Il senso attuale del 25 aprile
DA LA FIONDA (Di Fabrizio Venafro)
Con le grandi manifestazioni del 25 aprile, è stata ribadita la natura antifascista dell’Italia che si stringe attorno alla costituzione nata dalla sconfitta del nazifascismo. Ma ci piace anche pensare che tale manifestazione di antifascismo sia un monito, ossia che non si può tirare troppo la corda dell’autoritarismo e della spoliticizzazione tecnocratica.
Il fascismo è stato una fase della storia del nostro paese e ha forgiato in quell’esperienza una propria ideologia. Un’ideologia dai caratteri ben precisi: il rifiuto di una forma di governo democratica, il nazionalismo esasperato, l’esaltazione della violenza e della guerra, un sistema monistico di governo, ossia il riconoscimento di una sola istanza contro ogni pluralismo sociale e politico. Corollario di tali caratteri sono la repressione del dissenso, la negazione delle libertà di stampa, di espressione, di riunione e di manifestazione di idee che non coincidano con quelle del regime. A questo occorre aggiungere la socializzazione delle masse, ossia la loro inclusione passiva in un sistema monistico-totalitario ed è forse questa la vera originalità del fascismo.
Il fascismo è un episodio concluso, legato a determinate contingenze storiche, che difficilmente si potrà riproporre nelle forme in cui si è manifestato nel secondo ventennio del Novecento. È improbabile che si ripresentino camicie nere, saluti fascisti e adunate di massa inneggianti il capo supremo, se non da parte di gruppi minoritari. Ma le sue caratteristiche profonde, depurate dalle manifestazioni di folclore, sono tutt’altro che scomparse dal panorama politico globale. Nel parco di Montesole, in una targa, è riportata una frase di Dossetti che recita: so bene che la storia non si ripete mai nella stessa maniera però si possono dare circostanze simili.
Negli stessi Stati Uniti, tra i vincitori del nazifascismo, fino agli anni sessanta veniva praticato un apartheid che nulla aveva da invidiare a quello delle leggi razziali nazifasciste tra il 1933 e il 1939. Negli stati del sud, l’odio razziale era codificato infatti in un sistema giuridico denominato Jim Crow. Questo non solo permetteva le forme abiette della separazione razziale, ma consentiva anche linciaggi e omicidi nei confronti degli afroamericani che rimanevano sostanzialmente impuniti. Nel sistema razziale nordamericano difficilmente un nero poteva sfuggire alla persecuzione. Se un ebreo poteva, per ipotesi, dotarsi di documenti falsi e nascondere la propria origine, tale possibilità era evidentemente negata al nero che portava sulla propria pelle il marchio dell’infamia. Inoltre, se è ancora dibattuto se la popolazione tedesca o anche italiana fossero d’accordo con le leggi razziali ovvero se queste fossero frutto del delirio dei capi, negli Stati Uniti del sud il razzismo era largamente condiviso, fino a inscenare supplizi, linciaggi, torture pubbliche, a beneficio di un pubblico bianco plaudente che non disdegnava di farsi fotografare a fianco dei corpi impiccati dei neri. Quando parliamo dell’America quale faro mondiale della democrazia, dobbiamo avere ben presente tali immagini. Loic Wacquant, sociologo che ha dedicato una monografia al Jim Crow, scrive che nessun altro regime segregazionista della storia contemporanea, compresi il Sudafrica dell’apartheid e la Germania nazista, si è mai fondato sulla coercizione fisica più bruta e sulla brutalità omicida quanto il regime di Jim Crow nel sud degli Stati Uniti (in Le Monde diplomatique, aprile 2024).
Oggi, il razzismo è ampiamente praticato da Israele e, al netto dell’ecatombe che si sta verificando a Gaza, dal 1948 lo stato sionista persegue una politica di pulizia etnica tesa a realizzare uno stato a esclusiva presenza ebraica. L’eccidio di Gaza è uno dei tasselli per la costruzione di un grande stato ebraico in Palestina. E anche questo nel silenzio delle maggiori democrazie occidentali, a dimostrazione che la patente di democrazia, come la ragione, stanno dalla parte di chi ha i mezzi e il potere di fornire di senso le parole.
