Cuba: Che ne è stato della Rivoluzione?
di LIBERO PENSARE (Piero Cammerinesi)
Quello che mi aspettavo
In tutti questi anni di viaggi quello che ho imparato è che è inutile farsi idee sul posto in cui si andrà, perché la realtà è sempre molto diversa dall’immaginazione; la cosa non è la sua immagine. Nel caso di Cuba, però, una certa idea me l’ero fatta.
Ho sempre pensato a quest’isola come ad una sorta di esperimento sociale, qualcosa di simile ad Auroville (per chi ha letto il mio precedente articolo), certo in forma molto più ampia e con un taglio molto meno spirituale. Però il concetto alla sua base pensavo lo si potesse assimilare a quello della comunità in India: noi non vogliamo far parte del mondo consumistico-capitalistico e rigettiamo qualunque cosa abbia a che vedere con questo modo di pensare, per incentivare uno stato laico, socialista ed egualitario. Pensieri che avevo ben chiari in testa anche grazie al famoso discorso di Ché Guevara all’ONU nel 1964:
“Cuba, signori delegati, libera e sovrana, senza catene che la leghino a nessuno, senza investimenti stranieri nel suo territorio, senza proconsoli che orientino la sua politica, può parlare a fronte alta in questa Assemblea e dimostrare la giustezza della frase: “Territorio Libero di America” con cui è stata battezzata”.
Questo quello che la mia piccola mente pensava fosse l’ideologia cubana.
Di conseguenza mi aspettavo di entrare in un Paese dove non c’era possibilità di incontrare un nordamericano o di imbattermi in alcun prodotto che arrivasse dagli USA, automobili anni ’50 a parte. Un Paese dove le diseguaglianze sociali erano più o meno appiattite, certo verso il basso, ma di contro lo Stato sopperiva a molte esigenze del cittadino e, pertanto, non era necessario guadagnare molto per vivere a Cuba. Naturalmente le difficoltà sarebbero state tante, sia a causa dell’embargo, sia per quanto ne derivava e non per ultimo, a causa della pandemia che aveva di certo azzerato gli introiti provenienti dal turismo, voce principale delle entrate cubane. Sapevo della difficoltà nel reperire medicinali, soprattutto antibiotici, dell’impossibilità di importare autoveicoli e tecnologia dall’estero. Tutto questo lo sapevo, ero consapevole che non stavo per accedere ad uno Stato paradisiaco dove tutto funziona, ma ero anche convinto che il resto del mondo avrebbe potuto prendere Cuba come esempio da molti punti di vista: l’istruzione gratuita per chiunque fino all’università compresa; la sanità anch’essa completamente gratuita e con i dottori tra i migliori al mondo; un’assistenza sociale invidiabile e giusta. Ma soprattutto pensavo di entrare in un Paese con un popolo orgoglioso di ciò che ha fatto, delle sue scelte e che, nonostante le mille difficoltà, rivendicasse ancora oggi la sua unicità. Come disse Castro nel suo discorso del 2 settembre 1960:
“[…] non c’è spettacolo più impressionante e più formidabile che un popolo vivente, un popolo consapevole, un popolo con spirito, un popolo con morale, ragione, spirito di lotta, coraggioso, capace di sentire un ideale e di sacrificare tutti gli interessi individuali per quell’ideale! Perché quando un popolo arriva a questo grado di consapevolezza rivoluzionaria, gli individui si fondono nell’anima del popolo e a questo punto, individualmente, ognuno di noi non conta, c’è qualcosa che non muore né può morire mai. Ecco il popolo!”
Quello che ho trovato
Non mi permetto qui di proporre analisi politiche sulla situazione cubana, sia perché non sono un esperto di geopolitica, sia perché un mese in questo Paese non mi autorizza ad esprimere giudizi in tal senso. Mi limiterò ad esporre ciò che ho visto, ciò di cui sono sicuro.
