Sahel e dintorni: effetto domino?
di DIFESA ONLINE (Enrico Magnani)
La fine della missione francese ‘Barkhane’ in Mali (seguita da presso da quella della operazione multinazionale di forze speciali europea ‘Takuba’ sancita l’ultimo giorno di giugno), la appena precedente sospensione dell’EUTM (EU Training Mission) – Mali lasciano aperte molte domande sul futuro del Sahel, agguantata da una rete di problemi vecchi e nuovi, debolezze che fanno temere che tali criticità si espandano pericolosamente e rendano anche il confinante Golfo di Guinea una area ad alto rischio, e anche qui si temono i contraccolpi della lontana, ma mai cosi vicina, crisi ucraina.
Intanto, il quadro istituzionale dell’area che si estende dal Sahel al Golfo di Guinea si è fragilizzato con governi golpisti al potere in Mali, Burkina Faso, Guinea-Conakry e una situazione analoga si registra nel pilastro della presenza francese in Africa centro-occidentale, il Chad (anche se formalmente non si tratta di colpo di stato, Mahamat Idriss Deby, il figlio del vecchio presidente Idriss Deby Itno, caduto in combattimento contro gli islamisti il 20 Aprile 2021, è stato installato alla guida del paese dai vertici militari nazionali con una azione costituzionalmente dubbiosa, seguita dalla promessa del ritorno al sistema democratico dopo una transizione di tre anni). Tutti questi governi hanno promesso il ritorno alla normale dinamica democratica e istituzionale dopo essere stati regolarmente sospesi sia dall’ECOWAS sia dall’Unione Africana, come prevede la prassi in questi stati, ma la normalità non avverrà prima di due-tre anni.
Nel Golfo di Guinea, l’instabilità promana dal Sahel e aggiunge nuovi elementi di crisi a un’area che ha già seri problemi pregressi. In Guinea-Bissau, solo l’urgente invio di truppe dell’ECOWAS (Economic Community of West African States) ha verosimilmente evitato il ripetersi di un altro rovesciamento manu militari in quello che è considerato un ‘narco stato’ (scandito da 10 colpi di stato dal 1974, anno della indipendenza dal Portogallo). Il vicino Senegal continua ad essere insidiato dalla ribellione della regione del Casamanche; il Gambia è sempre presidiato dalle truppe di un’altra operazione di stabilità dell’ECOWAS, l’ECOMIG. Il Ghana è afflitto dai tentativi separatisti del Togoland (che vuole riunirsi al Togo propriamente detto); la Costa d’Avorio è alla prese con una difficile crisi politica; il Benin, influenzato dalla insurrezione islamista del sud della confinante Nigeria e una leadership ossificata.
Ma la violenza è in aumento nel Sahel; in Burkina Faso, Mali, Niger, Chad gli attacchi di gruppi armati islamisti sono un costante stillicidio con numeri pesanti di vittime civili. Nonostante gli impegni, politici, finanziari e militari della comunità internazionale, come si spiega un tale peggioramento della situazione della sicurezza nel Sahel negli ultimi dieci anni?
Diversi fattori spiegano questa crescente insicurezza nella regione. In primo luogo, c’è la artificiosità e la debolezza degli stati usciti dalla decolonizzazione degli anni ’60; tutte tematiche che in tutti in questi anni non sono state affrontate, ma che anzi sono peggiorate dagli effetti della guerra fredda, della sua fine, del necolonialismo economico e l’arrivo della globalizzazione.
A questo si aggiunge la crescita di gruppi di terroristi e gli scontri inter e intracomunitari, e l’area dei “tre confini”, che comprende le aree comuni di frontiera tra Niger, Mali e Burkina Faso, è il punto caldo di questa crisi.
Anche il completamento del ritiro delle forze internazionali dal Mali, previsto per la fine dell’estate, ha aggravato l’instabilità nella regione e da quando ne è stato dato l’annuncio, i gruppi terroristici stanno gradualmente riguadagnando terreno, imbaldaziti dalle prospettive della riduzione e scomparsa di una minaccia che, bene o male, era riuscita a ridurre raggio e impatto delle loro azioni.