La canzone Bella ciao, della resistenza italiana, è diventata un inno alla liberazione cantato in tutto il mondo. Non è una forzatura portare le bandiere palestinesi nella ricorrenza del 25 aprile, perché quella palestinese è la resistenza odierna contro un oppressore che manifesta molti dei caratteri del nazifascismo, come i pogrom, gli assassini impuniti da parte dei coloni, i bombardamenti da parte dell’esercito regolare che ci riportano alla mente Guernica. Analogamente, festeggiare il 25 aprile non significa solamente ricordare la liberazione avvenuta ottant’anni fa, ma auspicare che la lotta continui per abbattere i regimi oppressivi che non sono affatto scomparsi nel 1945.
Persino nell’occidente cosiddetto democratico, l’oppressione è tutt’altro che scomparsa. Pier Paolo Pasolini, nel 1974, denunciava che nessun centralismo fascista fosse riuscito a fare ciò che aveva realizzato la civiltà dei consumi. E questo perché quest’ultima aveva realizzato quell’adesione convinta da parte delle masse che il fascismo aveva auspicato ma che non era riuscito a raggiungere, nonostante lo sforzo profuso attraverso le organizzazioni dopolavoristiche, le adunate di massa, la liturgia di regime. La civiltà dei consumi, con il suo modello di potere invisibile e intangibile, aveva fatto breccia negli animi delle persone, raggiungendo quell’omologazione che non era riuscita a nessun altro regime. Oggi, attraverso il trionfo dell’ideologia neoliberale, quell’omologazione ha fatto un salto di qualità. L’esaltazione del mercato concorrenziale, della competizione assurta a cifra esistenziale ha sostituito quella della guerra inneggiata dai fascisti. La sostanza, però, è la stessa. Non si tratta di una sublimazione perché l’economia può essere la prosecuzione della guerra con altri mezzi, più pervasivi e micidiali. Scriveva Bertold Brecht: perché mandare dei sicari quando potremmo ricorrere a degli esattori? Concetto ben presente a Fmi e Banca mondiale, che hanno fatto delle politiche di aggiustamento strutturale, imposte ai paesi in difficoltà, degli strumenti per la penetrazione dei principi neoliberali che facessero strame delle logiche solidali per sostituirle con la competizione assurta a misura dell’efficienza economica.
Oggi, la competizione, assurta a cifra esistenziale, è un mantra difficilmente contestato. La soggettivazione delle colpe per l’insuccesso individuale, la frammentazione sociale attraverso gli attacchi alle organizzazioni del lavoro ma anche a quelle che perseguono obiettivi non economici ma solidali, l’espansione di logiche di mercato e competitive a strati della società che prima ne erano esclusi, rappresentano altrettanti tasselli per la costituzione di un nuovo sistema monistico. Si tratta di un sistema a ideologia unica, giacché non di fine delle ideologie si dovrebbe parlare, in riferimento al XXI secolo, ma di fine del pluralismo ideologico. Se il fascismo è stata la risposta reazionaria al problema dell’avvento delle masse nell’agone politico, oggi il capitalismo neoliberale rappresenta un’analoga risposta aggiornata ai tempi correnti. La liturgia politica è stata sostituita da quella del consumo, i sacrari dei caduti per la rivoluzione fascista dai centri commerciali, l’esaltazione della guerra da quella per il mercato competitivo, il governo dittatoriale da una farsesca dialettica tra governo e opposizione in cui entrambi i contendenti condividono il sistema che non può essere messo in discussione perché considerato un dato immutabile. Margini di cambiamento non ce ne sono. Soggettività politica alternativa neanche. La libertà di stampa è anch’essa una farsa, non a causa della censura di alcuni autori o non solo per quello, ma per il diverso potere tra chi ha in mano le maggiori testate giornalistiche e televisive e chi non dispone di forza economica sufficiente per far sentire la propria voce. Spaventano ancora il potere le manifestazioni in cui gli individui pongono i propri corpi a presidio degli spazi urbani in un’era dove ogni dibattito è spostato sull’etere. E qui, occorre ancora esercitare una repressione fisica, per ricordare che la libertà di manifestazione c’è solo se non si mette radicalmente in discussione il sistema. I cardini fondanti la democrazia, anche quella liberale, ossia libertà di stampa, di riunione, di associazione, di manifestazione, sono sempre più fragili; soprattutto oggi che si stanno affilando le sciabole per nuove guerre in spregio ai sentimenti pacifisti delle popolazioni. Se si pensa a quanto scritto sopra, circa i caratteri del fascismo, non sembra ci sia molta distanza. Il fascismo non c’è più, ma i principi della resistenza non sono ancora affermati.
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