Porte “troppo girevoli”: i contractors occidentali arruolati da Pechino
da ANALISI DIFESA (Pietro Orizio)
Nel periodo di forte contrapposizione tra Occidente ed Oriente che stiamo attraversando – non solo tra NATO e Russia, ma anche tra Cina e Stati Uniti, la notizia che Pechino sia riuscita ad avvicinare ed ingaggiare ex piloti militari britannici come consulenti ed addestratori ha destato non poche preoccupazioni tra le cancellerie nordatlantiche.
Parallelamente, centinaia di ex ufficiali americani hanno fatto richiesta ed ottenuto l’autorizzazione per intraprendere nuove e più redditizie carriere lavorative al servizio di Paesi stranieri. Questo non solo grazie alle indiscusse competenze ma anche ai rapporti maturati e gli incarichi ricoperti per conto del Pentagono.
Una pratica talmente consolidata e diffusa oltreoceano, quella della migrazione di personale di alto rango – e non solo – dalle Forze Armate alla politica o al privato, da essersi guadagnata una precisa denominazione: “Revolving Door” (porta girevole). Tale fenomeno ha fatto parlare particolarmente di sé durante il secondo dopoguerra iracheno per i ricchi contratti e i diversi aspetti controversi.
Ma se allora a far storcere il naso erano questioni meramente etiche, morali o di integrità, ora che il business della difesa e sicurezza privata si è considerevolmente espanso all’estero – monarchie del Golfo, Russia e soprattutto Cina – ne va di mezzo la sicurezza nazionale. Da qui l’avvio di una campagna generalizzata per l’adozione di tutta una serie di misure precauzionali e sanzionatorie – nulla osta, licenze, sanzioni ed arresti – della cui concreta applicazione però Pentagono ed alleati non sembrano troppo preoccupati.
Le “grinfie” cinesi sugli ex piloti occidentali
Secondo la BBC una trentina di ex piloti militari britannici sarebbe stata reclutata per addestrare gli uomini dell’Aeronautica dell’Esercito di Liberazione Popolare cinese.
Più propriamente, alle controparti asiatiche gli ex piloti di Sua Maestà fornirebbero da diversi anni informazioni su piloti e velivoli occidentali per far comprendere loro come operano e sviluppare, quindi, adeguate tattiche e contromisure. Capacità, insomma, tali da poter fare la differenza in caso di futuri possibili conflitti come ad esempio quello per Taiwan.
Già dal 2019 il Regno Unito era a conoscenza di una piccola aliquota di suoi ex piloti al soldo di Pechino: un programma considerevolmente rallentato con la pandemia, vista la materiale impossibilità di raggiungere la Cina, ma ripreso ben presto ad un ritmo decisamente allarmante.
Ad essere reclutati, sostanzialmente, sarebbero stati professionisti ultracinquantenni, congedatisi da tempo non solo dalla Royal Air Force ma anche dalle altre componenti aeree delle Forze Armate di Sua Maestà – Royal Navy e British Army, nonché da quelle di altri Paesi alleati.
Piloti esperti di velivoli da combattimento Typhoon, Jaguar, Harrier e Tornado o di elicotteri Merlin e Wildcat – velivoli datati ma comunque funzionali – di cui la Cina si è accaparrata competenze ed esperienze attraverso ingenti somme di denaro: fino a 271.000 euro all’anno per ogni “consigliere”.
Del reclutamento sarebbero stati incaricati degli head-hunter – cacciatori di teste – a contratto della società sudafricana Test Flying Academy of South Africa o TFASA. Nel mirino dei cinesi anche piloti attualmente in servizio (ma nessuno si sarebbe lasciato lusingare dalle loro offerte) inclusi, secondo voci non confermate, addirittura piloti di F-35.
Sebbene gli ex piloti al servizio di Pechino non abbiano violato alcuna legge il Ministero della Difesa britannico ha lanciato un preciso allarme mettendo in guardia il personale in servizio e non, nonché i partner privati, dall’assumere incarichi in grado di “erodere il vantaggio difensivo del Regno Unito”.
Il Governo britannico sta adottando misure concrete per inasprire la legislazione al riguardo. Tutto il personale in servizio ed in congedo è già soggetto all’Official Secrets Act e si sta procedendo a rivedere gli accordi di riservatezza e non divulgazione, così come ad introdurre ulteriori strumenti di tutela attraverso il nuovo National Security Bill.
Il Foreign Influence Registration Scheme, emendamento al sopraccitato disegno di legge, richiederà ad esempio a chiunque venga assunto da un Governo straniero di dichiarare dettagliatamente le proprie attività, in modo da garantire una più stringente supervisione da parte delle autorità o, diversamente, incorrere in indagini per spionaggio o influenza.
