I russi avanzano nel Donbas, gas alla Serbia, la Cina nel Pacifico e altre notizie interessanti
di LIMES
I RUSSI AVANZANO [di Federico Petroni]
Nel Donbas, l’esercito russo ha iniziato a entrare a Severodonec’k, la cittadina assediata nell’oblast di Luhansk. Il ministro degli Esteri della Russia Sergej Lavrov definisce la conquista del Donbas «priorità assoluta». Il presidente Vladimir Putin rifiuta la proposta della Turchia di un colloquio telefonico a tre con il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj (Zelensky).
Perché conta: I segnali indicano che la Russia non è affatto pronta a trattare una tregua. Benché lenti e a costi altissimi, dal campo continuano ad arrivare progressi. Più importante di conquistare territori è fiaccare il morale ucraino. A Mosca non sono convinti di star perdendo. Ora un’iniziativa diplomatica è impossibile. Questo getta un’ombra anche sulla presunta disponibilità di Putin alla proposta italiana di riaprire i commerci dal porto di Odessa.
Kiev risponde mandando Zelensky nella liberata Kharkiv per ridare entusiasmo alle truppe al fronte in difficoltà, fra le altre cose licenziando il capo dei servizi di sicurezza locale per aver anteposto i propri interessi alla difesa della città. Le punizioni esemplari sono un classico delle autorità in guerra.
L’altra risposta ucraina per risollevare il morale è il lancio di una controffensiva attorno a Kherson, a sud, dove il contingente nemico è meno robusto, pur essendosi trincerato. Le manovre si stanno svolgendo sulla costa. Allontanare i russi dal mare potrebbe essere il preludio di operazioni per creare una bolla antinave nelle acque a sud-ovest, dove sorge Odessa.
Intanto, gli Stati Uniti stanno considerando se inviare i lanciarazzi multipli per aumentare la capacità dell’artiglieria ucraina di colpire in profondità. Anche la Polonia ha iniziato a mandare pezzi d’artiglieria. È il segno di una crescente preoccupazione sulla resistenza delle difese ucraine.
Per approfondire:Il terzo mese dell’invasione dell’Ucraina (carta)
MOSCA-BELGRADO A TUTTO GAS [di Mirko Mussetti]
Il presidente della Serbia Aleksandar Vučić ha telefonato al capo dello Stato della Federazione Russa Vladimir Putin per chiedere la proroga di tre anni al contratto per le forniture di gas naturale russo, in scadenza il 31 maggio. «C’è l’accordo» a prezzi politici vantaggiosi per Belgrado. Con Gazprom verranno ora concordate le quantità precise delle forniture russe, comunque «sicure per l’inverno» e per il «processo di industrializzazione della Serbia, che ha aumentato il fabbisogno di gas».
Perché conta: Mentre a Bruxelles si discute senza esito di embargo sul petrolio russo, le nazioni escluse dalla lista dei “paesi ostili” stilata dal Cremlino continuano a fare affari con Putin. Soprattutto nel campo degli idrocarburi e delle altre materie prime.
La leva energetica è una formidabile arma nelle mani di Mosca per cercare di scardinare la compattezza del fronte euroatlantico mostrata durante i primi tre mesi di guerra in Ucraina. L’esposizione delle cancellerie occidentali alle fonti energetiche russe varia enormemente in base alla posizione geografica e al grado di industrializzazione del paese. Putin lo sa, e tiene a ricordarlo all’Europa tutta: chi mostra amicizia (o neutralità) verso la Russia può trarre grandi vantaggi (o almeno limitare i danni).
La posizione morbida adottata da Vučić nei confronti di Mosca gli permette di accedere alle risorse energetiche necessarie per sostenere lo sviluppo della nazione più filorussa dei Balcani. Ma il gas scontato ha un costo politico. Il governo di Belgrado rischia di legarsi sempre più alle politiche assertive e non sempre prevedibili del Cremlino. Il presidente serbo, finora molto cauto sugli incidenti interetnici nella vicina Bosnia-Erzegovina, potrebbe ritrovarsi suo malgrado a dover sostenere la causa indipendentista della Repubblica Srpska – vasta entità amministrativa bosniaca abitata in prevalenza da serbi – su pressione della controparte russa.
Se Svezia e Finlandia dovessero entrare nella Nato rafforzando il fronte euroatlantico del Baltico a ridosso dei confini, la Federazione Russa potrebbe operare asimmetricamente azioni di provocazione per innescare la miccia della polveriera dei Balcani in mezzo al blocco occidentale. A quel punto la dispendiosa guerra d’Ucraina potrebbe non essere più la priorità di Washington e Bruxelles. Turchia e Croazia hanno già mangiato la foglia: non deve stupire che in questo delicato contesto siano proprio esse le nazioni più avverse all’ingresso dei due paesi scandinavi nella Nato.
