Le basi per una discussione sull’esperienza cinese
di La Fionda (Giordano Sivini)
Si esprime con chiarezza Alberto Bradanini in Cina. L’irresistibile ascesa (Sandro Teti, 2022): “L’ascesa prodigiosa della Cina costituisce a suo modo la plastica evidenza che esistono altre strade per uscire dal sottosviluppo rispetto agli inganni prospettati dall’Occidente, anche se con i limiti menzionati in tema di libertà e partecipazione. La metodica deformazione di tali scenari nasconde la cattiva coscienza di un impero – la cui nozione è inconciliabile con quella di democrazia – che aggredisce i paesi che non si piegano e che oggi non riesce a garantire sufficiente benessere, lavoro e coperture sociali nemmeno a casa propria, mentre la Cina (ancora oggi ben più povera in termini di reddito pro-capite) è in grado di assicurare alla sua sterminata popolazione prosperità e servizi pubblici superiori a molti paesi capitalisti (si pensi alla disoccupazione quasi inesistente)” (p. 128).
Ma, anche in tema di libertà e partecipazione, i limiti ai quali Bradanini si riferisce vanno letti comparativamente, ed è lo stesso Bradanini che fa la comparazione. In Cina il termine democrazia descrive la libertà d’espressione all’interno dei confini ideologici definiti dal Partito e la partecipazione dei cittadini alla vita del Paese sempre attraverso il Partito. In Occidente un sistema formale consente al popolo di scegliere i propri governanti all’interno di una cornice che impedisce la messa in discussione della gerarchia del potere e dei termini della distribuzione della ricchezza, e quando i governi sono inadempienti, incompetenti o corrotti, restano legittimi perché scelti dal popolo attraverso libere elezioni. In Cina i diritti economici, vale a dire l’aspirazione del popolo a fruire di condizioni di vita dignitose, hanno la prevalenza. In molti paesi dell’Occidente che sono formalmente democratici perché il governo è espressione di un voto popolare, la fame e la miseria endemiche sono considerate un dettaglio marginale che non suscita scandalo.
Negli anni in cui la Cina è stata bersagliata da accuse di violazioni della democrazia, l’Europa e gli Stati Uniti sono precipitati in un abisso di credibilità, “tra guerre illegittime (Iraq , Libia , Siria …), doppi standard (per l’America solo i nemici violano i diritti umani) e plateali violazioni del diritto internazionale (guerre illegali, Guantanamo, Abu Ghraib torture in prigioni segrete, extraordinary renditions, esportazione di democrazia al napalm, omicidi extragiudiziari “al drone” e così via)” (p. 131).
Sono valutazioni che riflettono l’esperienza sul campo di Bradanini, nel corso della quarantennale carriera diplomatica iniziata nel 1975, che lo ha visto consigliere commerciale a Pechino dal 1991 al 1996, console generale a Hong Kong dal 1996 al 1998, coordinatore del comitato governativo Italia-Cina dal 2004 al 2007, e ambasciatore a Pechino dal 2013 al 2015 dopo una parentesi di ambasciatore a Teheran dal 2008 al 2013. Attualmente è presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea. La sua schiettezza trae forza dall’indignazione morale per “il distacco emotivo, la fredda insensibilità della narrazione sinofobica occidentale, frutto omertoso di un sistema mediatico dominato dalla Menzogna sistemica, al quale si piegano anche partiti o aggregazioni culturali che affermano di richiamarsi alla storia del socialismo” (p. 129).
La denuncia di questa situazione è la necessaria premessa per sviluppare criticamente una interpretazione della Cina in rapporto con il resto del mondo, e da esso, allo stesso tempo, separata per realizzarsi pacificamente senza mire egemoniche. Questa sua prospettiva di crescita è consustanziale con le origini maoiste e con l’obiettivo denghiano di arrivare pragmaticamente al socialismo nella ricchezza. “Per la Repubblica Popolare la priorità è costituita dalla stabilità politica, presupposto necessario del potere della classe di Stato, costituita dal Partito, dall’amministrazione burocratica e dalle aziende pubbliche. La solidità e compattezza di tale gerarchia sono legate alla capacità di generare benessere attraverso la crescita economica, la cui precondizione internazionale è costituita dalla pace. La Cina è dunque, per ragioni strutturali secondo il lessico marxiano, una nazione pacifica” (p. 22).
Tutto in Cina è politica
L’economia cinese è un intreccio, pilotato dal Partito comunista, di capitali pubblici che rappresentano il cuore trainante della crescita del paese, capitali collettivi e capitali privati, entro un sistema reso efficiente da una competitività di mercato garantita e controllata dal governo.