A detta del capo dell’MI-5, infatti, “il Regno Unito è in competizione strategica con Stati che cercano di minarne la sicurezza nazionale, istituzioni democratiche e opportunità commerciali a livelli senza precedenti. Abbiamo bisogno di nuovi, moderni strumenti e poteri per difenderci, proporzionatamente, ma fermamente.”
Nel frattempo, il ministro degli esteri cinese ha negato il reclutamento di piloti britannici come istruttori. Sulla vicenda sono circolate anche voci di un sorprendente doppio-gioco orchestrato da Londra. Secondo il Sunday Express i britannici avrebbero a loro volta avvicinato e convinto i propri connazionali al servizio dei cinesi a carpirne quante più informazioni possibili.
Trattandosi di personale non addestrato a condurre operazioni di intelligence, è stato chiesto loro di non correre particolari rischi, ma di sfruttare la trasferta in Cina – in alcuni casi di diversi mesi – per raccogliere e riferire qualunque elemento rilevante al rientro. Alcuni di loro, infatti, sono entrati in contatto con gli aerei cinesi di ultima generazione, in quella che è stata definita un’opportunità senza precedenti.
L’operazione si sarebbe ormai conclusa e tutti gli agenti segreti “improvvisati” avrebbero già lasciato la Cina. Nella stessa settimana in cui è trapelata la vicenda dei piloti britannici reclutati dai cinesi, Washington ha chiesto alle autorità australiane di arrestare un ex pilota di AV-8B Harrier II dei Marines; anch’egli presumibilmente reclutato da Pechino.
Daniel Edmund Duggan, 54 anni ed ex cittadino americano, è stato arrestato il 21 ottobre ad Orange, Australia su richiesta degli Stati Uniti. Tra il 1989 e il 2002 Duggan ha servito nel Corpo dei Marines degli Stati Uniti come pilota di AV-8B Harrier II e, successivamente, come istruttore tattico esperto, raggiungendo il grado di maggiore. Durante la sua carriera è stato anche exchange pilot presso la Marina Spagnola ed ha accumulato centinaia di appontaggi su 7 diverse portaerei e portaelicotteri da assaltop anfibio.
Nel 2014 si è trasferito in Australia dove, presso l’aeroporto di Hobart, ha gestito Top Gun Australia, società di voli turistici che impiegava ex piloti militari americani, tedeschi e britannici. Inoltre, con i suoi Provost T5A, L-39 e Nanchang CJ-6A partecipava anche ad airshow.
Duggan, secondo il profilo LinkedIn, ha iniziato a lavorare a Qingdao, Cina nel 2017 come amministratore delegato di AVIBIZ Limited, descritta come “una società di consulenza generale in ambito aeronautico con un focus sull’industria aeronautica cinese dinamica e in rapida crescita”.
Azienda registrata ad Hong Kong e formalmente chiusa nel 2020. Secondo Washington l’ex pilota dei Marines avrebbe fornito ai cinesi informazioni riservate su tattiche e tecnologie, nonché ulteriori tipologie di addestramento.
Attività che stanno finendo sempre più sotto la lente di ingrandimento delle autorità di vari Paesi, giacché non sarebbero solo britannici ed americani ad esservi implicati. L’Australia stessa sta investigando su propri ex piloti ed il Ministro della Difesa, Richard Marles, ha annunciato una revisione di procedure e politiche di riservatezza per il personale delle Forze di Difesa australiane.
Anche il Ministro della Difesa della Nuova Zelanda sta valutando l’implementazione di provvedimenti simili, dato che anche 4 ex piloti della Royal Mew Zealand Air Force avrebbero lavorato per la società sudafricana al centro della vicenda.
Altri casi paiono aver interessato anche Canada e Francia. Le Figaro ha parlato di un ex pilota di Super Étendard che era stato imbarcato sulla portaerei Charles de Guale. Contattato anch’esso dalla sudafricana TFASA, a rendere ancora più appetibile il suo profilo il fatto che la Francia sia l’unico Paese, oltre a Stati Uniti e Cina, ad impiegare portaerei dotate di catapulte per il decollo degli aerei. Gli sarebbe quindi stato proposto di pilotare un J-11BH cinese con un contratto della durata di circa 3 anni, a 20.000 euro al mese: una proposta allettante, ma che sarebbe stata rifiutata per timore e questioni etiche.
