Fallimento della Silicon Valley Bank. L’asino c’è cascato ancora
da LA CITTA’ FUTURA (Ascanio Bernardeschi)
A causa della volontà di tutelare i profitti perseverando con le politiche liberiste, il capitalismo rischia di ricadere nella crisi da cui non era ancora uscito. È urgente costruire un’alternativa.
Nel cuore dell’innovazione tecnologica statunitense, nella mitica Silicon Valley, e nel bel mezzo dei tentativi di quella potenza di riportare in patria la produzione di microchip che era stata appaltata a Taiwan, il 10 marzo la banca californiana Silicon Valley Bank (SVB) è fallita. Per dimensioni non si tratta di una delle primissime banche statunitensi, ma è pur sempre la sedicesima in graduatoria, vantando un capitale di 209 miliardi, ed è comunque la più grande banca che sia fallita dopo la crisi del 2007/2008. Inoltre aveva fra i suoi clienti principali quasi la metà delle start up (fuori dall’abusato gergo anglicista, imprese con progetti innovativi, proprio quelle che Joseph Schumpeter elogiava come trainanti dei profitti e dello sviluppo) degli States, che ora si trovano in difficoltà a gestire il proprio denaro o quello che la stessa banca gli aveva affidato.
Se ci limitiamo a guardare gli aspetti fenomenici le cose sono andate grossomodo nel modo seguente. La banca aveva impiegato una parte delle sue attività in titoli del debito pubblico a lunga scadenza, generalmente ritenuti sicuri. Il valore dei titoli però non dipende solo dal capitale nominale sottoscritto ma anche dal tasso di interesse di mercato. Facciamo un esempio. Compro un titolo per 100 dollari e il titolo rende 3 dollari all’anno di interesse (tasso applicato 3%). Finché il tasso di mercato si avvicina a quello assicurato dal titolo, nessun problema. Ma se il tasso di mercato diventa il 6% posso avere la stessa rendita di 3 dollari all’anno acquistando un titolo di soli 50 dollari (50 x 6 : 100 = 3). Di conseguenza, sul mercato, per assicurarsi questa rendita, conviene spendere 50 e non 100 dollari e così il titolo di stato viene richiesto solo se si svaluta, se si può comprare a 50. Questo approssimativamente, perché occorre considerare anche il valore del capitale che alla scadenza del titolo viene restituito. Ma l’esempio serve solo per spiegare perché al crescere dei tassi di mercato un titolo a tasso fisso si svaluta.
Ciò è proprio quello che è successo. La Federal Reserve (FR, la banca centrale americana) aveva ripetutamente aumentato il tasso ufficiale di sconto, come sta facendo la nostra Banca Centrale Europea (BCE), per cercare di fronteggiare l’inflazione e tale aumento si ripercuote sui tassi di interesse di mercato. In tal modo l’attivo della SVB si è svalutato. Una volta, prima delle clintoniane liberalizzazioni, c’era una suddivisione di compiti fra le banche. Quelle che raccoglievano depositi non potevano effettuare prestiti a lunga scadenza. Oggi è una giungla e la SVB, come molte altre, utilizzava i soldi dei depositi in conto corrente per finanziare gli investimenti delle imprese tecnologiche. Quando essa ha avuto bisogno di denaro fresco per fare fronte ai propri impegni o per rimodulare il proprio portafoglio alla luce del brusco cambiamento dei tassi, mentre il suo capitale era immobilizzato in titoli a lunga scadenza, ha dovuto venderne un bel po’ sul mercato al prezzo svalutato e quindi con una rimessa. Al fine di ricostituire l’entità del capitale netto sufficiente a garantire i depositanti e gli speculatori e a rientrare nei parametri di solvibilità richiesti, si è resa necessaria una ricapitalizzazione, cioè l’emissione di azioni di quella banca e il loro collocamento nei mercati finanziari per un valore di 2,25 miliardi di dollari.