E quello che ho visto è un Paese in ginocchio, dove non solo non si trovano le medicine, ma nemmeno il cibo. Entrare in un supermercato o in un negozio di alimentari in tutta Cuba mi ricorda alcune scene viste in televisione negli anni ’70 quando si mostravano i negozi dell’Unione Sovietica con i banchi assolutamente vuoti. Qui è esattamente così. Un Paese dove è difficile trovare l’acqua (considerate che l’acqua di Cuba non è potabile). A volte camminavo chilometri per trovare un negozio che vendesse una bottiglia d’acqua. Un Paese dove quando entri in un ristorante ti portano il menù dove ci sono elencati decine di piatti, ma il cameriere ti dice “Oggi abbiamo solo pollo bollito o pesce alla piastra”. E il giorno dopo, lo stesso ristorante non ha più pollo e pesce, ma carne di maiale. Di verdure nemmeno l’ombra in tutta Cuba; ciò che si trova sono il cavolo verza, qualche pomodoro, peperoni e yucca. Nonostante sia un Paese tropicale di frutta se ne vede pochissima, al confronto di altri Paesi nella stessa fascia.
Ho trovato un Paese dove la costante sono le code: code chilometriche in banca, code per accedere al bancomat, code fuori dalle farmacie, dagli alimentari, dai fruttivendoli e code anche fuori dai ristoranti. Si passano le ore ad attendere per il proprio turno per qualsiasi cosa. Per non parlare dei trasporti. Dei treni è meglio dimenticarsene; gli autobus sono divisi in quelli per i cubani (linea Omnibus) e quelli per i turisti (Viazul). I cubani per un viaggio in autobus devono prenotarlo con settimane d’anticipo e pagano dieci volte meno che il turista. Quest’ultimo per viaggiare in autobus può prenotare on line oppure direttamente agli uffici di Viazul, dove comunque il pagamento va effettuato tramite la loro piattaforma internet. Ma c’è un piccolo problema: a Cuba internet è poco più che un miraggio. Vi ricordate quando internet approdò in Italia e si passavano le ore ad aspettare che si caricasse una pagina? Ecco a Cuba è così e anche peggio: a volte la connessione manca per giornate intere. Personalmente ho provato per tre giorni di seguito a prenotare un biglietto on line sul sito di Viazul e ad andare tutte le mattine al loro ufficio facendo code di ore, passando tre intere mattinate per comprare un biglietto che non si riusciva ad acquistare perché anche dai loro uffici non riuscivano ad accedere a internet. Sarebbe bastato un bigliettaio che strappasse il biglietto e ritirasse il contante, ma no, a Cuba non si può più pagare quasi nulla in contante. E soprattutto non in pesos cubani! Da quando il dollaro americano è fuori legge a Cuba sono ricercatissimi gli euro, nonostante i prezzi siano ancora espressi in dollari.
Ho visto un Paese con una forte diseguaglianza sociale, dove le auto di lusso sfrecciano davanti a giovani e vecchi che rovistano nei bidoni della spazzatura. Dove si costruiscono alberghi di lusso di decine di piani e centinaia di stanze, in quartieri dove le persone vivono in edifici fatiscenti e pericolanti che mi hanno ricordato l’architettura dell’India coloniale di diverse decine di anni fa. Ho visto un popolo con un volto serio, triste, tranne che quello degli animatori delle zone turistiche e quello dei musicisti che si esibivano per gli stranieri. Ho trovato un Paese affollato da nord americani che, per potervi entrare, devono fare il giro da altri Paesi e ripetere il tragitto al ritorno, altrimenti lo Stato USA gli appioppa multe severissime, se non la detenzione.
Ho trovato persone rassegnate, soprattutto gli anziani, giovani con il mito del consumismo che indossano magliette con scritto “I love NY” e guardano video musicali dove gli “artisti”, si fa per dire, sono ripresi alla guida di Ferrari o di moto di grande cilindrata e risiedono in ville da sogno, circondati da donne conturbanti.