“Tutto in Cina è politica, perché tutto rischia di sovvertire la politica, in un sistema dove, nonostante la forte impalcatura di controllo, la classe di Stato continua a percepire un deficit di legittimità a governare, anche se la soglia di tale percezione resta sconosciuta. Gli occhi e le orecchie del Partito sono ovunque, anche dove la politica si suppone assente, nelle associazioni di vicinato, di salute pubblica, nelle attività di quartiere, nelle comunità accademiche” (p. 265). Nel 2019 gli iscritti al Partito sfiorano i 92 milioni, cui si aggiungono 107 milioni di iscritti alla Lega della Gioventù. “Una nazione nella nazione, il Partito è sovra-ordinato rispetto a ogni altra istituzione, statale o locale, di fatto o di diritto” (p. 265). “Che sia il singolo individuo o un gruppo organizzato, per accedere al governo/Stato occorre rivolgersi al Partito” (p. 266).
Il Partito rimane per natura diffidente: stampa, sindacati, confessioni religiose, circoli intellettuali, associazioni umanitarie o di interesse locale, ogni espressione organizzata di associazionismo, a prescindere dalle finalità perseguite, viene percepita come una forza potenzialmente eversiva. Ciononostante, le segmentazioni della società acquisiscono ogni giorno maggiore autonomia, per far fronte alle urgenze mercantili che esigono oggi meno disciplina e più competenza e meritocrazia.
La forza del Partito sta nelle capacità della sua classe dirigente. I livelli amministrativi e politici non sono costituzionalmente distinti: a un certo punto della carriera i migliori amministratori transitano nella sfera politica, dopo che capacità, conoscenze e risultati, sono stati valutati e apprezzati. Gli incapaci vengono rimossi. La ferrea disciplina sulle nomine nel Partito e nella burocrazia, specie nei ranghi che gestiscono le attività economiche, assicura lealtà, obbedienza e coerente attuazione delle politiche nazionali, che rischierebbero altrimenti pericolose divergenze tra le diverse aree del Paese, anche se nel Partito e nella burocrazia, si annida troppa corruzione, che Xi Jinping, come i suoi predecessori, fatica a contrastare.
Una rivoluzione culturale della produzione e del lavoro
Bradanini osserva anche che in Cina è in corso “una rivoluzione culturale della produzione e del lavoro” (p. 77). Dopo l’industria 4.0 si punta a quella 5.0 della meccanizzazione totale e dell’iperprofessionalità, raggiungendo nel frattempo alti livelli di qualità che riducono il vantaggio che le aziende statunitensi hi-tech hanno ancora. Si produce all’interno tutto ciò che è necessario nel comparto digitale e robotico, ad eccezione dei microprocessori, ma non si riesce ad acquisire posizioni di vertice laddove si richiedono caratteristiche sistemiche d’innovazione e creatività, nonostante le rilevanti risorse pubbliche.
Bradanini non si sofferma su quali siano le prospettive aperte da questa dinamica produttiva in termini di capitale e di occupazione. Si sofferma invece su uno dei problemi cruciali del sistema economico. Milioni di lavoratori vivono condizioni di diffuso sfruttamento da parte dei capitali pubblici e privati, al di sotto di uno standard che ritiene non sarebbe difficile raggiungere, ma che è contraddittorio con la posizione del Partito, secondo il quale “i capitali di qualsiasi provenienza devono trovare un habitat accogliente e privo di criticità per sostenere il sistema produttivo” (p. 323). Viene perciò esercitato un ferreo controllo per impedire forme di associazione dei lavoratori, un diritto che la Costituzione non riconosce. La Federazione dei Sindacati di tutta la Cina, collabora con il Partito a controllare che gli oltre 300 milioni di lavoratori iscritti seguano un orientamento collaborativo produttivistico.
“Se il prodigio dell’ascesa cinese trova radici nella laboriosità e nell’ottimismo del popolo, è indubbio – nota Bradanini – che anche un sistema funzionalmente autoritario ha fatto la sua parte, rivelandosi capace di coniugare programmazione, innovazione e libertà economica vigilata, in una logica di aggregazione di talenti, lealtà, meritocrazia e risultati, sia a livello politico che nell’attuazione economica” (p. 22). Per il popolo cinese la stabilità sociale resta la massima priorità, prima ancora della ricerca del benessere che segue a ruota, e di maggiori spazi di libertà che vengono ancora dopo. Sullo sfondo “rimane per tutti insopprimibile l’aspirazione antica e insieme moderna a fruire oltre che di stabilità e benessere anche di eguaglianza e libertà, sebbene nei tempi storici che le condizioni potranno dettare” (p. 67).