Addirittura, ai comandi di un jet cinese JL-10 d’addestramento caduto nella provincia di Anhui, ad inizio anno, vi sarebbe stato un cittadino francese. Tornando a Duggan, a cui è stata rifiutata la scarcerazione su cauzione, ha negato di aver violato leggi americane, australiane o internazionali e, attraverso l’avvocato Dennis Miralis, ha annunciato battaglia contro una sua estradizione negli Stati Uniti.
Innanzitutto, è stato presentato un ricorso all’Ispettore Generale dell’Intelligence australiano – organo di vigilanza sulle questioni di sicurezza nazionale – sulla condotta dei funzionari australiani durante il suo arresto. Una vertenza che dovrebbe sospendere qualunque procedura di estradizione; almeno finché pendente.
Oltre al fatto che, aggiunge Miralis, Duggan ora è cittadino australiano e gli Stati Uniti non dovrebbero interferire, se non per chiarire i capi d’accusa che, invece, restano ancora sconosciuti. Un ricorso è stato presentato anche sul trattamento ricevuto in prigione, in merito ad un diretto intervento da parte di un agente penitenziario durante una conversazione legalmente protetta tra Duggan ed il suo avvocato. Trasferito in una struttura penitenziaria di massima sicurezza a Goulburn, l’ex pilota dei Marines è tornato in tribunale il 28 novembre.
L’avvocato Miralis ha contestato il trattamento da prigioniero “a rischio estremamente elevato” riservato al suo cliente. Alla stessa stregua di terroristi e pluriomicidi, a Duggan sarebbero state negate penne, cancelleria e perfino cure mediche. Pertanto è stato nuovamente richiesto il suo rilascio.
In attesa che gli Stati Uniti depositino una richiesta d’estradizione entro la scadenza 20 dicembre come previsto da accordi bilaterali, il caso è stato aggiornato al 16 dicembre.
Nella vicenda, nel frattempo, sono apparsi diversi colpi di scena. In alcuni documenti della sua ex società – Top Gun Australia – del dicembre 2013, Daniel Edmund Duggan avrebbe indicato come indirizzo di residenza lo stesso civico di Pechino – Edificio 1-1, No. 67 Caiman Street, Chaoyang Road, Pechino – di un certo Su Bin.
Altrimenti detto Stephen Su, Su Bin è un uomo d’affari cinese arrestato in Canada nel 2014 e condannato a 46 mesi di prigione nel 2016 da una corte di Los Angeles. Egli si è dichiarato colpevole di un tentativo di hackeraggio dei computer di un contractor della Difesa americano – Boeing – per rubarne i progetti di aerei militari tra il 2009 e 2014, insieme a due ufficiali dell’Aeronautica Militare cinese.
Un altro ex pilota ha raccontato che Duggan si era trasferito dall’Australia a Pechino tra il 2013 e 2014 per collaborare con Stephen Su e la sua società Nuodian Technology, conosciuta anche come Lode Tech. Tuttavia, non è stato in grado di chiarire quale fosse l’attività in corso tra i due, tantomeno se abbiano utilizzato il sopraccitato civico nello stesso momento.
Indirizzo che resta nella US Entity List, blacklist commerciale di persone e società ritenute rischiose per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. E’ emerso, inoltre, che Duggan avrebbe lavorato come contractor anche per la società sudafricana rea, secondo Londra, di aver reclutato gli ex piloti britannici per conto di Pechino: la TFASA.
La società ha ammesso di aver stipulato un contratto con Duggan oltre 10 anni fa e da allora di non aver più avuto nulla a che fare con lui. Secondo altri, invece, Duggan avrebbe continuato a lavorare per TFASA, addestrando piloti cinesi. Alla Reuters, Test Flying Academy of South Africa ha dichiarato di aver collaborato con Su Bin – alias Stephen Su – tra il 2009 e 2013, affidandogli l’organizzazione di corsi per i piloti dell’Esercito di Liberazione Popolare cinese, ma di aver poi chiuso i rapporti anche con lui.
Attraverso il proprio sito web, TFSA ha smentito le accuse a lei rivolte definendole “oggettivamente errate e fuorvianti”. Tutte le sue attività, ha precisato, erano legali: Ha effettivamente avuto clienti cinesi, molti suoi dipendenti erano ex militari, ma non ha mai cercato attivamente di reclutare istruttori tra personale in servizio presso le forze armate di alcun Paese NATO.
Infine, sulla scia dell’arresto di Duggan è arrivata la sentenza sul caso di un altro ex pilota e contractor colluso coi cinesi. Shapour Moinian, ex elicotterista dello US Army, è stato condannato ad un anno e otto mesi per aver venduto informazioni riservate a Pechino e per aver mentito sui suoi rapporti con agenti stranieri – nel 2017 e 2020 – durante la compilazione di un questionario governativo per il controllo dei precedenti.
