Guerra e psicopolitica
di La Fionda (Federico Giovannini)
Uno dei temi più frequenti nel dibattito pubblico italiano sulla guerra in Ucraina è la salute mentale di Putin o, in alternativa, la sua bassezza morale.
Le principali testate giornalistiche italiane riferiscono come le intelligence occidentali si interroghino sulla salute mentale dell’autocrate di Mosca e di come il presidente degli USA, Joe Biden, abbia dichiarato l’indagine una priorità di spionaggio. La priorità di numerosi giornalisti sembra essere proprio raccogliere testimonianze autorevoli di esperti nostrani e non, al fine di determinare se Putin sia effettivamente “pazzo”.
Alcuni spiegano in maniera metodica il perché abbiamo “chiari segnali” per sostenere che lo stato di salute psichica di Putin sia degenerato: l’isolamento prolungato che lo ha “disconnesso dalla realtà”, i tavoli di negoziati “stranamente lunghi” (cfr. incontro con Macron), il suo aspetto fisico, ecc.
Quando non si parla della psiche di Putin, ci si sofferma sul giudizio sulla sua persona: oltre a condannare l’aggressione dello Stato russo nei confronti di quello ucraino, si indugia sulla moralità di Putin, denunciando sul piano etico individuale il capo di stato. Sia i media, sia parte della cittadinanza scelgono di discutere un fenomeno politico come la guerra in Ucraina in termini medici o morali.
Putin è un uomo che ha accentrato potere e che ha scelto di compiere un’aggressione militare: chiedersi se è pazzo o immorale è un tentativo di cercare in lui un’eccezionalità, che spieghi il suo comportamento e che ci permetta di comprendere il perché dell’invasione. Ma la ricerca dell’eccezionalità psichica o morale di Putin si basa su una premessa antipolitica, ovvero che è possibile e giusto avere un accentramento di potere responsabile. Infatti, se non pensassimo che il potere possa e debba essere responsabile, non ci daremmo da fare nel capire se chi usa il potere in maniera irresponsabile sia pazzo o cattivo. Da dove nasce questa premessa? Ed è sostenibile?
La modernità come legittimazione artificiale del potere
La credenza che l’accentramento di potere possa essere responsabile ha una storia moderna, che va compresa scavando nella relazione tra potere e pensiero politico. Per farlo, dobbiamo ritornare alle origini del pensiero moderno, nel XVI secolo.
Raffaele Laudani, professore ordinario di storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna, offre una lettura del pensiero politico moderno che permette di interpretare la teoria politica degli ultimi cinque secoli come un tentativo di giustificare e legittimare l’accentramento di potere.
La tesi è che la modernità può essere definita come l’alba della “politica come movimento”.
Fino al medioevo il potere politico aveva una giustificazione teologico-trascendentale e l’obbedienza a esso era quindi considerata naturale. Nella modernità, il potere politico perde tale giustificazione e quindi la disobbedienza acquisisce primarietà sull’obbedienza. Disobbedire è lo stato naturale delle cose e non più l’eccezione alla normalità dell’obbedienza. Inizia così il movimento della politica: la proliferazione e diffusione della disobbedienza come pratica di contestazione e destituzione del potere. Tra rivolte dei contadini nella Francia rurale e ammutinamenti pirateschi nell’Atlantico, i grandi poteri terrestri e marittimi, come quello francese e inglese, vengono sconvolti dalla marea della disobbedienza.
A incapsulare lo spirito del tempo è il pensiero di Étienne de la Boétie che, nel XVI secolo, si interroga di fronte alla repressione delle rivolte contadine e all’affermazione della monarchia assoluta, chiedendosi come sia possibile che tanti uomini, villaggi e città accettino di obbedire a un sovrano unico, il quale domina solo grazie al loro consapevole asservimento. La Boétie conclude che l’obbedienza, fino ad allora considerata naturale, è l’artificiale risultato dell’abitudine, dell’educazione e del fascino. Da questo momento in poi, non è più la disobbedienza a dover essere giustificata, ma il suo contrario. Il fardello del potere diventa quindi la giustificazione dell’obbedienza.
L’altra faccia del pensiero politico moderno diventa quindi la legittimazione artificiale del potere che deve far fronte al movimento della politica. La soluzione più affermata è quella del filosofo inglese Hobbes (1588-1679), il quale dichiara che sono la paura dello stato di natura e la voglia di proteggere la propria vita a giustificare l’obbedienza a un potere centrale. Da questa logica nasce lo Stato moderno. La teoria politica moderna è quindi un costante tentativo di gestire l’immanente possibilità di disobbedienza e resistenza al potere attraverso filosofie come quella di Hobbes, dedite a giustificare l’obbedienza.
Il potere responsabile alla fine della storia
Alla fine del secolo scorso – teatro di lotta tra le tre grandi ideologie (fascismo, comunismo e capitalismo liberaldemocratico) – la caduta dell’Unione Sovietica, nel 1991, ha decretato la vittoria definitiva del capitalismo liberaldemocratico e la fine della storia (sic!).