Quanto alla presenza della Wagner in Mali, questa è un’altra incognita apparente, in quanto ne è chiarissimo il retroterra; secondo il discorso ufficiale di Bamako, lo scopo di costoro è quello di sostenere il governo provvisorio (golpista) che promana dalle forze armate maliane (FAMA) e di rafforzare la lotta al terrorismo.
Infine, la presenza della Russia in Mali non è estranea alla guerra dell’informazione che il paese (e l’intera regione) sta attraversando, con l’improvviso e rapido emergere di sentimenti antioccidentali.
Il Niger, l’ultimo bastione di stabilità
L’unico che appare, ancora, stabile è il Niger, ma anche esso, come tutti gli altri stati della regione, è un attore debole, dove il presidente Mohamed Bazoum (unitamente a quello della Mauritania, è l’unico regolarmente eletto della regione), deve fare fronte a una opinione pubblica, probabilmente sobillata da attori e fattori esogeni, sempre più ostile alla presenza francese e occidentale, alla minaccia crescente di gruppi terroristi e la sfida di organizzazioni criminali che operano in traffici di ogni tipo. Tutti elementi che si aggiungono a un quadro economico e sociale difficile. Al potere da poco più di un anno, il capo dello stato deve fare i conti con gli imperativi di sicurezza, gli effetti della crisi maliana e il crescente sentimento antifrancese. Se ha scelto di apparire come l’alleato degli occidentali nel Sahel, sa anche che questa scommessa è rischiosa.
Nelle ultime settimane gli attacchi dello Stato Islamico si sono intensificati lungo il confine con il Mali ma la risposta di Bamako è considerata debole da parte del Niger, mentre la pressione terrorista dal Chad riesce ad essere ancora contenuta dalle forze di N’Djamena. Intanto sono arrivati, nel quadro di un massiccio programma di armamento, i primi droni di costruzione turca (ovviamente i Bayraktar TB2), che opereranno dalla base aerea 201, costruita dagli Stati Uniti nella strategica regione di Agadez, e verranno utilizzati anche per monitorare i convogli dei trafficanti di droga, che sono parte integrante del programma di finanziamento dei jihadisti. Come gli USA, Germania Italia e Canada hanno una presenza militare in loco e concentrano i loro sforzi attorno all’addestramento delle forze armate locali. Infine, e soprattutto, la Francia sta attualmente lavorando per fare del Niger il nuovo fulcro della sua presenza nel Sahel, una volta completato il ritiro del Mali dall’operazione ‘Barkhane’ (il Niger, oltre a idrocarburi, è un produttore di uranio, necessario per le centrali nucleari dell’esagono).
Dall’annuncio della partenza della ‘Barkhane’ e ‘Takuba’ dal Mali, il presidente Bazoum ha continuato a mostrarsi favorevole a una maggiore presenza di forze francesi, europee e statunitensi sul suo territorio e ha ribadito che una delle missioni prioritarie del suo primo mandato è la riconquista dei territori passati sotto il dominio dello Stato Islamico. Dalla fine di febbraio ha avviato un programma di contatti con la leadership e la societa’ civile nigerina per invocare una maggiore collaborazione con gli occidentali e, in primis, con la Francia e ha buon gioco nel presentare il Niger come un bastione occidentale nell’area dei ‘tre confini’, essendo molto critico nei confronti di un Burkina Faso impotente e di un Mali infiltrato dalla Wagner. Da parte dell’opposizione, c’è chi non esita a qualificare il capo di stato nigerino come un vassallo dei francesi, in particolare sui social dove cresce il sentimento anti-occidentale.
Nel novembre 2021, l’episodio del controverso passaggio di un convoglio militare francese, nell’ovest del Paese – durante il quale furono uccisi tre civili – ha contribuito a rendere teso questo clima. La Francia ha finalmente accettato di risarcire le famiglie delle vittime, ma senza riconoscere alcuna colpa. Se l’atmosfera non è avvelenata come quella del Mali, del Burkina Faso o addirittura del Chad – dove l’alleanza con Parigi non è ancora messa in discussione dalle autorità ma dove recentemente si sono svolte manifestazioni antifrancesi – il Niger opera con prudenza lavorando per mantenere disinnescata la bomba del sentimento antifrancese e favorendo il dispiegamento fuori Niamey, in piccole basi e in questa ottica si spiega la contrarietà del governo locale a un aumento del personale francese intorno all’aeroporto della capitale, e si insistite sulla condivisione delle informazioni relative ai movimenti jihadisti, in quanto in gran parte dipendente dalle tecnologie francesi e americane.