Moinian, 67 anni, è nato e cresciuto in Iran prima di emigrare negli Stati Uniti all’età di 21 anni. Dal 1977 al 2000 ha condotto una brillante carriera come elicotterista nell’US Army per poi lavorare per diversi contractors della difesa.
In quello che i giudici americani hanno definito un caso di “spionaggio industriale al limite dello spionaggio militare”, Moinian ha ammesso di esser stato contatto dai cinesi per la prima volta nel 2015, attraverso un servizio online per l’impiego. Nel 2017 ha iniziato a vender loro informazioni durante un viaggio ad Hong Kong, dove è stato pagato tra i 7.000 e 10.000 dollari e si è accordato per l’ulteriore fornitura di informazioni su diverse tipologie di velivoli progettati e realizzati negli Stati Uniti.
Alcuni mesi dopo, durante uno scalo a Shanghai, ha fornito ai cinesi una chiavetta USB con informazioni di proprietà di Boeing; una delle società di contractors della difesa per cui ha lavorato. Nell’occasione ha anche chiesto di essere pagato attraverso il conto bancario della figliastra sudcoreana, dove sono state versati alcune migliaia di dollari.
Attorno allo stesso periodo il governo cinese gli ha fornito un cellulare ed altri equipaggiamenti per facilitare le comunicazioni. Moinian ha passato ulteriori informazioni durante un viaggio a Bali nel 2018 e ad Hong Kong nel 2019. In quest’ultimo incontro ha ricevuto un pagamento di 22.000 dollari in contanti che, successivamente, ha introdotto illegalmente negli Stati Uniti insieme alla moglie.
Al momento dell’arresto, avvenuto l’anno scorso, le autorità hanno rivelato che l’ex elicotterista era pronto a trasferirsi in Corea del Sud, per lavorare per un altro contractor della difesa che produce aerei militari per Seul. Nell’arringa difensiva l’avvocato di Moinian ha dichiarato che il proprio assistito è stato assunto per “sviluppare un piano di manutenzione per un aereo” da persone non qualificatesi come agenti del governo cinese.
Ha aggiunto, inoltre, che la maggioranza delle informazioni cedute era stata ottenuta da fonti aperte sul web e, quindi, non riservate o confidenziali.
Le “porte girevoli” con l’industria della Difesa negli USA…..
La “Revolving Door” (porta girevole) è una pratica molto diffusa negli Stati Uniti: ufficiali delle Forze Armate, in particolare quelli che si occupano di procurement, finiscono a lavorare per società private che progettano e realizzano sistemi d’arma ed equipaggiamenti o forniscono servizi in ambito difesa.
Questo grazie ai propri incarichi che aprono loro opportunità lavorative molto redditizie nel settore privato semplicemente favorendo potenziali datori di lavoro nell’aggiudicazione di contratti governativi.
Il General Accounting Office (GAO) del Congresso ha evidenziato che nel 2019 ben 14 dei principali contractor della difesa hanno assunto 37.000 persone che nei precedenti 5 anni avevano cessato carriere militari o civili presso il Dipartimento della Difesa; 1.700 delle quali ricoprivano posizioni dirigenziali o in ambito acquisizioni.
Per gli ex militari che appendono l’uniforme al chiodo, infatti, possono aprirsi tre strade professionali: una carriera presso contractors della difesa, presso società di consulenza o gruppi di pressione e lobbyisti. Un meccanismo, quello della “porta girevole”, che comporta una serie di ripercussioni negative.
Innanzitutto, si possono generare favoritismi ed inefficienze nel procurement. Negli anni fiscali 2019 e 2020 ai cinque maggiori contractor del Paese – Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics, Raytheon e Northrop Grumman – sono finiti oltre 286 miliardi di dollari in contratti per la difesa. Lockheed Martin ha ricevuto ben 75 miliardi di dollari solamente nell’anno fiscale 2020.
Lo stretto allineamento tra profitti privati e processi decisionali militari rischia di avere ripercussioni devastanti sulle politiche di difesa e sicurezza nazionale, nonché sull’incolumità di uomini e donne delle Forze Armate americane. Nel 2018, ad esempio, è stata dimostrata la fornitura di armi americane a regimi coinvolti in sanguinosi conflitti o in repressioni e violazioni dei diritti umani; per non parlare di quelle che finiscono ai nemici che le truppe americane si trovano a dover affrontare.