Alla notizia di queste operazioni, le principali imprese tecnologiche della California, che avevano depositato i loro soldi presso la SVB, nel timore che quella banca non fosse in grado di restituirli, hanno effettuato la consueta corsa agli sportelli. In questi casi nessuna banca sarebbe in grado di soddisfare la richiesta di contanti, perché solo una piccola percentuale dei depositi viene trattenuta a riserva, altrimenti la banca non potrebbe prestarli ad altre imprese o a consumatori. La SVB ha dovuto quindi impedire ai depositanti di ritirare i contanti. Ciò ha fatto crollare ulteriormente il prezzo delle sue azioni, che in parte erano detenute da altre banche, trascinate così nel vortice della riduzione dei rispettivi capitali. In conseguenza di ciò è stata interrotta la vendita di azioni e si è reso necessario l’intervento della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), un’agenzia governativa indipendente, che assicura i depositi bancari e controlla il sistema bancario e finanziario, e che ora funge da curatore fallimentare: liquiderà il capitale della banca per rimborsare i propri clienti, inclusi depositanti e creditori.
Il presidente USA Joe Biden si è precipitato ad assicurare che i depositanti non perderanno niente, mentre ci scapiteranno solo gli speculatori (ma nel gergo alla moda utilizzato si chiamano “investitori”), per i quali il rischio è il loro mestiere. Tuttavia, dopo il suo discorso, le azioni della holding Western Alliance Bank si sono svalutate riducendosi a un quarto del valore che avevano prima.
Altri hanno cercato di minimizzare, sostenendo che la banca era piccola, che siamo di fronte a un caso isolato e che il comportamento di quella banca era particolarmente spericolato. Tuttavia questo improvviso fallimento ha sconvolto i mercati finanziari e determinato il congelamento di miliardi e miliardi di proprietà di imprese e speculatori.
Per comprendere il contagio occorre tenere presente alcuni elementi condivisi da tutto il sistema bancario. I bassi tassi voluti dalla FR e dalla BCE in epoca di pandemia hanno invogliato molte banche a investire in titoli pubblici a lunga scadenza, aventi un tasso superiore. Ma quando entrambe hanno alzato i tassi di interesse il valore di tali attività è diminuito e molte banche hanno registrato perdite più o meno dichiarate, che per la Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), altra agenzia governativa indipendente preposta a “mantenere la stabilità e la fiducia del pubblico nel sistema finanziario della nazione”, ammontano a 620 miliardi. Analogamente si è ridotto il valore delle azioni e delle obbligazioni delle imprese tecnologiche.
Mentre la commissaria UE per i Servizi finanziari Mairead Mcguinness, nell’intento di contenere il panico, dichiara che “l’impatto sembra contenuto”, sono bastate voci sulla necessità di una sua ricapitalizzazione per far perdere a Credit Suisse il 24,24% delle sue quotazioni in borsa.
Non è un mistero che l’aumento dei tassi comporti una selezione delle imprese, la scomparsa di quelle marginali e una spinta alla centralizzazione dei capitali, come ha ripetutamente sottolineato, fra gli altri, Emiliano Brancaccio. Questa selezione può avvenire sia nei comparti produttivi che in quello finanziario: l’economista Michael Roberts riferisce che Alt ha stimato nel 28% la perdita di capitale nell’intero settore bancario a seguito degli aumenti dei tassi di interesse. Quindi lo scoppio della bolla era prevedibile. Scoppio che ha avuto per oggetto anche le criptovalute, caratterizzate da un periodo iniziale di euforia per i facili guadagni a favore dei primi arrivati che hanno partecipato a questa “catena di Sant’Antonio” e da pesanti perdite ai danni degli ultimi, come è sempre per queste catene.
Altro elemento destabilizzante è che a fronte del tasso di circa il 4,5% praticato dalla FED, i depositanti nelle banche ricevono circa lo 0,2%. È normale quindi che essi ritirino il contante e che le banche si trovino in difficoltà e ritirino i loro depositi presso la banca centrale. Infatti questa è l’altra faccia delle vicende di questi giorni.
Per concludere con i rischi di esplosione occorre rammentare anche l’enorme mole di titoli derivati in circolazione, decine di trilioni di dollari in pancia a JP Morgan Chase e ad altre grandi banche. Gran parte di essi sono scommesse sull’andamento dei tassi, sui prezzi delle obbligazioni, che fa lo stesso, e roba simile. Chi ha vinto la scommessa raggranellerà consistenti utili. Ma a fronte di questi guadagni ci saranno altrettante perdite.