(Alcuni) altri
Tra gli attori regionali, ben lontano da operare in sintonia, come dovrebbero, ve ne sono l’un contro l’altro armati, come Algeria e Marocco (sinora solo verbalmente), impegnati in una lotta senza esclusione di colpi per accrescere la loro influenza nel Sahel a discapito del’altro. In questa ottica, Algeri vuole rilanciare il progetto del gasdotto (e successivamente oleodotto, ampliabile a un asse viario e ferroviario) TSGP (Trans Sahara Gas Pipeline) che collegherà la Nigeria all’Algeria attraversando il Niger, connettendo il Golfo di Guinea al Mediterraneo. Il gasdotto, di 4.128 chilometri con una capacità annua di 30.000 milioni di metri cubi, è una impresa colossale con sfide securitarie enormi. Il TSGP consentirebbe di connettere le riserve di gas della Nigeria e del Niger al paese del Maghreb, con un collegamento diretto con l’Europa, attraverso Medgaz (Spagna), Transmed e Galsi (Italia). Algeri, inoltre ha rafforzato i legami con il Chad, sinora piuttosto deboli (Algeri e N’Djamena sono preoccupati per il clima di persistente guerra civile in Libia).
Questo gasdotto è in aperta concorrenza con un altro progetto, sostenuto da Rabat, che dovrebbe connettere la Nigeria con l’Europa ma via subacquea. Il gasdotto sarebbe un’estensione dell’esistente West African gasduct (Nigeria, Benin, Togo, Ghana). Questo gasdotto si collegherebbe con Costa d’Avorio, Liberia, Sierra Leone, Guinea, Guinea Bissau, Gambia, Senegal, Mauritania, Marocco e Spagna (Cadice). Le ultime due tappe dovrebbero connettere il nuovo progetto con l’esistente GME (Gasduct Europe Maghreb anche conosciuto come Gasdotto Enrico Mattei). Il progetto è più lungo (5560 chilometri) come tracciato del TSGP, tecnicamente più complesso (e quindi più costoso e che dovrà essere finanziato da operatori esterni) e di lontana realizzazione (2046); tuttavia Rabat spinge politicamente per avversare il progetto sostenuto da Algeri, visto che come altri mezzi di influenza nella regione ha solo la cosiddetta diplomazia religiosa, visto che il re del Marocco ha un ruolo nel mondo islamico. La Nigeria, corteggiata dai mortali rivali dell’Africa settentrionale sarebbe sicuramente quella che se ne avvantaggierebbe in misura maggiore, avendo due reti di esportazione energetica e una ridondanza che la metterebbe al riparo da crisi future.
Algeri, assai preoccupata per la stabilità che minaccia la sua fascia di sicurezza meridionale (Mauritania, Mali, Niger) vuole rilanciare il comando multinazionale CEMOC (Comité d’état-major opérationnel conjoint). Il CEMOC, istituito nel 2010, doveva essere il primo mattone di una forza di 70.000 militari, progetto mai concretizzatosi. È una cellula di stato maggiore basata a Tamanrasset (sud algerino) che punta a riempire il vacuum di sicurezza del reposizionamento francese nella regione e prenderne il posto e sostituire il G5Sahel, terremotato dal ritiro del Mali da questa organizzazione regionale istituita dalla spinta di Parigi, con una iniziativa di sicurezza senza influenze esterne.
La UE, un soft power che non riesce a diventare hard
Proprio l’UE vede con crescente preoccupazione la situazione e cerca di farvi fronte, anche se il progetto sembra avere delle debolezze intrinseche. Sotto la spinta della presidenza francese dell’UE della prima metà dell’anno, Bruxelles progetta di attivare tre nuove missioni militari in Africa dopo che la Russia ha espulso l’EUTM-CAR fuori dalla Repubblica Centrafricana e l’EUTM-Mali da Bamako e continua a minacciare di bloccarla in Burkina Faso.
