Alcuni miti sionisti da sfatare
di TERMOMETRO GEOPOLITICO (Daniele Perra)
Alcuni miti sionisti da sfatare.
1) “Palestina terra desolata trasformata in giardino”. Ad onor del vero, la Palestina era in costante sviluppo nel periodo ottomano. L’agricoltura era ben sviluppata ed i prodotti della regione venivano esportati in tutto il resto dell’impero. Questa crescita economica, per tutto il corso dell’Ottocento, favorì l’immigrazione (non solo ebraica) nell’area.
2) “Trumpeldor”. Joseph Vladimirovic Trumpeldor era un ex militare russo (perse un braccio nel conflitto russo-giapponese del 1904-1905) che, dopo aver aderito al sionismo, migrò in Palestina, dove si stabilì in una colonia in Galilea. Prima di morire a seguito di uno scontro armato con degli sciiti libanesi avrebbe dichiarato: “En davar, tov lamut be’ad artzenu” (non importa, è bello morire per il proprio Paese). Cosa che l’ha trasformato in “eroe” e “martire” del sionismo. In realtà, Trumpeldor non conosceva (se non a malapena) l’ebraico, parlava russo (la sua lingua madre) e le sue ultime parole vennero raccolte da un dottore americano (che non parlava russo) che lo stava assistendo sul letto di morte. Non solo. La sparatoria in cui venne ferito a morte sarebbe stata accidentale.
3) “Palestina “terra senza popolo””. In realtà, sin dai primi del Novecento si sviluppa in Palestina una forma di coscienza nazionale attraverso diverse pubblicazioni in cui intellettuali e religiosi della regione dibattono sul futuro della loro terra e su come rapportarsi con la crescente immigrazione ebraica (si pensi alle riviste “al-Karmil”, stampata ad Haifa, oppure a “Filistin”, stampata a Giaffa). Tale coscienza nazionale si riflette anche nelle prese di posizione del Gran Muftì per la tutela dei luoghi santi dell’Islam (riconosciute dai “White Papers” britannici), o nelle lotte anticoloniali dei portuali di Haifa, sostenute dal ben noto predicatore/combattente Izz al-Din al-Qassam.
4) “Non vi è stato alcun “furto di terra””. In realtà, nel 1947, il fondo nazionale ebraico possedeva solo il 6% del territorio della Palestina sottoposta a mandato britannico. A seguito del conflitto del 1948, i sionisti hanno confiscato le terre dei profughi palestinesi, dichiarati come “proprietari assenti”, per redistribuirle ai nuovi arrivati. Inoltre, prima della risoluzione ONU che stabiliva la divisione in due Stati del territorio mandatario, i sionisti avevano accuratamente mappato l’intera regione, valutando quali fossero le aree da sottoporre a loro diretto controllo. I criteri principali, naturalmente, erano fertilità della terra e presenza di risorse idriche. Laddove questi criteri erano presenti, la presenza araba andava eliminata. Qualcosa di simile è avvenuto dopo il 1967 in Cisgiordania. Qui, l’esercito sionista dapprima requisiva specifiche aree dall’importante valore strategico (alture o valli) per ragioni militari e, successivamente, vi favoriva l’instaurazione di colonie. Non a caso il battaglione di coloni “Giovani delle colline” è tra quelli che si sono macchiati dei crimini più efferati nell’attuale pulizia etnica a Gaza.
5) “La “brigata ebraica””. La cosiddetta “brigata ebraica” (composta di ebrei palestinesi) non era inserita all’interno del CLN. Era integrata nell’esercito britannico ed ha avuto un ruolo del tutto marginale nella “liberazione” – difficile chiamare liberazione quella che si è rapidamente trasformata in nuova occupazione – dell’Italia. A questo proposito, sarebbe anche interessante approfondire i legami tra sionismo e fascismo, visto che il padre del “sionismo revisionista” Vladimir Jabotinsky (a cui si ispira il Likud di Netanyahu) era un grande ammiratore del Duce. Lo stesso Mussolini, nel 1927, ebbe modo di dichiarare: “voi dovete avere un vero Stato e non il ridicolo focolare che vi hanno offerto gli inglesi”. Appare evidente come Mussolini, alla pari di Stalin dopo di lui, pensò (sbagliandosi) di poter utilizzare il sionismo in chiave antibritannica. Favorevole al sionismo era anche il comandante della Gestapo Reinard Heydrich che, nel 1935, ebbe modo di esprimere la sua simpatia per coloro i quali (tra gli ebrei) “professano una concezione strettamente razziale e con l’emigrazione contribuiscono a edificare il loro Stato ebraico”.
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