Il vertice della SCO a Samarcanda tra intese, divergenze e riflessi sull’Europa
da ANALISI DIFESA (Gianandrea Gaiani)
Chiudendo il summit a Samarcanda della Shangai Cooperation Organiization (SCO), il presidente dell’Uzbekistan, Shavkat Mirziyoyev ha sottolineato che dall’evoluzione dell’organizzazione dipende anche la garanzia della sicurezza regionale e mondiale.
Affermazione significativa se si considera che agli 8 stati membri (Russia, Cina, India, Pakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kazakhistan e Kirghizistan) che rappresentano oltre metà della popolazione e un terzo della ricchezza del mondo si è aggiunto l’Iran e presto si aggiungeranno Turchia e Bielorussia mentre tra partecipanti e osservatori si contano anche diversi stati del Medio Oriente.
Nata nel 2001 come organizzazione multinazionale per la sicurezza, la SCO sta diventando sempre di più un polo d’attrazione politico-economico alternativo alle potenze occidentali anche se gli stati che la compongono hanno al loro interno confronti e dissidi non indifferenti.
Oltre a India e Pakistan, acerrimi rivali dalla loro costituzione come stati indipendenti, non si possono dimenticare le tensioni tra Cina e India (almeno in parte in via di risoluzione sul fronte caldo dell’Himalaya) o i recenti scontri di confine tra Tagikistan e Kirghizistan.
L’eccezione della Turchia
La SCO assume quindi un valore crescente sul fronte della cooperazione geopolitica ed economica e non a caso la Turchia rivendica l’obiettivo di aderivi anche se è difficile non notare che è l’unico stato membro della NATO a partecipare al summit di Samarcanda e sarà presto l’unico a far parte di entrambe le organizzazioni.
Un “dettaglio” non irrilevante tenuto conto che Ankara non applica sanzioni alla Russia, vende (non regala) armi all’Ucraina ed entrerà in un’organizzazione per la sicurezza con Cina, Russia e Iran dopo aver acquistato batterie da difesa aerea a lungo raggio S-400 in Russia: il tutto senza che nessuno ne chieda l’uscita dalla NATO.
A conferma che più della potenza economica (il PIL turco vale un terzo di quello italiano), sovranità, politica estera, di difesa ed energetica autonome e incentrate sugli interessi nazionali dipendono soprattutto dallo spessore e dalla determinazione dei governanti.
Considerazione che trova conferma anche nel “caso” dell’Ungheria, stato membro di NATO e UE (dal peso economico, demografico e militare certo inferiore alla Turchia) il cui governo continua ad acquistare gas, petrolio e persino centrali nucleari da Mosca non applicando sanzioni ma accogliendo oltre mezzo milione di profughi ucraini senza però fornire armi a Kiev. Una manifestazione di piena sovranità nazionale che innervosisce molti in Europa e oltre Atlantico.
Un nuovo palcoscenico per il protagonismo di Ankara
Ankara del resto evidenzia l’autonomia della sua postura puntando anche sul ruolo di mediazione ricoperto nell’attuale crisi ucraina che costituisce “la risposta all’Occidente e soprattutto all’America” come ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan di rientro da Samarcanda insieme ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu (nella foto sotto).
L’ultimo successo negoziale nel conflitto rivendicato da Ankara, dopo l’accordo sul grano, è rappresentato dalla mediazione a uno scambio di 200 prigionieri di guerra, ha rivelato il presidente turco durante un’intervista all’emittente americana PBS in cui ha anche dichiarato che il presidente russo Vladimir Putin vuole porre fine al conflitto “il prima possibile”.
Erdogan ha sottolineato che si tratta di uno sviluppo importante, un passo in avanti notevole. Ho parlato a lungo con Putin e ho capito che vuole porre fine a questo conflitto il prima possibile. Ho ancora il desiderio di portare allo stesso tavolo Putin e Zelensky, ho voglia di ascoltarli entrambi. Non ci sono riuscito, ma non ho perso la speranza di riuscirci”, ha detto alla tv americana.