L’espansione militare dell’UE in Africa, una rivoluzione copernicana dal fallimentare approccio del ‘soft power’ che Bruxelles aveva portato avanti per anni, arriva per fare fronte alla pressione russa (e quella cinese in sottofondo) nel continente. L’UE spera anche di creare una propria forza di reazione rapida entro il 2025 progettata per operare in luoghi come il Sahel ed essere pronta a combattere per difendere gli interessi europei, ha affermato l’EEAS (European External Action Service), sottolineando che i paesi dell’Unione devono accettare i rischi associati a un più stretto accompagnamento delle forze degli stati partner in operazioni di combattimento.
Le nuove missioni dovrebbero essere localizzate in Burkina Faso, in uno degli stati del Golfo di Guinea, e in Niger. Quest’ultima sembra essere la prima a concretizzarsi dopo che le autorità di Niamey hanno richiesto a Bruxelles un centro di eccellenza logistico e di manutenzione, ampliando notevolmente quella esistente e che forma le forze di polizia locali, l’EUCAP Sahel-Niger. Ma l’UE desiderebbe andare oltre questa richiesta iniziale per coprire anche un pacchetto ‘addestramento, equipaggiamento e accompagnamento’ per le forze armate locali, lasciando intravedere la prossima costtuzione di una EUTM-Niger o anche un’operazione militare su più vasta scala per accompagnare le forze armate nigerine in combattimento (una nuova EUROFOR?). Le forze armate del Burkina Faso, durante le discussioni a livello tecnico hanno chiesto a Bruxelles un pacchetto simile, ma la giunta al potere a Ouagadougou ha un’attitudine ambigua, perché a metà aprile ha inviato anche una delegazione militare di alto livello in Mali e si sospetta che essa abbia discusso dell’utilizzo della Wagner per combattere i jihadisti allo stesso modo del Mali. Ma il servizio estero dell’UE ha anche prospettato di costituire una operazione militare limitata in uno stato costiero identificato nel Golfo di Guinea (ma non reso pubblico) che ospiterebbe addestratori militari dell’UE che potrebbero svolgere missioni “su misura” nella regione. Quindi, l’ipotesi di una nuova EUMARFOR sembra ancora lontana dalla attuale presenza navale europea nell’area (non istituzionalizzata), mentre la ‘African Partnership Station’ dell’U.S. Navy lavora a pieno regime con le marine locali del Golfo di Guinea lottando contro il contrabbando, la crescente pirateria, la pesca illegale, gli attacchi alle piattaforme petrolifere, il traffico di droga.
L’UE ha chiuso la sua missione in Repubblica Centrafricana (EUTM-RCA) nel dicembre 2021 dopo i mercenari della Wagner hanno preso il comando di reparti locali addestrati dall’UE e hanno commesso atrocità contro la popolazione civile, secondo uno schema visto poi in Mali. Per le medesime ragioni, Bruxelles, ha sospeso le sue missioni di addestramento militare e civile in Mali a maggio dopo che Bamako ha contattato la Wagner che ha portato i suoi ‘contractors’ per combattere i jihadisti. Il ritiro della missione dell’UE (EUTM-Mali) doveva impedire qualsiasi rischio reputazionale dovuto al fatto che le forze di difesa maliane addestrate dall’UE cadessero sotto il controllo o si impegnassero insieme alle forze affiliate alla Russia, come era stato osservato nel centro del paese, ha detto il servizio estero dell’UE. Ma le unità della guardia nazionale, della gendarmeria nazionale e polizia nazionale, che sono state addestrate dall’EUCAP Sahel-Mali (l’altra missione dell’UE in Mali, focalizzata nella formazione delle forze di polizia e analoga alla già menzionata EUCAP Sahel-Niger) sono ora sotto la direzione del personale della Wagner e si stima che stiano terrorizzando la popolazione civile, prendendo di mira in particolare la comunità Fulani, con segnalazioni di violenze senza precedenti. I pochi addestratori militari e civili dell’UE che rimarranno in Mali lo faranno per mantenere un certo contatto con i comandi maliani e tenere d’occhio la presenza russa, oramai notevole a Sévaré, Ségou, Niono, Timbuktu e Gossi e che la base aerea 101, a Bamako, è utilizzata come hub logistico per il dispiegamento della Wagner. La presenza degli operatori della Wagner è stata accompagnata da una campagna di disinformazione che mirava a distogliere l’attenzione dalle atrocità delle forze affiliate alla Russia contro i civili e conteneva un forte messaggio ideologico panafricano, anticolonalista, antifrancese e antioccidentale.