Infine, secondo un report del Costs of War Project del settembre 2021 la dipendenza dai contractors nel post-11 Settembre è cresciuta a livelli impressionanti. Per esempio, più della metà del budget della difesa del 2019 — 370 miliardi di dollari — è finito ad aziende private.
Società che hanno speso decine di milioni di dollari in attività lobbistiche durante la preparazione del ritiro dall’Afghanistan, arrivando anche a finanziare un think-tank che vi si opponeva pubblicamente. Un indesiderato ritiro, insomma, da un Paese in cui il numero di contractors sul campo superava di due a uno quello delle truppe. Per monitorare l’andamento della “Revolving Door” del Pentagono il Project On Government Oversight (POGO) ha creato uno specifico database.
In esso sono inseriti i nomi di ex funzionari civili ed ufficiali delle Forze Armate che hanno raggiunto posizioni di un certo rilievo e che vengono assunti da società che si aggiudicano almeno 10 milioni di dollari all’anno in contratti del Dipartimento della Difesa, oppure da società di consulenza o di lobbying che intrattengono rapporti commerciali con importanti contractors della difesa.
Tale inclusione, di per sé, non implica una qualche violazione, ma fa emergere i conflitti d’interesse esistenti e la frequenza con cui le linee di demarcazione tra Pentagono e settore privato della difesa diventano talmente sfocate da rischiarare una contaminazione della politica della difesa.
In tre anni di esistenza del database sono state individuate almeno 170 società che hanno assunto complessivamente 479 ex ufficiali e funzionari civili del Pentagono: la maggior parte dei quali contrattualizzati dai “Top Five” dell’industria della Difesa: Raytheon e Northrop Grumman ne hanno entrambi assunti 24, Boeing almeno 23, General Dynamics 8 e Lockheed Martin ben 44.
Più nello specifico, negli ultimi tre anni almeno 29 generali, 64 maggiori generali, 60 tenenti generali, 11 ammiragli, 28 viceammiragli e 50 contrammiragli sono passati attraverso la “porta girevole”.
Per quanto riguarda il solo 2021, 36 ex ufficiali delle Forze Armate o funzionari civili hanno lasciato il Pentagono per impieghi in 46 aziende del settore della Difesa. Società che nel medesimo anno fiscale hanno ottenuto oltre 89,3 miliardi di dollari in contratti del Dipartimento della Difesa.
Uno dei più recenti ed eclatanti casi di “Revolving Door” ha avuto come protagonista Heidi Grant, ex direttrice della Defense Security Cooperation Agency, agenzia del Dipartimento della Difesa incaricata della valutazione e promozione delle vendite militari all’estero.
Dall’oggi al domani Grant è diventata dirigente di Boeing per le attività di Difesa, Spazio e Servizi Governativi. Grant stava trattando le condizioni della propria assunzione con il gigante privato della difesa mentre la DCSA l’aveva incaricata di promuoverne pubblicamente i suoi velivoli da combattimento F-15 QA (nella foto sopra – realizzati per l’Aeronautica del Qatar) all’estero.
Tra gli altri esempi, quello di Ellen Lord, ex sottosegretario alla Difesa responsabile delle acquisizioni e mantenimento, di Robert Ashley, ex direttore della Defense Intelligence Agency e di James Guerts, ex Sottosegretario di Stato della Marina che, addirittura, hanno assunto incarichi in più società private della difesa simultaneamente.
…e all’estero
Per raccogliere informazioni sulla “Revolving Door” all’estero, il Washington Post ha dovuto citare in giudizio Forze Armate e Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Il Governo americano ha cercato di opporsi alla divulgazione di documenti secondo il Freedom of Information Act, obiettando che i contenuti non fossero di pubblico interesse e che violassero la privacy del personale coinvolto.
Dopo una battaglia legale durata due anni, nel settembre 2021 il giudice distrettuale Amit P. Mehta ha stabilito che le argomentazioni governative non erano convincenti e che, anzi, “il pubblico ha diritto di sapere se alti dirigenti delle Forze Armate si stanno approfittando dei loro incarichi — o così potrebbe essere percepito — per crearsi opportunità lavorative con governi stranieri durante il pensionamento”.
Per ora è stato possibile ottenere più di 4.000 pagine di documenti, tra cui i fascicoli di circa 450 tra soldati, marinai, aviatori e marines in pensione per fare parzialmente luce sui lavori ottenuti all’estero: tipologia, compensi, datori di lavoro ecc.
Sostanzialmente, è emerso che dal 2015 più di 500 militari americani – molti generali, ammiragli ed ufficiali di grado elevato – pensionatisi o congedatisi, hanno iniziato a lavorare per governi stranieri – o società da essi possedute – come contractors, consulenti o lobbisti grazie alla loro professionalità, incarichi ricoperti ed influenza politica acquisita.