Il socialismo rimodula le proprie radici senza rinnegarle
Xi Jinping elenca i numerosi deficit della Cina odierna: squilibri economici, cornice di sviluppo ancora non sostenibile, debole capacità d’innovazione scientifica, non razionale struttura industriale, modello di crescita troppo estensivo, disparità tra zone urbane e zone rurali e tra costa ed interno, divario nella distribuzione dei redditi, servizi sociali insufficienti, ineguale applicazione della legge, burocratismo, sperpero di risorse, corruzione. Ma, sulla base di un’attenta analisi delle condizioni del Paese, il Partito elabora le migliori soluzioni e appronta le risorse per la loro realizzazione, alimentando nel contempo la rappresentazione di un futuro in cui, muovendosi verso il socialismo, le difficoltà saranno superate.
Secondo Bradanini la dirigenza ripete convinta che la costruzione di una futura società socialista costituisce il traguardo finale. “I contorni di quel socialismo al quale il Partito starebbe lavorando restano in larga parte indecifrabili” (p. 272), tuttavia il marxismo-leninismo e il pensiero di Mao costituiscono le basi teoriche non discutibili per “avanzare attraverso una quotidiana invenzione della storia” (p. 276). Gli scostamenti dalla teoria sono legittimati dal passe-partout delle ‘caratteristiche cinesi’.
Nel percorso di costruzione del socialismo sotto la guida del Partito vengono distinti due periodi, quello maoista e quello successivo avviato dalle politiche denghiane di apertura e riforme. Entrambi sono essenziali per la ricerca della verità attraverso i fatti, “in un’ideale incontro tra pragmatismo classico cinese e metodo marxiano per comprendere la storia” (p. 276). In questo modo “il socialismo evolve scoprendo nuovi percorsi e attraverso questi rimodula le proprie radici senza rinnegarle” (p. 277).
D’altra parte, osserva ancora Bradanini, il salto logico rispetto alla realtà di una Cina capitalista è assai evidente, e il Partito “suggerisce di guardare ai problemi odierni senza vincoli ideologici, investendo sulla modernizzazione e le riforme, applicando le teorie marxiste guardando ai fatti (senza nietzschianamente indicare chi sarebbe deputato a giudicare su questi fatti), generando nuove pratiche e sviluppi” (p. 276). “Il pensiero cinese è di processo”, avverte Bradanini. “Dare senso al mondo non interessa la Cina, che con il mondo è alla ricerca di una linea di coerenza, al massimo” (p.14). La Cina contemporanea è erede di una civiltà “che conosce solo verità relative o provvisorie, che acquistano valore in un dato tempo e in un dato luogo, poiché la posizione di un segno e l’istante della sua comparsa sono i soli portatori di significato. Confucio è opposizione e insieme ricerca dell’armonia, conservazione dello status quo, subordinazione, ma anche ribellione: “non ingannerai il sovrano e dunque a lui, allo stesso tempo, ti opporrai” (p. 24).
Il dibattito tra progressisti e conservatori che aveva infiammato la Cina fino agli anni Novanta del secolo scorso è definitivamente archiviato, sostituito da quello tra statalisti e neoliberisti. Non poche misure neoliberiste sono state adottate dal governo cinese, e tuttavia non hanno mai intaccato il controllo da parte del Partito sull’economia e sulla società, nonostante le pressioni corporative interne e soprattutto esterne. “In Cina, per ora, il primato della sfera politica su quella economica resta indiscusso, ma il futuro è incerto”. In particolare il Partito “tenta di innalzare qualche argine di contenimento, nella convinzione che potrebbero essere proprio i nuovi ricchi cinesi – una volta radicatisi nelle viscere del potere – a spalancare le porte della Cina al capitalismo mondialista, con il quale del resto hanno da tempo imparato a condividere interessi, appetiti e stili di vita nei circoli elitari sparsi per il mondo” (p. 31).
