichiarazioni e terribilmente acuta nei testi. Mjaso, carne, si chiama la canzone, pubblicata su YouTube con l’accompagnamento dei disegni allucinati e al tempo stesso realistici di Renata Litvinova, attrice e partner di Zemfira.
A Mariupol’ è mezzanotte.
Gli incubi arrivano ogni notte. Aspetto la razione e mi congelo,
Duecento, vorrei abbracciarti…
Siamo arrivati, dove siamo arrivati?
Perché siamo arrivati?
Cercherò la risposta per tutto quel che resta della vita
Prega per me.
Basteranno le preghiere a far terminare l’orrore? Riempiranno queste parole il vuoto orribile di queste giornate di sangue e propaganda?
FONTE: https://www.doppiozero.com/materiali/diario-russo-normalizzare-la-tragedia
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