La posizione turca, tesa a far terminare al più presto il conflitto in Ucraina, è condivisa anche dall’India (il premier indiano, Narendra Modi, ha detto che “oggi non è il tempo di fare la guerra”) e soprattutto dalla Cina, come è emerso nel colloquio tra Vladimir Putin e Xi Jimping in cui il presidente russo ha ammesso “le preoccupazioni” cinesi pur confermando gli impegni militari assunti con “l’operazione speciale” in Ucraina.
Si rafforza la cooperazione militare russo-cinese
Divergenze enfatizzate in Occidente dove è stato rilevato che la Cina non è disposta a fornire aiuti militari a Mosca e del resto il presidente statunitense Joe Biden, in un’intervista a 60 Minutes, ha detto chiaramente che “non ci sono finora indicazioni” che la Cina abbia inviato armi o aiutato i russi in Ucraina.
Nei giorni scorsi sono stati peraltro rilevati diversi voli di cargo militari cinesi Xian Y-20 (nella foto sotto) all’aeroporto Ssheremetyevo di Mosca ma la natura dei carichi trasportati non è stata rivelata anche se non sono emerse indiscrezioni circa richieste russe a Pechino per armi o munizioni.
Anzi, meglio ricordare che la Russia continua a esportare molta tecnologia in Cina e che le forze armate di Pechino, oltre ad essere clienti di Mosca, hanno sviluppato molti sistemi d’arma, piattaforme, motori e altre componenti partendo da prodotti russi.
Dopo il summit di Samarcanda i vertici del Consiglio di sicurezza russo e del Politburo del Comitato centrale del Partito comunista cinese si sono incontrati per rafforzare la cooperazione militare e di sicurezza potenziando le esercitazioni congiunte e l’attenzione agli scenari più critici.
Il summit di Nanping, nella provincia cinese del Fujian (forse non a caso di fr8nte a Taiwan) ha visto le delegazioni guidate dal segretario del Consiglio di sicurezza russo, Nikolai Patrushev e dal Direttore dell’Ufficio della commissione centrale degli affari esteri, Yang Jiechi, concordare “un’ulteriore cooperazione tra i vertici militari” con l’obiettivo di mantenere “alto il livello di cooperazione tecnico-militare” si legge in una nota.
Il Consiglio di sicurezza russo ha definito una priorità incondizionata lo sviluppo di “un partenariato strategico con la Cina” basato “su una profonda fiducia reciproca”.
Anche tenendo conto del pieno sostegno di Mosca alla politica di “una sola Cina” con cui Pechino preme su Taiwan, appare forzato trarre dal confronto tra Putin e XI a Samarcanda la conclusione che sia in atto un progressivo isolamento di Mosca anche in Asia, tenuto conto che il dibattito sulla guerra in Ucraina tra le nazioni aderenti alla SCO va probabilmente interpretato in un’ottica pragmatica alla luce dei diversi interessi in gioco.
L’obiettivo strategico di russi e cinesi resta quello di arginare il sistema unipolare statunitense (che ha inglobato anche un’Europa incapace di assumere il ruolo di soggetto geopolitico) puntando a contrastare la penetrazione occidentale anche con rafforzate intese militari e a potenziare la cooperazione finanziaria e commerciale su modelli basati sulle valute dei paesi della SCO per rafforzare la “de-dollarizzazione” dell’economia globale.
Nuovi equilibri e interessi diversi
Ciò detto non c’è dubbio che la guerra stia determinando nuovi equilibri anche tra Russia e Cina, le principali potenze della SCO.
L’impegno bellico sta sbilanciando la Russia indebolendone impegno e attenzione in Asia Centrale (parte delle truppe schierate in Tagikistan sono state dislocate in Ucraina) anche se Putin ha confermato che in Ucraina “stiamo combattendo solo con una parte delle forze armate”.
Un contesto che sembra favorire l’apertura di nuovi focolai di tensione nell’ex URSS: dagli scontri di confine tra tagiki e kirghizi a quelli tra armeni e azeri fino alle pressioni degli ambienti nazionalisti georgiani per un’azione militare tesa a prendere il controllo dell’Ossezia del Nord protetta dai russi. Segnali inequivocabili di turbolenze che cercano di approfittare dell’impegno russo in Ucraina.
