Van Gogh e il collasso climatico. Un secondo contributo
di La Fionda (Davide Sali)
Ho letto con molto interesse l’articolo del collega Cossu che commenta l’azione delle attiviste di Just Stop Oil. Nonostante l’analisi sull’arte e il dio-Mercato sia in più punti profonda e intelligente temo però che abbia un grosso limite: non si applica al caso delle attiviste. Cercherò dunque di spiegare in cosa, secondo me, è consistita quell’azione di protesta in opposizione con quanto scritto nell’articolo di Cossu, ma senza polemica inutile e con la speranza di dare un contributo sincero al dibattito.
L’autore dell’articolo casca pienamente nella trappola mediatica con cui si è raccontato l’evento. I media non potendo tacere l’azione delle attiviste, cosa che di solito preferiscono fare, hanno optato per una strategia censoria diversa: quella del “mostruoso”. Il discorso del Potere funziona esattamente così: non si tratta di delegittimare un’alternativa argomentando la sua non percorribilità, ma proprio di evitare che si mostri come un’opzione percorribile, ancorché sbagliata. Il potere agisce facendo in modo che una possibilità appaia come impossibile, mostruosa, che non può, neanche di principio, interpellare l’azione. È di fatto la stessa strategia che si applicava (e, in vero, si applica ancora) alla categoria del No-Vax. Con la differenza fondamentale però che nel caso del No-Vax ai media serviva proprio costruire positivamente e alimentare la repulsione sociale verso una categoria di persone dipinta come irrazionale, analfabeta funzionale e quant’altro; mentre nel caso dell’attivista ambientalista esaltato e iconoclasta si potrebbe benissimo farne a meno. Di fronte alla campagna vaccinale c’era bisogno di creare una categoria contro cui scagliarsi per unire il fronte dei buoni-cittadini-che-fanno-il-loro-dovere. Nel caso del collasso climatico, al contrario, non essendoci nessuna azione realmente impattante che il Potere sta mettendo in atto per fronteggiare il problema, la strategia mediatica è precisamente quella di ignorare il problema nella sua reale e drammatica entità. Non c’è pertanto la necessità di impegnarsi positivamente a creare la figura del Mostro che agisce diversamente dai dettami centrali e con ciò allineare le azioni della gran massa della popolazione. Succede allora che coloro che si fanno portatori di un’alternativa debbano tentare della azioni quantomai appariscenti per entrare nell’orizzonte della visibilità. Allora, e solo allora, i media passano dal silenzio alla delegittimazione del “mostruoso”. Si tratta di una vittoria, ancorché parziale, dell’attivismo.
Lungi dall’essere come vengono dipinte, associazioni ambientaliste di disobbedienza civile come Just Stop Oil, Last Generation o Extinction Rebellion hanno piena consapevolezza di ciò che stanno facendo, dei rischi cui vanno incontro e dei danni che potrebbero causare. Le loro azioni di disobbedienza civile si basano su strategie (prima fra tutte una rigorosissima non-violenza) tali da non poter essere tacciate di irresponsabilità da chi si dia il disturbo di andare un po’ più a fondo di quanto venga raccontato. Il ragionamento è semplice: “sappiamo che i media faranno di tutto per dipingerci come irresponsabili esaltati, ma la concretezza della nostra azione deve dimostrare che sebbene il reato ci sia, non c’è in realtà nessun pericolo reale per le persone (o le opere d’arte) coinvolte dall’azione”. Quindi, le attiviste sapevano che l’opera era protetta dal vetro, perché questo è il loro modo d’agire consapevole e responsabile, ma comunque di forte impatto. Dunque, nessun sacrificio dell’arte sull’altare del bene superiore, nessuna esaltazione iconoclasta, semplicemente perché quello non è lo scopo di quell’azione, esattamente come non è scopo di un blocco stradale dare fastidio ai pendolari. Si dirà, giustamente: occorre fare picchetti davanti alle grosse aziende inquinanti, agli allevamenti intensivi… Ebbene, questi vengono fatti eccome! Ma non hanno nessuna visibilità. Lo scopo di queste azioni è solo e soltanto la visibilità, riuscire a entrare di prepotenza nel dibattito affinché l’opinione pubblica per lo meno si polarizzi sul tema, si faccia un’opinione, per poi mobilitarsi e chiedere ai governi un cambiamento reale. E per far questo, ripeto, le azioni devono essere radicali, ma nello stesso tempo non violente. Dunque, nonostante grossi limiti di questi movimenti (per esempio, la mancanza di un quadro teorico solido, la convivenza di sensibilità anarcoindividualiste e socialiste in senso più tradizionale o una visione ingenua dell’intersezionalità delle lotte), bisogna sempre tener presente, nel giudicarli, qual è il loro scopo: non accedere a cariche di governo; ma, come si conviene alla forma-movimento, forzare il muro di incomunicabilità tra le élites che detengono il potere (stati e potentati tecnofinanziari) e il mondo della vita. Questo scopo è ben riassunto in tre punti da Exinction Rebellion: dire la verità sullo stato attuale del sistema-Terra, agire immediatamente e creare assemblee cittadine come organo di democrazia diretta atto a coadiuvare i governi nella transizione.
