Sono innumerevoli i progetti ambiziosi che si sono succeduti nel Novecento nel segno dell’organizzazione della comunità internazionale. Più le sfide politiche ed economiche da fronteggiare crescevano in ordine di grandezza, più gli Stati-nazione erano portati ad accordarsi per raggiungere obiettivi troppo difficili da perseguire da soli.
Nel novero di queste organizzazioni internazionali rientra l’Unione Europea, un club europeo eterogeneo nella fisionomia e negli interessi dei singoli Stati membri. Una costruzione che, ad oggi, è ancora disfunzionale.
Com’è noto, il processo di integrazione europea affonda le sue radici nella volontà comune di un pugno di Stati di ricucire gli strappi di due guerre devastanti e di costruire uno spazio di convivenza pacifica e cooperazione, estesa a più settori. A dar forma al sistema di interdipendenza tra Stati era la tensione funzionalista rappresentata da Jean Monnet, presidente del Commissariat du Plan de modérnisation et rééquipement dell’economia francese nei primi anni ‘50.
Dopo la stagione dell’impulso post-bellico alla costruzione dell’Europa politicamente ed economicamente unita, il consolidamento aveva iniziato a rallentare negli anni ’70. Le incertezze dovute alla fine del gold-dollar standard (1971) e alla crisi petrolifera del 1973 mostravano chiaramente che l’età dell’oro si era conclusa.
La Comunità europea provò a reagire con il piano Werner e il Sistema monetario europeo, che però andò in crisi a causa dei ripetuti attacchi speculativi e delle diverse esigenze di politica monetaria delle banche centrali nazionali.
Erano i prodromi delle modifiche sostanziali ai Trattati istitutivi delle Comunità europee nate negli anni ‘50. Con il piano Werner, tra i sei paesi fondatori della Cee si era diffusa la convinzione che l’integrazione regionale dovesse compiere il salto di qualità verso il mercato interno, senza arenarsi nell’assetto di area di libero scambio. Secondo il Libro Bianco presentato dalla Commissione della Cee nel 1985, andavano superate barriere fisiche (dogane), tecniche (normative sui prodotti in tema di sanità e sicurezza) e fiscali.
Quale idea di Europa doveva emergere dall’unificazione dei mercati? Ciò sarebbe dipeso da un’aspra dialettica tra prospettive teoriche e modelli istituzionali. Le principali scuole di pensiero che si espressero negli anni ‘80 e ‘90 sul futuro del progetto europeo furono le scuole federalista, funzionalista, neofunzionalista, e realista.
La scuola federalista premeva perché si realizzassero gli Stati Uniti d’Europa, così da prevenire qualsiasi ritorno al nazionalismo autarchico e aggressivo del primo Novecento. Nella formulazione funzionalista di Jean Monnet, bisognava confidare nella spinta all’integrazione data dalle crisi politiche ed economiche, nella possibilità di conseguire il consolidamento dell’edificio sovranazionale passando per un livello settoriale di cooperazione interstatale. Se gli Stati avessero portato a termine l’integrazione in un solo settore delle loro economie, pressioni tecniche li avrebbero indotti a proseguire il percorso con un altro settore e così via fino all’unificazione federale.
La via funzionalista sembrava aver subito una smentita con il fallimento della Comunità europea di difesa e la Comunità politica europea, ma il suo ulteriore sviluppo fu la prospettiva neofunzionalista: questa reinterpretava il traguardo della Cee come minimo comune denominatore di interessi nazionali che riuscirono a convergere su un nucleo di regole condivise. L’azione comune delle élite costituite da comitati transnazionali, autorità politiche e lobby economiche doveva dar luogo a un’osmosi culturale tale da generare un senso di appartenenza a una comunità simil-nazionale.
Gli eventi andarono in un’altra direzione. Negli anni ’70 prevalse l’allarme della recessione economica e sembrava che oltre lo stadio dell’integrazione economica il club europeo non fosse destinato a progredire. Alcuni schemi istituzionali furono ideati non tanto per razionalizzare lo stato dell’arte dell’unificazione europea, quanto, almeno in apparenza, per giustificare l’autoesclusione di alcuni Stati da certe politiche comuni: Europa “a geometrie variabili”, Europa “a cerchi concentrici”, Europa “a due o più velocità”. In realtà, non sfuggiva agli osservatori internazionali che la prospettiva statocentrica continuava a imporsi sulle altre.
Non erano le organizzazioni internazionali a garantire il mantenimento della pace e della sicurezza globale durante la “guerra fredda”, bensì le condizioni materiali di un ordine bipolare fondato sull’equilibrio del terrore tra entità statuali. Allo stesso modo erano gli Stati a decidere il destino dei popoli e, solo se maggiore integrazione economica avesse consentito ai singoli paesi di massimizzare i propri interessi, allora il progetto europeo avrebbe fatto passi in avanti.
Nella versione di Alan Milward, le Comunità europee costituivano i “cerchi concentrici” che, a seconda delle esigenze dei paesi membri, risolvevano il dilemma tra interdipendenza e integrazione. Si era formato, insomma, un fronte di “euroscettici” ed “eurocritici”, uniti nella convinzione che gli accordi europei vecchi e nuovi non facessero altro che delimitare il terreno di confronto tra Stati aventi interessi nazionali incompatibili e che non esistesse che una debole volontà di cooperazione sovranazionale.
D’altronde, il “fronte critico” aveva ben in mente che “fare la moneta senza prima aver fatto lo Stato europeo” fosse una scelta sciagurata e controproducente. All’Europa, unita economicamente, mancava un’anima.
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Questo articolo è il primo episodio della “Guida rapida all’Europa di Maastricht” a cura di Kritica Economica.
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