I governi stranieri pagano profumatamente gli ex ufficiali a stelle e strisce che possono arrivare a percepire stipendi e benefit a sei e, a volte, anche a 7 cifre. Molto più di quanto un militare americano possa percepire in servizio attivo. Mentre un generale a quattro stelle delle FFAA americane guadagna circa 204.000 mila dollari all’anno come paga base, un ex colonnello dell’Esercito è stato assunto come consigliere per l’Esercito emiratino a 324.000 dollari all’anno.
Prima di accettare un lavoro all’estero, però, i militari in pensione o in congedo devono ottenere un’autorizzazione da parte della propria Forza Armata di riferimento e dal Dipartimento di Stato. Il 9° comma – emolumenti stranieri – del 1° articolo della Costituzione degli Stati Uniti proibisce infatti ai funzionari federali di accettare regali, lavori, denaro – anche rimborsi spese – o titoli “ da qualunque Re, Principe o Stato Straniero” senza l’autorizzazione del Congresso. Compito che dal 1977 è stato delegato al Pentagono e al Dipartimento di Stato.
Il divieto si applica anche ai militari in pensione – generalmente, coloro che abbiano servito almeno vent’anni e percepiscano una pensione, così come ai riservisti per evitare che possa compromettere il loro giuramento di fedeltà agli Stati Uniti d’America, vista la possibilità di essere richiamati in servizio in qualsiasi momento.
Per lo stesso motivo non è concesso loro di ricoprire posizioni lavorative in uniforme, ma solo incarichi civili. Prima di ottenere l’autorizzazione, i richiedenti devono essere sottoposti anche ad un controllo dei precedenti e un altro da parte del controspionaggio. L’autorizzazione può essere negata qualora si ritenga che l’incarico possa “influire negativamente sulle relazioni internazionali degli Stati Uniti”, tuttavia, delle più di 500 richieste sottoposte dal 2015, il 95% è stato approvato.
Sebbene spetti al personale in congedo auto-dichiarare la propria intenzione di lavorare per Paesi stranieri, il Washington Post ha individuato tutta una serie di ex ufficiali che hanno indicato su LinkedIn di essere al servizio di governi esteri, senza che sia stata riscontrata traccia né di loro richieste di autorizzazione, né della relativa approvazione federale. Il Dipartimento della Difesa, in questi casi, potrebbe prendere provvedimenti come la sospensione dell’erogazione della pensione ma finora è intervenuto “meno di cinque” volte.
Lo stesso dicasi per il cosiddetto periodo di “raffreddamento”: prima di accettare lavori da parte di una società con cui aveva rapporti quand’era in servizio, il personale militare che si occupava di programmi di armamento o di importanti contratti della difesa deve attendere uno o due anni, al fine di evitare conflitti d’interesse. Ma ciò avviene raramente: anzi, in certi casi questi iniziano già a mettersi al servizio di governi stranieri quando stanno ancora lavorando per il Pentagono.
Diversi dei Paesi che assumono gli ex ufficiali americani sono coinvolti in sanguinosi conflitti, repressioni e violazioni dei diritti umani. E’ questo il caso di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti che con la condivisione d’intelligence, operazioni di rifornimento in volo ed altre forme di supporto da parte di contractors e governo americani sono impegnati militarmente in Yemen.
Oppure il Qatar, aspramente criticato per le condizioni estreme dei lavoratori stranieri o le limitate libertà interne. Nel marzo 2020 un colonnello dell’Air Force in congedo ha richiesto — ed ottenuto — l’autorizzazione ad accettare una proposta di lavoro da 300.000 dollari come dirigente in una società di lancio satelliti negli Stati Uniti, ma di proprietà russa.
Non sarebbero state presentate altre richieste “delicate” per lavori con i governi di Cina, Corea del Nord, Iran, Cuba o Venezuela. Per il resto, almeno 2/3 degli ex ufficiali americani hanno lavorato per Paesi mediorientali – monarchie del Golfo in primis – e del Nord Africa. Venticinque tra generali ed ammiragli in pensione hanno accettato proposte di lavoro come consulenti per il Ministero della Difesa saudita, retto dal 2015 Mohammed bin Salman. Il principe ereditario è ritenuto dall’intelligence americana il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi avvenuto nel 2018.
Tra gli ex ufficiali che hanno lavorato da allora come consiglieri militari in Arabia Saudita troviamo diverse importanti figure. Il generale dell’Esercito Keith Alexander, direttore della NSA durante le amministrazioni di George W. Bush e di Obama ha ricevuto l’autorizzazione del Dipartimento di Stato per lavorare per i sauditi due mesi dopo l’assassinio di Khashoggi.