Per approfondire:Rabbrividire per Kiev?
SOLDI PER LA BUNDESWEHR [di Giacomo Mariotto]
In Germania è stato raggiunto un accordo tra la coalizione al governo (SPD, FDP e Verdi) e i partiti d’opposizione CDU/CSU sull’impiego del fondo straordinario da 102 miliardi di euro per il riequipaggiamento delle Forze armate.
Perché conta:Conferma che per Berlino il riarmo è funzione di interessi tedeschi e non europei.
L’intesa è il prodotto di un intenso dibattito tra le forze politiche durato tre mesi. La prolungata contrapposizione non ha mai riguardato l’aspetto tecnico del riarmo, ma quello strategico. Decidere cosa acquistare è questione di considerevole rilevanza, ma non quanto stabilire come farlo e a nome di chi.
Al fine di rendere la prospettiva di una Zeitenwende meno temibile per i sospettosi vicini, i Verdi intendevano sciogliere le capacità di spesa garantite dal fondo in un contesto più ampio, includendo partner e alleati tra i suoi destinatari. A prevalere è stata tuttavia la posizione dei membri di CDU/CSU, determinati ad assicurare che le risorse saranno utilizzate esclusivamente per rafforzare la Bundeswehr. Qualsiasi misura addizionale dovrà essere finanziata attraverso il bilancio federale.
Allo stesso tempo, i tedeschi dimostrano maggiori incertezze riguardo al lungo termine. L’obiettivo di destinare il 2% del pil nella difesa è infatti fissato con cautela. La leader dell’SPD Saskia Esken ha dichiarato che non sarà possibile applicare sempre lo stesso criterio, giacché «bisogna aspettare tre o quattro anni per ricevere attrezzature militari di dimensioni considerevoli». Al di là dell’aspetto logistico, Berlino desidera mantenere una posizione ambigua per garantirsi un margine di manovra di fronte a future pressioni domestiche o esterne.
Per approfondire:Le missioni tedesche
LA CINA NEL PACIFICO [di Federico Petroni]
Dieci paesi dell’Oceano Pacifico si sono rifiutati di concludere un accordo con la Cina durante la visita del ministro degli Esteri Wang Yi nelle isole Figi. I governi interessati hanno chiesto di rinviare la discussione o di emendare il testo.
Perché conta: L’accordo era stato divulgato alla stampa nei giorni scorsi, accompagnato dall’accusa del governo della Micronesia, uno dei paesi a cui era stato proposto, di voler estendere «l’orbita di Pechino». La Micronesia è una sorta di protettorato degli Stati Uniti. Evidentemente le pressioni hanno dato frutti.
A preoccupare era soprattutto il riferimento del documento alla collaborazione nella sfera «tradizionale e non tradizionale della sicurezza». La paura è che la Repubblica Popolare si doti di una presenza militare negli arcipelaghi del Pacifico meridionale, specie dopo l’intesa con le Salomone e gli investimenti prospettati in un vecchio aeroporto a Kiribati.
Per la Cina è una battuta d’arresto, non una sconfitta. Il ministro Wang ha detto che i paesi partecipanti alla riunione si sono accordati per continuare a discutere su cinque «aree di cooperazione», fra cui tuttavia è stata espunta la sicurezza. Pechino ha altri modi non afferenti alla sicurezza per aumentare la propria penetrazione nel Pacifico meridionale: creazione di classi Confucio, costruzione di cavi Internet sottomarini per controllare i dati, aiuti finanziari, formazione delle classi dirigenti locali.
Se l’Australia vorrà evitare una presenza cinese nei mari di casa e se gli Stati Uniti vorranno impedire che Pechino s’installi a sud del loro avamposto di Guam, entrambe le potenze dovranno rivedere il loro approccio a queste nazioni insulari.
Per approfondire: La Cina strappa le Salomone a Usa e Australia
CINA VS. SVIZZERA [di Federico Petroni]
La stampa elvetica riferisce le lamentele di un’associazione di industriali, secondo cui il governo di Pechino fa orecchie da mercante alle richieste di Berna di aggiornare un accordo commerciale per via delle crescenti critiche svizzere sul trattamento delle minoranze in Cina.
Perché conta: La notizia fornisce tre conferme.
La prima: la Svizzera è sempre più membro omogeneo della sfera d’influenza americana. Oltre a considerare un avvicinamento alla Nato, si allinea alle critiche umanitarie che gli Stati Uniti pretendono dai loro satelliti nei confronti della Cina.
La seconda: Pechino usa la leva commerciale per fare pressione sulle preferenze dei paesi europei.
La terza: la Svizzera è paese di cultura anche tedesca e come la Germania ha una lobby industriale critica dell’indurimento del governo sulla Cina.
Per approfondire: Esiste la Svizzera tedesca?
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