Equilibri previdenziali e lavoro meccanico
di TELEBORSA (Guido Salerno Aletta)
Oltre l’allungamento della vita lavorativa e la Previdenza complementare
È ancora vivace, in Francia, la protesta contro la riforma previdenziale, che ha allungato da 62 a 64 anni l’età minima per andare in pensione.
Il governo ne ha sostenuto la indispensabilità, per via dello squilibrio dei conti: il deficit tra contributi e prestazioni va coperto con erogazioni a carico della finanza pubblica, con un ulteriore aggravio in termini di debito pubblico: nel 2022 è arrivato a sfiorare i 3 mila miliardi di euro. I mercati finanziari potrebbero cominciare a preoccuparsi della tenuta delle finanze pubbliche francesi, aumentando i tassi: una situazione che l’Italia conosce perfettamente.
D’altra parte, la Francia è rimasta in coda rispetto agli altri Paesi concorrenti, che hanno portato l’età della pensione a 67 anni.
C’è da dire la verità, in proposito: l’età reale non sempre coincide con quella legale.
In Italia, dopo la lunghissima stagione delle “salvaguardie”, i provvedimenti volti ad assicurare la pensione ad una serie di lavoratori che erano in attesa di andare in pensione con le regole precedenti a quelle più rigorose dettate della riforma Fornero, sono state adottate regole temporanee, come la “Quota 100” o l’Opzione Donna. Contemporaneamente, molte aziende stanno cercando in vario modo di accelerare il ricambio generazionale, prepensionando a proprie spese il personale più anziano: lo “scivolo”, nel caso delle banche e delle telecomunicazioni, arriverebbe addirittura a sette anni.
In un sistema economico, il fabbisogno di lavoro è un dato che dipende da molteplici fattori. Ma un sistema previdenziale a ripartizione, al di là dei calcoli attuariali che vengono effettuati per stabilire i livelli di equilibrio, opera una compensazione continua tra i contributi previdenziali pagati mensilmente dai lavoratori in relazione alle loro retribuzioni e le prestazioni pensionistiche pagate mensilmente in relazione alla vita lavorativa precedente.
Quando si dice che “non ci sono più i soldi per pagare le pensioni”, si fa riferimento a questo rapporto tra incassi e pagamenti: se mancano i soldi per pagare le pensioni, si blocca il pensionamento di coloro che sono più vicini all’età pensionabile. In questo modo, per un certo numero di anni, costoro continueranno a versare i contributi sulla retribuzione anziché iniziare a percepire la prestazione pensionistica. E’ chiaro che poi si fanno tutta una serie di modifiche per abbassare l’importo della pensione: invece di prendere come riferimento l’ultimo stipendio, prima si è fatta la media degli ultimi dieci anni, ed infine il calcolo sull’intera vita contributiva: è un altro modo per raggiungere l’equilibrio finanziario tra prestazioni ed erogazioni.
C’ stato un altro tentativo, più strutturale: quello di creare un doppio regime, introducendo la “Previdenza complementare”. In pratica, si affermava che il sistema di previdenza obbligatoria avrebbe dovuto assicurare il “minimo vitale”, mentre il di più doveva essere lasciato alla iniziativa dei singoli. In realtà, per poter funzionare, si sarebbe dovuto ridurre il contributo obbligatorio al minimo, per lasciare una disponibilità di reddito da destinare alla adesione ai Fondi di Previdenza complementare: ma, se si fosse fatto così, si sarebbe mandato a fondo il sistema vigente di previdenza obbligatoria. Per evitare il tracollo, sono stati concessi vantaggi sul piano fiscale, ma in realtà il sistema non ha funzionato: i Fondi sono in crisi. Dipendono come tutti gli investimenti finanziari dalla situazione dei mercati, e soprattutto dalle rendite pagate sui titoli del debito pubblico. Ma, con i tassi negativi degli ultimi anni decisi dalle banche centrali, è stato un disastro.
C’è un altro aspetto da considerare: le imprese, per risparmiare sui costi, cercano da sempre di utilizzare la manodopera meno costosa, soprattutto quella precaria, e soprattutto di sostituire il lavoro dei dipendenti con le macchine. Il lavoro del centralinista è stato sostituito, come quello del cassiere di banca: se il fatturato rimane identico, la voce dei costi di gestione è cambiata: riducendo il monte salari ed aumentando gli investimenti in apparati che sul conto economico pesano in termini di ammortamento e di spese di manutenzione.
Ciò che cambia, a livello previdenziale, è la quota dei contributi versati: sul valore della produzione realizzato dalla “macchina” che sostituisce il lavoro dell’uomo non si pagano i contributi. La “macchina” sta a patrimonio, viene ammortizzata sul conto economico e poi cancellata a fine utilizzo, per essere rimpiazzata da un’altra macchina che viene acquisita ricorrendo a nuovi strumenti finanziari. Il vero vantaggio è che il “lavoro” della macchina ha solo un costo finanziario e non contributivo.
La sostituzione del lavoro umano con quello meccanico incontra due limiti: la capacità di svolgere una stessa attività e la convenienza nei costi. Alcuni lavori manuali potrebbero essere benissimo sostituiti dal lavoro meccanico, ma ci sono casi in cui il costo della macchina è superiore a quello del lavoro. Nelle campagne, è più conveniente usare il lavoro di immigrati, in nero e che dormono nelle baracche, piuttosto che fare investimenti in tecnologie con le serre e la meccanizzazione della raccolta. Se questi lavoratori dovessero essere messi in regola, dal punto di vista retributivo e contributivo, la meccanizzazione sarebbe una alternativa economicamente valida.
La fungibilità tra “lavoro umano” e “lavoro meccanico” è nota da tempo: ma se è stupido pensare di fermare questo processo, renderlo equilibrato è indispensabile perché l’allungamento della vita lavorativa è un ostacolo alla dinamica aziendale ed all’ingresso delle nuove generazioni nel mondo del lavoro.
Nessuno si meraviglia della tassa sullo smaltimento che è stata introdotta sui prodotti elettrici e sugli apparati elettronici: è un costo che va posto a carico dell’utilizzatore e non della società.
Allo stesso modo, serve una indifferenza in termini di costo sociale tra il “lavoro meccanico” ed il “lavoro umano”: anche sul primo vanno pagati i contributi previdenziali.
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