Il coefficiente di Gini, che misura la polarizzazione dei redditi all’interno di un sistema economico, è oggi in Cina simile a quello statunitense. Nel 2020 nel paese ci sono quattro milioni e mezzo di persone con più di un milione di dollari, e 878 miliardari, tutti formalmente iscritti o comunque vicini al Partito. La classe media cinese, con un reddito tra 10 e 50 dollari al giorno, comprende tra 600 e 700 milioni di persone; di essa fa parte anche il ceto tecnocratico, che costituisce la forza trainante dello sviluppo cinese. Bradanini ricorda che, secondo Max Weber, al superamento di una certa soglia in termini di dimensioni e benessere, la classe media comincia a organizzarsi sul piano politico in funzione di una protezione piena della propria ricchezza. Ma nel caso cinese sono le fonti della ricchezza che contano, e, pur disperse tra una moltitudine di soggetti, è il Partito che le controlla.
“A dispetto delle apparenze, le grandi corporazioni pubbliche tendono ovunque a essere portatrici di visioni e interessi autonomi, che finiscono non di rado per imporsi sulle scelte dei governi nella classica logica dei favori reciproci, alla luce delle ingenti risorse economiche e finanziarie che possono essere agevolmente mobilitate dai grands commis al di fuori delle rigide regole del bilancio pubblico. Altre volte, imprese statali, Partito e settore privato si trovano a operare su sfere d’interessi sovrapposti” (…). “Quando poi sono le imprese di Stato e quelle private a competere tra loro, la libertà di mercato subisce ulteriori deroghe, a tutela dell’interesse nazionale, di norma meglio rappresentato dalle prime” (p. 76). L’attività di tutte le imprese pubbliche è per ogni evenienza supervisionata dalla Sasac, una holding i cui top manager con ampia esperienza internazionale sono scrupolosamente selezionati dal Partito.
La politica estera si muove sull’orizzonte lungo della storia
“La politica estera di Pechino – afferma Bradanini – è antiegemonica e revisionista dell’ordine internazionale, si muove sull’orizzonte lungo della storia ma rimane ancorata a un’impronta strutturalmente pacifica, pur investendo nella costruzione di una buona capacità di difesa, un ambito sul quale si trova a fare i conti con l’aggressività sistemica degli Stati Uniti. La filosofia politica d’impostazione pacifica della Cina risalta qui in tutta la sua differenza rispetto alla propensione all’uso della forza che gli americani hanno messo in luce a partire dal secondo dopoguerra. Pechino non concorda certo con le dinamiche di supremazia Usa, ma ne prende realisticamente atto in attesa di tempi migliori, investendo sull’aggregazione di nazioni alternative al sistema di coalizioni occidentali, evitando tuttavia di trasformarle in alleanze vere e proprie” (p. 60).
Tra Cina e Usa c’è un forte legame di interdipendenza. L’interscambio nel 2020 ammonta a 560 miliardi di dollari, di cui 310 di disavanzo Usa, e la Cina detiene obbligazioni statunitensi per quasi 1.100 miliardi di dollari frutto dei profitti realizzati con le esportazioni. Le imprese americane possiedono partecipazioni in oltre 70 mila imprese in Cina, con un fatturato annuo di 700 miliardi di dollari.
Di recente il governo cinese sembra aver abbassato la guardia nei confronti del capitale finanziario statunitense, il cui ingresso nel paese è stato strettamente finalizzato alla crescita dell’economia reale. Bradanini scrive che “l’acuta strategia di Pechino ha allentato alcuni vincoli sui capitali in entrata, che possono ora acquisire il controllo totale di società quotate e prima interdette” (p. 154). Se solo di questo si trattasse, non sarebbe una prospettiva di svolta, ma l’apertura riguarda i mostruosi colossi di investimento di Wall Street BlackRock e Vanguard, e i grandi istituti finanziari come Goldman Sachs, IP Morgan e altri, e qualcuno è stato anche autorizzato a lanciare fondi di investimento, in particolare fondi pensionistici, per drenare l’ingente risparmio cinese. Bradanini la definisce “una proficua diversificazione finanziaria” (p. 155), liquidando con questa inaspettata affermazione il tema cruciale della penetrazione del capitale finanziario internazionale che in Occidente strangola l’economia reale, dal quale la Cina si è difesa fin dalla crisi finanziaria del Sud Est Asiatico.