L’ONU, e un futuro incerto
Le tensioni tra Russia e Occidente nel Sahel hanno peggiorato le prospettive del futuro della MINUSMA, una delle più grandi e pericolose operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, inviata per aiutare il Mali a resistere a un’insurrezione estremista islamica decennale e che dovrebbe rimpiazzare le forze francesi della ‘Barkhane’. Ma il contesto del paese è difficile: l’economia sta soffocando a causa delle sanzioni imposte da UE, ECOWAS e Unione Africana dopo che la giunta militare di Bamako ha posticipato ulteriormente le elezioni promesse.
Mentre il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è apparso unito sul proseguimento della MINUSMA, il dibattito è stato avvelenato sul ruolo futuro della Francia in Mali e sulla presenza degli operatori della Wagner. La missione è iniziata nel 2013, dopo che la Parigi aveva condotto un intervento militare per cacciare i ribelli estremisti che l’anno prima avevano conquistato le principali città del nord del Mali. Le forze francesi hanno salvato l’integrità del paese, ma ora il governo centrale controlla solo il 10% del nord e un quarto del centro.
La MINUSMA, conta ora circa 12.000 soldati, più circa 2.000 poliziotti e centinaia di civili di supporto. Più di 270 ‘caschi blu’ sono morti in scontri a fuoco e vittime di attentati. La Francia aveva condotto negoziati all’interno del Consiglio di Sicurezza delll’ONU sull’estensione del mandato della MINUSMA e proposto di continuare a fornire supporto aereo ai ‘caschi blu’, incaricati di rimpiazzare la ‘Barkhane’. Il capo missione, il rappresentante speciale del segretario generale dell’ONU Guterres, il diplomatico mauritano El-Ghassim Wane, aveva richiesto, vista la partenza delle forze francesi, almeno la copertura area quale moltiplicatore di forze dei ‘caschi blu’. Per evitare una spaccatura del Consiglio di Sicurezza, si è arrivati a una soluzione di compromesso, prolungando il mandato della MINUSMA, ma senza darle l’appoggio aereo francese. Questa scelta condanna la forza a una vita militarmente grama, con poche capacità di autodifesa e preannunciandone la prossima fine, visto che molte nazioni, oltre quelle occidentali e NATO che vogliono richiamare le loro forze per fare fronte alle emergenze dettate dalla crisi ucraina, non amano assistere allo stillicidio di attacchi ai loro soldati.
La risoluzione, come accennato, è compromissoria ; se ha ottenuto l’astensione russa (e cinese), faceva fronte alla durissima ostilità del Mali a vedere aerei ed elicotteri francesi volare nel suo spazio aereo; i paesi occidentali del Consiglio non hanno voluto forzare la mano con Bamako, rischiando, volendo imporre a tutti i costi l’appoggio aereo di Parigi ai ‘caschi blu’, di vedere il veto russo (magari sostenuto dalla Cina). La cosa avrebbe significato la fine, immediata, della MINUSMA e questa ipotesi avrebbe creato un grave vacuum nella sicurezza regionale con effetti nefasti sul Niger, Burkina Faso e Mauritania. In questo contesto, i membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU si sono anche duramente confrontati sulla presenza del gruppo Wagner in Mali, ma senza giungere a un punto di accordo. Il Cremlino ha sempre negato qualsiasi collegamento con l’azienda, considerata una mera società commerciale privata (sic) e il Mali continua a sfidare le Nazioni Unite impedendo una inchiesta in merito alle uccisioni indiscriminate di civili.
Il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha in programma di rivedere la MINUSMA in vista del prossimo ritiro dei contingenti europei, asiatici e sudamericani, si pensa di passare la mano all’Unione Africana e istituendo una operazione di supporto logistico operativo, come in Somalia con ATMIS (African [Union] Transition Mission in Somalia) e UNSOS (UN Support Office in Somalia).