I sauditi hanno assunto Alexander per aiutarli a sviluppare il Prince Mohammed bin Salman College of Cyber Security, primo programma di addestramento alla guerra informatica del Regno. La società di consulenza di Alexander, IronNet Cybersecurity, ha lavorato per il Governo dell’Arabia Saudita almeno fino al 2020.
Il generale James L. Jones, ex comandante NATO e dei Marines, la cui Jones Group International annovera otto tra generali ed ammiragli americani in pensione ed oltre 32 ufficiali di grado inferiore. Sull’affaire Khashoggi Jones si è detto molto scioccato, ma di esser stato incoraggiato dal Governo americano a continuare a lavorare per i sauditi. Un suo rifiuto, infatti, avrebbe potuto spingere l’Arabia Saudita, la potenza non nucleare che spende di più al mondo per la difesa – oltre 60 miliardi di dollari nel 2021, a cercare supporto altrove, magari a Mosca o a Pechino.
Il mercato estero più importante per gli ex militari americani, però, è rappresentato dagli Emirati Arabi Uniti. Sono stati 280, infatti, quelli che vi hanno lavorato come contractors e consiglieri negli ultimi 7 anni; molti più che in qualunque altro Paese.
Gli emiratini investono 22 miliardi di dollari all’anno per la Difesa e hanno contato fortemente sul personale a contratto statunitense per costruire ciò che molti definiscono la “piccolo Sparta” o le più forti Forze Armate del mondo arabo. Il più noto ad aver operato per loro è stato l’ex generale dei Marines James Mattis (nella foto sopra). Prima di servire come Segretario alla Difesa nell’amministrazione Trump, Mattis è stato consigliere militare per gli Emirati Arabi Uniti. Per aver fornito consulenze sugli aspetti operativi, tattici, informativi ed etici delle operazioni militari, non ha accettato alcun pagamento.
Poco dopo essersi dimesso da Segretario alla Difesa ha richiesto nuovamente l’autorizzazione federale per lavorare ancora per gli Emirati, tenendo un discorso ad Abu Dhabi. Ancora una volta ha rinunciato al compenso pattuito, accettando solamente un rimborso per le spese di viaggio.
Molti americani hanno lavorato anche per Kuwait e Qatar. Dal 2017, quando Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo hanno imposto un embargo per i suoi legami con l’Iran, il Qatar ha speso molto per rafforzare le proprie Forze Armate e stringere relazioni più forti con gli Stati Uniti. Doha ha così reclutato ex militari e diplomatici americani per fare attività lobbistica sull’amministrazione Trump, in modo che, a sua volta, facesse pressioni sui Paesi arabi per far revocare l’embargo.
L’Australia, dopo aver bruscamente interrotto un accordo per l’acquisto di sottomarini nucleari francesi l’anno scorso, sta portando a termine un affare da più di 74 miliardi di dollari con Stati Uniti e Gran Bretagna per allestire una propria flotta. Un’operazione che avrà ripercussioni globali e potrà alterare l’equilibrio di potere in Asia tra Stati Uniti, suoi alleati e Cina.
Dal 2015 ammiragli ed altri ufficiali d’alto rango della Marina americana in pensione hanno ottenuto incarichi di consulenza dal Governo australiano per un valore di più 10 milioni di dollari in totale. Alcuni di loro hanno lavorato allo stesso tempo come consiglieri sia per Canberra che per Washington.
Addirittura, l’ex ammiraglio americano Stephen E. Johnson Nella foto a sinistra) , in passato al comando del Centro per la Guerra Sottomarina della US Navy, nel 2016 è stato nominato Vice Segretario alla Difesa dal Governo australiano e supervisore del suo programma di sottomarini. Un incarico decisamente insolito per uno straniero!
Alcune considerazioni
Da quando si sono diffuse le voci di esorbitanti stipendi offerti dalle compagnie militari e di sicurezza private (PMSC) a partire dagli anni 90, con un considerevole picco durante l’immediato secondo dopoguerra iracheno, si è assistito a veri e propri esodi di massa di uomini in uniforme verso il settore privato: militari di truppa, ufficiali e addirittura intere unità.