Ho visto un Paese fortemente maschilista, dove la donna è vista come oggetto sessuale e dove lei stessa si propone come tale, vestendosi, truccandosi ed atteggiandosi in modo provocante. Certo ci sono associazioni che cercano di rivalutare il ruolo della donna ed è vero che molte donne ricoprono ruoli importanti nello Stato, negli uffici e anche nell’esercito. Ma quella che si vede per le strade è una realtà alquanto diversa, dove giovani e vecchi si girano per guardare una chica e le rivolgono apprezzamenti pesanti e lei sorride.
Ho visto un Paese dove lo stipendio medio è di 3500 pesos al mese, un anziano ha diritto a 1500 pesos al mese e un cavolo verza costa 150 pesos e una bottiglia d’acqua 160.
Ho percorso in lungo e in largo il territorio cubano, un’isola lunga quasi quanto l’Italia con grandi pianure al suo interno, ma con pochissimi campi coltivati, la maggior parte dei quali a canna da zucchero sofferente, e altrettante poche coltivazioni di albero da frutto. Un territorio quasi totalmente incolto con qualche vacca magra che si aggira tra l’erba secca.
Ho visto un Paese dove le strade sono ridotte malissimo, dove per fare 150 chilometri ci si impiega almeno quattro ore; un Paese dove, nonostante la carenza d’acqua, ogni strada è allagata dalla perdita delle condutture idriche che, in alcuni casi, sono state rifatte completamente quindici anni fa.
Ho visto un Paese senza quotidiani. In realtà ce ne sono quattro: Granma, Juventud rebelde, Trabajadores e Tribuna de La Habana, ma non si trovano nelle edicole anzi, le edicole non esistono a Cuba e i giornali si possono ricevere solo tramite abbonamento.
Ho trovato un Paese dove non solo circolano le auto USA degli anni ’50, ma anche gli statunitensi, nonostante il divieto del proprio Paese; dove si può comprare la Coca Cola; dove i turisti possono alloggiare negli hotel a cinque stelle (unici posti dove si può risiedere sui vari “cayo” [isole] cubani), la cui proprietà è, nella stragrande maggioranza dei casi, della statunitense Marriott. Se però un lavorante di questi resort si dovesse presentare al lavoro con, per esempio, una maglietta con la bandiera americana verrebbe licenziato.
Ho trovato un Paese dove da ormai un anno e mezzo decine di persone che erano scese in piazza in tutta Cuba l’11 luglio 2021 per manifestare contro l’aumento dei prezzi, la mancanza di medicinali e il regime totalitario, sono ancora oggi in prigione. Durante le proteste e nelle settimane successive, le autorità arrestarono centinaia di persone senza informare le famiglie sulla loro sorte, posero attivisti e giornalisti indipendenti sotto sorveglianza e bloccarono l’accesso a internet. A oggi almeno 700 persone restano in carcere, private della loro libertà solo aver espresso la loro insoddisfazione per la situazione nel Paese.
Ho anche visto un popolo orgoglioso che rivendica la sua diversità ed unicità, ma chi lo fa sono quasi tutti ultrasessantenni.
I motivi
Come ho detto prima non mi permetto di esprimere giudizi sulla situazione cubana; finora ho esposto quelle che erano le mie aspettative e ciò che ho trovato una volta arrivato a Cuba.
Però ho chiesto, ho domandato quasi ad ogni cubano che incontravo il perché di questa situazione ed ho trovato risposte molto diverse.