Alimentando le tensioni con la Cina gli Stati Uniti sostengono il complesso militare-industriale (che – avverte Bradanini – non riguarda solo produzione e vendita di armamenti, ma copre anche media, intrattenimento, accademia, internet e altro ancora), insieme al settore energetico, con una pressione sui prezzi per sostenere il corso del dollaro. Con la presidenza Trump le spese militari sono cresciute del 10 per cento, mentre quelle cinesi nel triennio 2018-20 si sono mantenute in linea con la crescita del PIL. Sul bilancio americano pesano per il 3,4 %, su quello cinese sono inferiori al 2, la media mondiale è del 2,6. La corrispondente spesa pro-capite della Cina è un ventiduesimo di quella americana, un nono di quella britannica e un quinto di quella del Giappone. Poiché la stampa italiana spara cifre astronomiche di spesa militare cinese, le cifre di Bradanini sono confermate dallo Stockholm International Peace Research Institute, che, aggiornate all’aprile 2021, danno Usa 3,7 e Cina 1,7.
La risposta della Cina non è militare ma soprattutto politica ed economica, con la creazione di organismi finanziari esterni al dominio Usa, accordi commerciali regionali, e relazioni bilaterali con tutti i paesi del mondo. In Africa, in Sud America e nel Mediterraneo mira a costruire una diffusa rete di cointeressenze economiche. La crisi ucraina del 2014, orchestrata da Washington in funzione antirussa, ha portato la Cina a schierarsi con la Federazione Russa, e sviluppare rapporti basati su interessi comuni derivanti dalla forte complementarità nei settori industriali, energetici, armamenti, commercio transfrontaliero. La Cina è oggi il primo partner commerciale della Russia, che a sua volta, dopo aver superato l’Arabia Saudita, è il primo esportatore di energia e di tecnologia militare verso la Repubblica Popolare.
Il Pacifico Orientale è l’area nella quale la Cina punta a consolidare la sua posizione, attenendosi ad una costante disponibilità alle intese, evitando attriti e allarmismi, “mirando a insidiare con pacifica gradualità il ruolo di regolatore esterno delle crisi (e dei destini) che Washington svolge nei cinque continenti a partire dal secondo dopoguerra” (p. 57). Nonostante qualche apprensione, prevale nell’area il convincimento che la Cina non persegua finalità egemoniche o intenti bellicosi.
“Ciononostante – scrive Bradanini – il suo appeal non alimenta sentimenti di amicizia o desideri di alleanze. La ragione risiede in una miscela di ammirazione e diffidenza. Il malcontento di alcuni è ad esempio dovuto alla scarsa disponibilità cinese a condividere i benefici della crescita (sia in termini di commercio che di investimenti) e della forza (mostrando generosità nelle dispute del Mar Cinese Meridionale). Il deficit di amicizia di cui soffre la Cina è in sostanza il destino di chi si occupa dei propri interessi senza far molto caso a quelli altrui e che Pechino farebbe bene a non sottovalutare” (p. 144).
Taiwan è per la Cina la linea rossa che nessuno deve pensare di oltrepassare. Un intervento di forza non è da escludere se frange indipendentiste di Taipei, con l’incoraggiamento americano, avanzassero una formale dichiarazione di indipendenza. Ma, “a dispetto della narrazione occidentale che attribuisce a Pechino la volontà di usare la forza – e nonostante il narcisismo di Xi Jinping che vorrebbe passare alla storia come il ri-conquistatore dell’isola – la leadership del Partito mostra per ora sufficiente sangue freddo. La Cina opera sub specie eternitatis, sa aspettare (…), quando le condizioni politiche sui due fronti lo consentiranno” (p. 123).
Per aprire qualche spiraglio ad un mondo confuso
“Tra le ragioni che impediscono alla Cina, il più grande paese comunista al mondo, di diventare il magnete ideale di partiti e movimenti che si battono per l’emancipazione, deve annoverarsi, oltre al profilo autoritario, la concezione nazionalista della sua traiettoria”. Ciononostante, auspica Bradanini, “un confronto tra l’esperienza cinese e il mondo socialista esterno alla Cina – quello dei residui paesi comunisti e quello socialista democratico occidentale – aprirebbe utili spazi di analisi e proficui scambi di esperienze. Nel vuoto di dialogo tra i governi, potrebbe così imporsi un dibattito tra società civili (siamo nel campo dell’ottimismo della speranza, beninteso), per aprire qualche spiraglio in un mondo confuso” (p. 339).
Il contributo di Bradanini, conclusa l’attività diplomatica, si sta muovendo in questa direzione, sollecitato dal rammarico “per il fatto che la Repubblica Popolare non riesca a raccogliere il plauso che meriterebbe” (p. 144), e dalla consapevolezza che nel ‘mondo confuso’ è necessaria una scelta di campo per sviluppare, con coerente approccio critico, analisi e proposte.
Fonte: https://www.lafionda.org/2022/08/22/le-basi-per-una-discussione-sullesperienza-cinese/
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