La Cina conferma la volontà di penetrare non solo economicamente ma anche politicamente e militarmente nelle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale garantendo la sicurezza da “interventi esterni” (cioè russi) del Kazakhistan, lo stato ex sovietico distintosi più di ogni altro nel mostrare freddezza per l’intervento militare russo contro Kiev al punto da non riconoscere le repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk guidate dai secessionisti ucraini.
Di fatto Pechino sostiene la Russia contro gli Stati Uniti e i loro alleati, percepiti come una minaccia anche dai cinesi, ma questo non significa che le due potenze non abbiano anche interessi divergenti che investono pure la guerra in atto in Ucraina e soprattutto il suo prolungamento con le relative conseguenze macro-economiche.
Se la guerra si protrae l’unica a uscirne sicuramente sconfitta sarà l’Europa, che a causa della crisi energetica rischia tra pochi mesi di non essere più la principale potenza economica mondiale e di vedere drammaticamente depotenziato il suo ruolo di potenza industriale.
Per i competitor che pagano tutti l’energia molto meno dell’Europa, potrebbero aprirsi spiragli importanti per acquisire nuove quote sui mercati globali ma Cina e India hanno rilevanti interscambi commerciali e investimenti in Europa e rischiano danni non irrilevanti anche tenendo conto che il tracollo economico della Ue determinerebbe con ogni probabilità una recessione mondiale che minerebbe anche la crescita dei due giganti asiatici.
Per questo Nuova Delhi e Pechino premono su Putin per fermare le ostilità, elemento che ingigantisce ulteriormente il ruolo della Turchia, anche se alle aperture di Mosca per un possibile negoziato per ora Kiev non sembra voler rispondere positivamente, puntando forse a ottenere nuovi successi militari.
Del resto il 20 settembre il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha dovuto ammettere che al momento non si vede alcuna prospettiva per risolvere politicamente e diplomaticamente la guerra.
La scommessa del Cremlino
La Russia, al contrario dei suoi partner asiatici, potrebbe avere interesse a proseguire la guerra non solo perché è consapevole che l’Europa non può sopravvivere economicamente senza le ampie forniture di gas russo ma anche perché valuta probabilmente che la crisi energetica farà traballare questo inverno molti governi europei con conseguenze che potrebbero minare la capacità e la volontà di continuare a sostenere con le armi l’Ucraina e la stabilità interna della NATO, con possibili fratture tra gli Stati Uniti e i loro alleati da questa parte dell’Atlantico.
Uno scenario anticipato da Putin il 17 giugno scorso nel discorso tenuto al Forum economico di San Pietroburgo in cui azzardò la previsione di un’Europa che aveva rinunciato alla sua sovranità mettendola nelle mani degli USA e che avrebbe subito a breve crisi energetica, economica e disordini sociali tali da far cadere élites e governi.
La valutazione strategica di Mosca sembrerebbe quindi puntare sul fatto che l’inverno accentuerà le frizioni tra Stati Uniti e alleati europei, favorite e ingigantite peraltro dalla notizia che gli USA non aumenteranno la produzione energetica per rifornire l’Europa, a corto di gas e che da fine anno rinuncerà ad acquisire petrolio russo, iniziativa che prevedibilmente farò salire alle stelle anche le quotazioni del greggio.
Sul questo fronte non mancano poi già da ora le frizioni interne all’Europa e che colpiscono in modo particolare l’Italia dopo la notizia che la Francia sospenderà le forniture elettriche alla Penisola (che coprono il 5 per cento del nostro fabbisogno), iniziativa che potrebbero presto assumere anche Svizzera e Slovenia.
La Russia sembra quindi avere tutto l’interesse a prendere tempo sui fronti ucraini e non a caso Putin a Samarcanda, dichiarando che “l’operazione militare speciale continuerà”, ha aggiunto che Mosca “non ha fretta di raggiungere i suoi obiettivi, che rimangono inalterati”.
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