Negli anni il fenomeno ha raggiunto livelli preoccupanti. Da una parte si è incorsi nel considerevole spreco di denaro dei contribuenti per l’addestramento di personale che, ben presto, ha lasciato il servizio, con la necessità di addestrarne altro per coprire le posizioni vacanti. L’addestramento di un Navy Seal costa agli Stati Uniti dai 350.000 ai 500.000 dollari, così come è emerso da un’audizione al Parlamento australiano che addestrare un pilota di caccia come quelli reclutati dai cinesi costa più di 9,75 milioni di dollari.
Senza contare poi il rischio di non essere in grado di affrontare situazioni di crisi proprio a causa di mancanza di personale o di dover logorare quello disponibile con periodi di gravoso impegno.
Per arginare la fuoriuscita di personale negli anni più caldi di Afghanistan e Iraq i governi americano e britannico sono intervenuti aumentando stipendi ed indennità anche fino al 50%, nonché attraverso altre forme di supporto per migliorare le condizioni di servizio e ridurre l’attrattività del settore privato.
Piuttosto che perdere definitivamente il personale, in alcuni casi, sono state concesse aspettative per mettersi al servizio di PMSC, guadagnare denaro velocemente e ritornare al proprio reparto. Nulla di paragonabile, tuttavia, a quanto possano offrire gli sceicchi o i funzionari cinesi di turno per riformare le proprie Forze Armate. Gli ex militari, infatti, oltre alle proprie competenze portano con sé un inesauribile bagaglio di esperienze ed informazioni riservate, maturate e raccolte in lunghe ed onorate carriere e che possono fare la differenza sul campo di battaglia.
Asset intangibili di inestimabile valore, decisamente attraenti per quegli alleati, rivali, nemici e, perfino, organizzazioni criminali che hanno le risorse, la lungimiranza e la spregiudicatezza per accaparrarseli. Negli anni 90, per esempio, il Cartello del Golfo di narcotrafficanti ha reclutato operatori dei reparti speciali per crearsi la propria forza paramilitare in grado di tener testa agli altri narcotrafficanti e, soprattutto, alle Forze Armate e dell’Ordine messicane: Los Zetas.
Alla luce di quanto sopra, risulta fondamentale mettere in campo tutta una serie di contromisure in grado di scongiurare, controllare ed eventualmente, sanzionare pericolose migrazioni dalle Forze Armate al settore privato. Uno dei primi passi potrebbe, certamente, essere la concreta applicazione degli strumenti esistenti che risulta, invece, alquanto lasca e saltuaria.
Successivamente, come esortato dal GAO (General Account Office, la Corte dei Conti statunitense) e da una serie di organizzazioni – governative e non – americane, per quanto riguarda la “Revolving Door”, è necessaria una vera e propria riforma etica che promuova un’integrità pubblica del processo decisionale del Governo, nonché un senso di responsabilità condivisa. Il tutto attraverso l’adozione di una serie di emendamenti chiave per eliminare conflitti d’interesse ed altri escamotage che provocano sprechi di denaro dei contribuenti e rischi per la sicurezza nazionale.
Nonostante ciò, tra i 14 membri della nuova Commissione sulla Riforma di Pianificazione, Programmazione, Budget ed Attuazione del Pentagono presentati a febbraio, è emerso che 11 di loro hanno legami con il settore privato della Difesa. In un panel di così tante persone con evidenti conflitti di interessi è impossibile pensare ad una significativa riforma a beneficio delle truppe sul campo e dei contribuenti.
Per non parlare del fatto che, oltre alle opportunità lavorative ed economiche per ex militari e società di contractors, vi è tutta una serie di questioni di diplomazia sotterranea e di reciproca influenza che rappresenta una sorta di lama a doppio taglio per Washington.
Da una parte, infatti, la presenza di ex militari americani presso le “corti” straniere consente di influenzarne la politica a favore degli Stati Uniti – acquisti di sistemi d’arma americani, rafforzamento di alleanze e concessioni, impedire relazioni con Paesi nemici degli Stati Uniti, ecc.
Dall’altra anche tali Paesi possono esercitare la propria influenza sulle politiche di Washington, grazie all’attività di lobbying degli ex militari e funzionari civili da essi profumatamente pagati. Questi, ad esempio, possono riabilitare regimi alquanto discutibili o indirizzare le decisioni del Governo americano verso una politica estera più aggressiva, militarizzata od orientata verso i propri interessi.
E’ quanto mai urgente, quindi, che il Congresso adotti importanti misure per limitare l’influenza sia dei contractors della difesa, che di governi stranieri sulla politica americana interna ed estera; tanto più in un momento in cui il budget della difesa degli Stati Uniti ha raggiunto uno dei livelli più elevati della sua storia – 770 miliardi di dollari – e lo spettro della guerra su vasta scala e forse anche nucleare è tornato a farsi vivo.
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