Ho parlato con un ragazzo che fa il bagnino, ma è laureato in fisioterapia. Questa è una costante a Cuba: laureati che per arrivare alla fine del mese sono costretti al doppio lavoro. Lui era molto arrabbiato, come quasi tutti i giovani con cui ho parlato. Non riesce a far fronte alle necessità sue e della sua famiglia d’origine con quello che guadagna. Lavora per una compagnia europea che a lui e agli altri cubani li paga l’equivalente di 20 euro al mese, quando i lavoratori stranieri nella stessa compagnia prendono dai 3 ai 5.000 euro. «Perché?», mi chiede «Perché il cuoco italiano ha vitto e alloggio pagato e inoltre percepisce tremila euro al mese e io vengo umiliato con 20 euro? Perché? Il fatto è che qui nessuno sa cosa sta succedendo. I giornali non esistono, alla televisione ti dicono che tutto va bene e che il Presidente sta facendo di tutto per migliorare la situazione. Ma è solo propaganda di stato, non è assolutamente vero. Alcuni dicono che è colpa della pandemia, e di sicuro questa ha peggiorato la situazione, ma non è l’unica causa, perché i problemi esistono da diverso tempo, almeno da quando è crollata l’Unione Sovietica. Ma nulla è stato fatto da allora!» Un po’ tra il serio e l’ironico gli dico che sarebbe forse ora di una seconda rivoluzione. «Sarebbe giusto sì, ma come facciamo? Non vedi cosa è successo a chi ha manifestato l’11 luglio? Io ho più di un amico che erano in piazza quel giorno e da allora sono rinchiusi in carcere dove non gli permettono di ricevere visite e stanno morendo di fame, perché, come hai visto anche tu, qui non c’è cibo per noi, figurarsi se danno da mangiare ai carcerati. Io, appena potrò, me ne andrò da qui.»
Qualche giorno prima ero stato invitato ad una festa in una finca (cascina) dove, oltre all’immancabile porchetta, alcuni campesinos (contadini) hanno suonato e cantato per tutto il pomeriggio. Le mani ruvide dal lavoro nei campi, le facce rugose e abbronzate quasi contrastavano con la loro abilità nel suonare la chitarra e nel canto. Contrastavano anche con la loro professione: insegnante di lettere e filosofia uno, ingegnere l’altro. Entrambe settantacinquenni e con una visione diametralmente opposta.
«Il problema è stata la pandemia che ha aggravato la situazione già difficile a causa del blocco degli yankee. Tutto è aumentato e i turisti non si sono fatti vedere. Noi viviamo quasi esclusivamente di turismo, da quando è caduta l’Unione Sovietica. Ora con questi due e più anni senza turisti siamo completamente in ginocchio».
«Non è questo il motivo. Il problema siamo noi cubani. Ci siamo trastullati con gli aiuti provenienti dai Paesi non allineati e da quando non c’è più l’Unione Sovietica non siamo stati in grado di costruire un sistema economico autosufficiente. Se a questo uniamo l’indole oziosa del cubano, soprattutto di quello dell’est, e il fatto che lo Stato non paga i campesinos da quasi due anni, ecco che ti ritrovi con i prezzi alle stelle, senza cibo e senza acqua».
Vicino a noi c’era un giovane tuttofare: da campesinos ad autista di camion anni ’50, a meccanico. Sul suo camion, appesa allo specchietto retrovisore, si faceva notare una bandiera nordamericana. Perché hai appeso la bandiera USA? Non sai che gran parte dei problemi del tuo Paese sono causati proprio dai nordamericani? «Certo che lo so, ma la bandiera, per me, rappresenta il popolo statunitense, non il suo governo. Il popolo e i politici sono due cose differenti. Anche qui a Cuba i politici non c’entrano nulla con il popolo.» Ma il Che ha combattuto per liberare il tuo popolo dall’imperialista nordamericano. «Il Che, se fosse vivo, li ammazzerebbe tutti i politici che ci governano oggi! Questa classe politica è corrotta, fa solo i propri interessi e del popolo se ne frega».
Una sera, dopo aver assistito ad una serata di jazz cubano, cominciata con due ore di ritardo perché in tutta la città era mancata la luce, siamo andati a mangiare in un ristorante particular su di una terrazza. Con questa denominazione si intendono tutte quelle attività di piccoli imprenditori privati, come i taxi particular e le case particular, dove si è ospitati in una camera per gli ospiti di una casa privata.
Quando arrivammo un cameriere stava parlando ad alta voce con quella che, scoprii dopo, essere la proprietaria dell’attività. Si stava lamentando della corrente mancata proprio nelle ore in cui la gente va a mangiare. Essendo io e mia moglie gli unici avventori ci tirarono dentro la discussione.