Alla luce del complesso dei fatti sopra descritti non è fuori luogo aspettarci altri crack consistenti e loro ricadute non secondarie nell’economia reale.
Vale la pena di riferire anche delle ripercussioni in zona euro. L’indice settoriale europeo che sintetizza l’andamento degli istituti di credito ha lasciato subito sul terreno un 6%, poco meno l’indice FTSE MIB della borsa di Milano (-4%). Ma i ribassi sono continuati nei giorni successivi. Questo pessimismo è motivato dal fatto che le banche italiane detengono in portafoglio molti titoli di Stato a lunga scadenza i cui prezzi negli ultimi mesi, sempre a causa dell’andamento dei tassi, si sono svalutati. Di conseguenza anche in Unione Europea e in Italia i politici e i responsabili del rispetto delle regole finanziarie stanno emulando Biden nel tentativo di rassicurare i “mercati”.
Insomma ci vuole un po’ di avventatezza a pronosticare che non si determinerà un effetto domino nel sistema economico e finanziario e che il capitalismo non precipiterà nell’ennesima crisi, posto che da quella scoppiata nel 2008 si sia mai usciti.
Vediamo ora l’essenza che sta dietro il fenomeno. Ci sta che il capitalismo è in profonda crisi. La diminuzione del saggio del profitto registratasi fino verso la fine degli anni Settanta è stata affrontata con la finanziarizzazione, con la centralizzazione dei capitali e soprattutto con le politiche liberiste che hanno determinato una buona redistribuzione della ricchezza dai salari ai profitti. Ciò tuttavia ha determinato una contrazione della domanda a cui si è risposto con il credito facile. Quest’ultimo ha condotto al default dei mutui subprime e della Lehman Brothers. Le difficoltà del sistema bancario sono state affrontate con forti immissioni di denaro pubblico, il famoso quantitative easing. In un’economia ancora claudicante e in cui si preparava l’ennesimo scoppio della bolla si è abbattuta la pandemia che, sempre per la volontà pervicace di non sacrificare i profitti e di evitare conseguentemente politiche fiscali espansive, è stata affrontata senza riguardo alla sanità, ma con bonus tesi ancora a ristorare i profitti sia incentivando determinati consumi sia elargendo incentivi alle imprese, una vera e propria socializzazione delle perdite, e con l’abbassamento insensato dei tassi, fino a renderli negativi.
Con la guerra, l’espansione delle spese militari e le sanzioni economiche alla Russia, che ci hanno tagliato fuori dall’importazione di materie prime e prodotti energetici a basso costo, indispensabili alle nostre industrie, l’inflazione ha raggiunto livelli sconosciuti da molti decenni. Ancora una volta si è risposto con lo strumento monetario, nonostante l’inflazione fosse da costi e non da eccesso di domanda, aumentando vertiginosamente i tassi di interesse e annunciando nuovi aumenti in futuro. Il detto popolare dice che l’asino non cade una seconda volta dove è già caduto. Ma gli asini che hanno la responsabilità delle sorti del “mondo libero e democratico” ci sono cascati ancora e raccolgono quello che hanno seminato. Anzi, ci sono cascati per la terza volta perché anche in occasione della grande crisi del ’29 questa fu preceduta da una restrizione della politica monetaria che venne dopo un periodo di denaro facile eccezionale!
Ho l’impressione che i decisori della nostra politica economica, e quindi il capitale da essi rappresentato, siano in una situazione convulsa e, volendo deliberatamente escludere la via maestra del controllo pubblico del sistema bancario e dei settori produttivi strategici, non sappiano che pesci prendere. Non è quindi sorprendente che molti paesi, meno assoggettati ai comandi dell’imperialismo USA, stiano chiedendo di aderire ai BRICS, la cui produzione ha già superato quella del famigerato G7.
La situazione sarebbe matura perché il mondo del lavoro rivendichi quanto meno una politica economica autonoma e orientata a una maggiore giustizia sociale, accanto all’adesione a un ordine mondiale multipolare, quali premesse per un’alternativa di sistema. Ma decenni di ubriacature liberiste da parte della cosiddetta sinistra rendono difficile questa presa di coscienza. Bisogna però provarci, a partire da una ferma opposizione a questo governo.
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