Ho insistito finora sull’indifferenza dell’opera rispetto allo scopo di visibilità dell’azione. È evidente infatti: l’opera poteva essere qualunque altra o poteva non essere affatto un’opera, ma qualcosa capace di sortire lo stesso effetto. Questo fatto – non mi è sfuggito – è già stato notato da Cossu nel suo articolo. Ne traggo però delle conclusioni diverse. Secondo Cossu l’indifferenza dell’opera rispetto all’azione l’ha desacralizzata, il sacrificio dell’arte si compirebbe proprio in questo: nonostante ci si trovi davanti all’opera, ciò che conta è solo la performance delle attiviste. Questo può certamente essere vero; ma, chiedo io, questa desacralizzazione non è forse ciò che c’è di più comune nella fruizione media dell’arte? Non saranno certo degli attivisti a far cadere l’arte nell’indifferente mercificazione. Al contrario, è ormai tutto il sistema dell’organizzazione della cultura che opera in questa direzione. La cultura non è altro che un’attività della domenica, uno svago per distrarsi e tornare più produttivi il lunedì. Il museo è il luogo dove si recano dei piccolo-borghesi di poco più acculturati della gran massa della popolazione mondiale per celebrare quella loro meschina conoscenza basilare e sentirsi superiori al “volgo”. Nel museo essi non trovano altro che loro stessi, l’esaltazione della loro mediocrità, del fatto che, al contrario di un rozzo bracciante del foggiano, loro sì che sanno chi è Van Gogh e, nel migliore dei casi, che a un certo punto della sua vita si è tagliato un orecchio. L’arte, in tutto ciò, è già perfettamente eclissata. Anche in questo senso, forse, dovremmo ringraziare le attiviste, meritevoli di aver squarciato questa patina di autocompiacente domenicalità e riportato l’urgenza e la tragedia della realtà nelle vite piccolo borghesi che frequentano i musei e guardano i telegiornali.
Nessun tentativo di desacralizzare l’arte, dunque, né di farla entrare nell’orizzonte della mercificazione e dell’equivalenza generale del denaro. Come è stato giustamente sottolineato da Cossu, ciò che è fuori da questo orizzonte è il Sacro ed esso è un pericolo per la ragione liberale appunto perché prevede ambiti che non si possono piegare a questa logica. Ora, l’azione è stata operata proprio avendo in vista un ambito siffatto: l’ambiente non è negoziabile. Di più: l’ambiente non può essere negoziabile. La differenza qualitativa tra l’ecosistema e altri ambiti ritenuti non negoziabili (e che subiscono l’attacco del mercato affinché entrino nel cerchio dell’equivalenza generale) è che fare dell’ecosistema un che di negoziabile e di valutabile in termini di denaro conduce a scontrarsi con un limite materiale oltre il quale non si può andare. La cosa è complessa, ma in questa sede la si può semplificare così: se ci sono due miliardi di alberi e ogni albero costa un euro, un gruppo miliardario produttore di mobili in legno potrà comprare e tagliare tutti gli alberi della terra. Questo è perfettamente razionale entro la logica di mercato: nulla è cambiato da prima a dopo, un certo valore (sotto forma di alberi) prima apparteneva all’uno e uno stesso valore (sotto forma di denaro) apparteneva all’altro; i due contraenti si sono scambiati lo stesso valore, lo stato di cose precedente e successivo alla transazione è lo stesso. Ma ciò solo secondo la logica di mercato, di fatto la situazione è tutt’altra. Esiste un “valore” degli alberi che non si può monetizzare perché riguarda le condizioni stesse che permettono la transazione, ovvero il proseguimento della vita naturale così com’è stata finora. La logica di mercato è, per definizione, applicabile solo entro contesti di mercato e non può tematizzare secondo le sue categorie ciò che per natura le è esterno. Le condizioni di riproducibilità materiale della vita, la garanzia cioè che tagliato un albero ce ne saranno degli altri ancora da tagliare, sono essenzialmente extraeconomiche. A ciò si aggiunga un altro tipo di incompatibilità, cioè quella temporale: il meccanismo di crescita infinita, senza il quale la macchina del capitale semplicemente smette di funzionare, è incompatibile con le tempistiche della riproduzione naturale. Il capitale ha bisogno di estrarre sempre più valore in sempre meno tempo per continuare a funzionare, la natura al contrario genera sempre lo stesso valore nello stesso tempo (ovviamente stiamo ragionando considerando archi di tempo umani, da un punto di vista evoluzionistico le cose sarebbero diverse). Se ho bisogno di pescare cento pesci tutti i giorni per generare profitto e far guadagnare i miei stakeholders ho bisogno che ci siano tutti i giorni almeno cento pesci da pescare e altri in numero sufficiente da essere in grado di riprodursi e garantirmi la stessa quantità i giorni successivi. Ma se questo numero sufficiente manca, io pescherò dalla quota deputata alla riproduzione perché non posso permettermi un decremento di profitto, non posso aspettare che il ciclo di riproduzione faccia il suo corso. Questo meccanismo porta fatalmente a estrarre dalla Terra più risorse di quelle che può rigenerare, fatto ricordatoci ogni anno da quello che abbiamo imparato a conoscere come Overshoot day.
Con questo intervento non pretendo certo di aver detto tutto, né tanto meno di aver “confutato” l’intervento precedente di Cossu, che resta un contributo prezioso in questo dibattito così importante per il nostro tempo. Mi auguro per lo meno di aver acceso l’interesse ad andare a conoscere nel dettaglio questi movimenti e a non fermarsi al lato che vien e presentato dai media tradizionali.
Fonte: https://www.lafionda.org/2022/10/27/van-gogh-e-il-collasso-climatico-un-secondo-contributo/
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