«Qui non funziona mai niente, siamo già rovinati dalla mancanza di turisti, se ci tolgono anche la corrente come possiamo risollevarci da questa situazione?» Ma questa situazione è dovuta alla pandemia, secondo te? «La pandemia ha acuito dei problemi che esistono da più di sessant’anni!» Esagerato! Vuoi dire che la rivoluzione non ha fatto che aumentare i problemi di Cuba? Mi riesce difficile crederlo. Quando c’era Batista dilagavano la corruzione, la prostituzione e il gioco d’azzardo; le compagnie statunitensi facevano grandi affari con l’esportazione della canna da zucchero, sottopagando i campesinos. «Si questo è vero, ma Fidel ha fatto la rivoluzione solo per mire personali. Quando la rivoluzione è finita avrebbero dovuto esserci libere elezioni, ma non ci sono mai state. Fidel era un megalomane egocentrico. Cos’ha fatto per questo Paese? Nulla! Abbiamo ancora una tecnologia ferma agli anni ’70. Continuiamo ad aggiustare automobili vecchie e stravecchie, camion e autobus che inquinano tantissimo. Quando si rompe il pezzo di un macchinario nelle fabbriche non riusciamo a trovare i pezzi di ricambio perché sono tecnologie obsolete e la fabbrica si ferma. I prezzi sono alle stelle e non si trova nulla da mangiare. Io sono maestro elementare, ma devo fare il cameriere per poter racimolare un po’ di soldi. E se non ci sono clienti non vengo nemmeno pagato». Il popolo cubano ha già fatto una rivoluzione, perché non vi fate sentire? «Perché? Non hai visto cosa è successo a chi ha protestato l’11 luglio? Qui non si può protestare. Io stesso sono finito in prigione perché avevo partecipato a una piccola manifestazione. Questa è una dittatura, mica siamo in Europa?» Non ti credere che in Europa siano tutte rose e fiori. Sono più di sessant’anni che vivo nel capitalismo e ti assicuro che non è una bella cosa. «Lo so, non dico che il capitalismo sia la soluzione, però farei volentieri cambio con te. Qui lavoriamo diciassette, diciotto ore per guadagnare una miseria, per entrare nei negozi e non trovare acqua e cibo per le nostre famiglie. L’altro giorno a mia madre si è rotto un dente. Siamo andati dal dentista, che è molto bravo, nulla da dire, ma non aveva il materiale per fare la riparazione. Dice che sono mesi che non gli arriva il materiale nemmeno per le otturazioni. Ci ha consigliato di andarlo a comprare in una farmacia internazionale, le uniche che hanno i medicinali, perché sono farmacie per gli stranieri, pensando che io conoscessi uno straniero che lo potesse comprare per me. Ma io non conosco nessun turista. Allora lui mi ha dato l’indirizzo di una signora che ha questo materiale e lo vende in nero dentro casa sua. Questa è la nostra condizione, capisci?» Interviene la proprietaria «Una mia amica ha un figlio piccolo, ma non riesce a trovare il latte per dargli da mangiare».
Come ho detto prima, a Cuba è meglio venirci con un pacco di euro, perché con la targheta (bancomat o carta di credito) ci perdiamo moltissimo al cambio. Io non lo sapevo e quindi, ogni due o tre giorni devo recarmi agli sportelli della Careca, ufficio di cambio statale, per ritirare pesos cubani, che pochi vogliono, perché preferiscono tutti gli euro. Anche qui code di ore sotto il sole. Ritiro pesos cubani al cambio di 120 pesos per euro e quando vado a pagare i cubani mi chiedono 150/170 pesos per ogni euro! Di fronte a me una signora che parlando con un signore anziano, si lamentava, appunto, della coda. Era molto accalorata e l’anziano quasi non le rispondeva. Allora cominciò a prendersela con me dicendo che ci mancavano anche gli stranieri ad infoltire la coda. Sul momento non dissi nulla, ma dopo un po’ cercai di smorzare i toni della discussione dicendole che anche in Italia facciamo code agli uffici statali. Lei mi rispose: «Sarà anche così, ma intanto tu ti fai una vacanza a Cuba e per me è impensabile venire nel tuo Paese». Le dissi che non tutti gli italiani si fanno le vacanze a Cuba e che anche da noi la situazione economica è disastrosa. Le chiesi come mai Cuba fosse in questa situazione. «Perché ai giovani non gliene frega niente della politica. Le ragazze sono solo interessate a rifarsi le unghie e i ragazzi a girare per le strade.» E come si possono permettere di non lavorare? «Perché vivono grazie ai pochi soldi che hanno messo da parte i loro genitori con tanta fatica». A questo punto la persona anziana mi fece segno di finire qui la conversazione. Quando ci ritrovammo spalla a spalla agli sportelli mi sussurrò «Non è bene fare certi discorsi per strada.»