La NATO, il nuovo stakeholder?
Ma l’ultima novità, da tempo al centro di un discreto lavorio e formalizzata nel Summit della NATO di Madrid, è la decisione di avviare prossimamente una missione di assistenza militare alla Mauritania. La Mauritania, anche essa un soggetto fragile, rischia di essere coinvolta nel girone infernale delle vicine Mali e Burkina Faso, senza contare l’essere al centro delle sirene interessate dell’Algeria e Marocco, sempre ai ferri corti per la irrisolta questione del Sahara Occidentale (ex Sahara spagnolo). Oltre a parametri economici e sociali drammatici, ha forze armate inconsistenti ed è un paese diviso tra arabi e neri, aggiungendo altre occasioni di possibili intromissioni di attori esterni interessati a sfruttare tensioni interne.
Ma il Summit della NATO è stata testimone di una improvvida dichiarazione del ministro degli esteri spagnolo Albares, il quale intervenendo a margine del vertice, ha detto che se la situazione in Mali “rappresentasse una minaccia per la nostra sicurezza, interverremo.” Un’uscita che non è stata di gradimento del governo di transizione maliano, che ha subito convocato l’ambasciatore spagnolo a Bamako per chiedergli spiegazioni. “Abbiamo convocato il 1 luglio l’ambasciatore spagnolo al ministero degli esteri per sollevare una forte protesta contro queste osservazioni”, ha indicato Abdoulaye Diop, ministro degli Affari esteri della giunta maliana che ha aggiunto: “queste osservazioni sono inaccettabili, ostili, gravi”, denunciando che “tendono a incoraggiare l’aggressione contro un paese indipendente e sovrano” e “Abbiamo chiesto una spiegazione, un chiarimento di questa posizione al governo spagnolo. Ci auguriamo che arrivi abbastanza rapidamente.” Diop ha ricordato al suo omologo spagnolo che “l’attuale situazione di insicurezza e l’espansione del terrorismo nel Sahel è legata soprattutto all’intervento della NATO in Libia, di cui stiamo ancora pagando il conseguenze”.
Più in là
Ampliando l’analisi dal Sahel alle aree circonvincine e guardando indietro alla Repubblica Centrafricana, il paese è diventato così strettamente legato alla Russia che ora insegna russo nelle sue scuole e ha offerto a Putin di inviare combattenti in Ucraina. Ma se il leader russo volesse replicare pienamente il suo successo nella Repubblica Centrafricana in Mali, potrebbe dover impegnare più risorse di quelle attuali. Gli attacchi jihadisti in Mali hanno mostrato che i circa 1.000 elementi della Wagner insieme al FAMA non sono sufficienti per ripulire e mantenere il controllo del centro del paese, ma una analisi critica lascia intendere che la Russia, se non riuscisse avere una influenza stabilizzante (per i suoi interessi) in Mali, potrebbe lasciare questo paese in uno stato di instabilità grave e di lunga durata e lasciare che i suoi effetti nefasti si proiettino sulle aree circonvicine e danneggiare gli stati prossimi all’Occidente della regione come Marocco, Senegal, Costa d’Avorio e Ghana.
Conclusioni
Il futuro del Sahel e delle regioni circonvicine, come molte parti del mondo di oggi, è a rischio. Alle vecchie fratture se ne aggiungono di sempre nuove e la consapevolezza dei rischi esistenti non significa che questi siano affrontati nella misura e maniera corretta. Come minimo una più stretta cooperazione tra UE e NATO (e tra gli stati aderenti alle due organizzazioni) è necessaria per fronteggiare la pericolosa pressione russa. Tuttavia la risposta militare diretta, assistenza e formazione si deve accompagnare a una seria nation capacity building, uscendo dalle strettoie della assistenza obbligata a governi ‘amici’ ma impresentabili e che danno in realtà spazio a malcontenti che possono essere facilmente strumentalizzati da Russia e Cina, sempre più chiaramente impegnate nell’assalto al potere mondiale.
Fonte: https://www.difesaonline.it/geopolitica/analisi/sahel-e-dintorni-effetto-domino
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