In linea con la tradizione moderna, ogni sistema di accentramento di potere deve giustificare l’obbedienza a sé. Con l’affermazione del capitalismo liberaldemocratico, negli anni ‘90, la classe dominante occidentale ha partorito il mito del “capitalismo dal volto umano”. In sostanza, si tratta di accettare il capitalismo come unico sistema economico possibile e desiderabile, con la garanzia che si possa domarlo e renderlo compatibile con le esigenze umane slegate dal profitto: ambiente, giustizia sociale, democrazia, diritti delle minoranze ecc. Il patto sociale si costituisce sull’obbedienza allo Stato e al capitale in cambio della promessa di umanità. L’accentramento di potere su cui si fonda lo Stato e le diseguaglianze di classe alla base del capitalismo diventano la premessa per il raggiungimento di questi obiettivi dal volto umano.
Non a caso, dagli anni ‘90 a oggi si è affermata la sfera disciplinare della corporate responsibility, che raccoglie l’insieme delle discipline professionali votate a “moderare” e gestire le aziende nel mercato capitalista al fine di bilanciare competitività ed etica.
Putin e il potere (ir)responsabile
Cosa succede quando un potente non si comporta in maniera desiderabile o in linea con le nostre aspettative?
Se la nostra premessa è che un potente può e deve essere responsabile, allora esperiamo quella che in psicologia si chiama dissonanza cognitiva. Quest’ultima è la disarmonia tra più idee o comportamenti contrastanti tra loro, che si attivano contemporaneamente rispetto a un tema. Questa contraddizione causa disagio psichico perché non permette un’elaborazione coerente della realtà.
Quando vediamo Putin, un potente, rompere le nostre aspettative sulla pace in Europa e permettere l’uccisione di civili indifesi, viviamo una dissonanza cognitiva. L’invasione dell’Ucraina rappresenta la negazione della premessa del nuovo mondo nato negli anni ’90: i potenti dovevano portare pace e umanità, e invece, Putin porta la guerra e la disumanità. La pretesa che il potere sia responsabile deve ora coesistere con l’osservazione empirica che un potente sta agendo irresponsabilmente. La soluzione psicologica diventa la seguente: se Putin non è nel pieno delle sue facoltà mentali allora è in uno stato di eccezionalità. Quindi la regola è confermata. Ne segue la corsa alla ricerca delle prove della sua follia.
Quando l’indagine collettiva sullo stato di salute mentale di Putin non è disponibile, il disagio psichico causato dalla dissonanza cognitiva viene scaricato su una punizione morale nei confronti della persona di Putin. Lo stress della contraddizione si canalizza nel giudizio etico sull’individuo. Dare del pazzo a Putin spiega il suo comportamento in contrasto con le nostre idee sul potere, chiamarlo cattivo sfoga la nostra frustrazione quando il contrasto non è spiegato.
L’oppressione del potere accentrato
L’invasione dell’Ucraina è politica e va quindi letta in tal senso. Medicalizzare o moralizzare il comportamento di Putin è antipolitico. La politica è arte e scienza del potere. Per risolvere la contraddizione tra le nostre aspettative sul potere e la realtà attorno a noi, dobbiamo ridiscutere le premesse e decostruire il mito del potere responsabile.
L’accentramento di potere è inerentemente oppressivo per due motivi: per poter essere responsabile, un potente deve essere in grado di comprendere bisogni e interessi di chi viene comandato e avere la volontà di agire nel loro soddisfacimento.
La trasparenza e il dialogo reciproco possono favorire la comprensione di tali bisogni e interessi. Per far sì che ciò avvenga però, il potente deve essere in grado di empatizzare pienamente con gli altri. Nel testo Il potere corrompe i migliori, Mikhail Bakunin (1814-1876), padre del pensiero anarchico, spiega che il potere obbliga a coltivare l’abitudine del comando e quindi a interiorizzare l’idea di essere superiori. La convinzione della propria superiorità rispetto agli altri genera una distanza con essi che con il tempo diventa disprezzo. Ma il disprezzo rende impossibile la piena empatia, quindi troviamo il primo ostacolo alla realizzazione di un potere responsabile: a chi ha potere è strutturalmente impossibile comprendere pienamente bisogni e interessi di chi lo subisce.
Supponendo per assurdo che chi ha il potere riesca a comprendere i bisogni e gli interessi di chi non lo ha, ciò non obbligherebbe il primo ad agire conseguentemente. Infatti, se il potente ha interessi e bisogni divergenti dagli altri, egli potrà imporre la propria volontà per definizione, causando quindi oppressione. A volte gli interessi possono coincidere, ma è strutturalmente impossibile che gli interessi di chi vive in una condizione sociale di superiorità siano sempre gli stessi dei subalterni. La ragione di ciò sta nel fatto che il loro accesso alla realtà sociale è configurato su basi necessariamente diverse: diverse abitudini, diversi spazi, diversi obiettivi. Questo significa che l’accentramento di potere è destinato a generare sistematicamente oppressione.
L’idea di un potere responsabile è una contraddizione che dovrebbe risultare tale da sé. La modernità, nel XVIII secolo, produsse l’idea del dispotismo illuminato, cioè una situazione di governo ideale dove il potere è nelle mani di un monarca assoluto che, coltivando la propria ragione, usa il proprio accentramento di potere per realizzare il progresso.
Oggi, per noi che siamo abituati all’idea di democrazia liberale, quel despota illuminato sembra una simpatica contraddizione di in un contesto storico dove la libertà non era ancora realizzata. Forse in futuro, quando saremo abituati ad affrontare la politica come arte e scienza del potere, l’idea di un potere responsabile sembrerà una altrettanto simpatica contraddizione di un tempo in cui la politica non era ancora realizzata.
Fonte: https://www.lafionda.org/2022/06/03/guerra-e-psicopolitica/
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