La stessa cosa mi capitò in un bar dell’Havana, dove si dice che andassero a far baldoria il Che con Camillo Cienfuegos. Anche lì parlai con alcuni avventori della situazione di Cuba; loro erano accaniti sostenitori di Fidel, descrivendolo come un genio che riusciva a risolvere qualunque problema si presentasse. Devo dire che molti cubani mi hanno descritto Fidel come una persona di genio che sapeva risolvere le situazioni più difficili. La proprietaria di una casa particular mi disse che, dopo la rivoluzione, Fidel, che come sapete era avvocato, chiamò una dottoressa perché lo aiutasse a studiare medicina, in modo da capire meglio come affrontare la situazione cubana in campo sanitario. Lei sapeva questo perché la dottoressa in questione era una sua cara amica.
Tornando al locale de L’Havana, i ragazzi con cui stavo parlando, di cui uno era un musicista che per tirare avanti lavorava anche come cameriere, quando chiesi dove poter comprare un quotidiano, si misero a ridere. Chiesero al padrone del locale se aveva un giornale e lui, dopo aver trafficato molto sotto al bancone, mi porse una copia del “Granma” dell’agosto 2014. «E’ la copia più recente che ho», mi disse. Il musicista «Qui non c’è informazione, nessuno sa come stiano realmente le cose. Da quando non c’è più Fidel tutto è cambiato; si è instaurato un sistema di delazione per cui nessuno vuole più parlare apertamente della situazione politica. Anche tu faresti bene a stare attento con chi parli. Ad ogni modo, è vero che non ci sono quotidiani, ma le discussioni avvengono soprattutto nei luoghi di lavoro. Li si dibatte molto la situazione cubana.»
Comunque, giusto per informarvi, il Granma è composto di quattro fogli di cui uno dedicato allo sport.
Colpa della pandemia? Colpa dell’embargo? Colpa del crollo dell’Unione Sovietica? Colpa dei politici attuali o colpa dei cubani stessi? Forse di tutte queste cose messe assieme.
So solo che lascio Cuba con un vuoto nel mio cuore, con molto dispiacere per le sorti del popolo cubano e per la probabile fine di un’ideologia, forse di un esperimento sociale, come ho detto in precedenza. Naturalmente quanto da me scritto non esaurisce il discorso su Cuba, molto ci sarebbe da dire su come, per esempio i cubani vivono in modo diverso la figura del Che, praticamente mitizzato, e quella di Fidel, capo tanto amato quanto odiato. Ho semplicemente voluto mettere per iscritto le mie sensazioni e quelle di chi Cuba la vive sulla propria pelle.
Ho anche voluto accostare due comunità, quella cubana e quella di Auroville, che stanno dritte controvento da diversi decenni, baluardi di un’alternativa al modo di vivere occidentale che si sta allargando a macchia d’olio in tutto il mondo. Tutti omologati, tutti uguali.
Danilo D’Angelo
Danilo D’Angelo
Danilo D’Angelo di professione architetto. Ha insegnato per alcuni anni. Dirige la Naveen Nursery and Primary School a Varanasi India. Membro della segreteria dell’associazione Centro di Gravità.
FONTE: https://liberopensare.com/cuba-che-ne-e-stato-della-rivoluzione/
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