“Voglio iniziare con il ringraziarvi per concedere ad un Consigliere per la Sicurezza Nazionale di discutere di economia”. Sono queste le parole con cui Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale e figura apicale negli apparati della sicurezza nazionale statunitense, ha aperto il suo discorso sul “rinnovamento della leadership economica americana” il 27 aprile presso la Brookings Institution.
Parole fondamentali, dirette e dal valore simbolico enorme, che rimarcano senza dubbio la straordinarietà e la storicità dei tempi che stiamo vivendo e che vivremo nei prossimi mesi e anni. Molti osservatori hanno giudicato storica la portata questo discorso, a tal punto da considerarlo come il perno dell’annuncio di una nuova strategia globale di politica economica ed estera a guida statunitense e fino a menzionare, come d’altronde lo stesso Sullivan ha fatto, l’avvio di un nuovo “Washington Consensus”. Verrebbe messo in discussione un vecchio paradigma che ormai, dal punto di vista statunitense, sembra necessario lasciare alle spalle, poiché non più favorevole al mantenimento del livello di potenza globale americano.
Necrologio per il “Washington Consensus”
Con l’espressione “Washington Consensus” si fa riferimento in letteratura a quell’impostazione di politica economica su scala globale apparsa a partire dagli anni Novanta, in corrispondenza della fine del bipolarismo Usa-Urss. Si tratta in sostanza dell’allargamento del modello americano e della sua esportazione in larga parte del mondo, plasmando la politica internazionale secondo dettami neoliberali, grazie anche all’appoggio di istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale. Un insieme di politiche di liberalizzazione accompagnate da deregolamentazione e contenimento della spesa pubblica in cambio di sostegno economico e politico internazionale.
Il discorso di Sullivan ha analizzato i risultati di circa trent’anni di tale strategia sul piano internazionale. La sua conclusione è stata che questo sistema non solo ha permesso lo sviluppo di un solido vantaggio economico per il maggior rivale odierno degli Stati Uniti, ossia la Cina, ma anche che esso è stato (almeno in parte) all’origine dei malesseri e dei problemi interni che hanno caratterizzato gli Usa negli ultimi decenni, rendendo fertile il terreno per l’affermarsi del trumpismo.
Secondo il consigliere per la sicurezza nazionale, la globalizzazione e l’ordine post-1945 (guidati per molti anni da un solo forte attore) non costituiscono più un vantaggio simmetrico, poiché hanno causato grossi danni alla filiera interna del lavoro e alla classe media americana, legando eccessivamente le economie occidentali alla rivale cinese e creando così catene del valore instabili. La globalizzazione ha permesso qualcosa che Washington non può accettare ancora a lungo: un’intensa crescita economica e militare della Cina. Le relazioni fra le due potenze sono giunte a un punto di forte tensione mai raggiunto prima, tanto che alcuni paventano un superamento definitivo della cosiddetta “pace calda”, l’equilibrio che ha contraddistinto negli ultimi anni le relazioni sino-americane.
Un nuovo corso?
Da qui nasce l’esigenza di ristabilire la priorità, di riportare ordine e fronteggiare una minaccia che dal punto di vista statunitense ormai è troppo evidente, di far prevalere gli interessi geopolitici su quelli economici che hanno avuto la meglio fino ad oggi, e di creare quindi la struttura di un nuovo “Washington Consensus”, che ponga in primo piano la questione della crescita cinese prima che sia troppo tardi. Questa strategia si è venuta formando nel corso degli ultimi anni, ma ha aumentato la propria intensità solo recentemente, parallelamente all’invasione russa dell’Ucraina e al ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan nell’agosto del 2021. Già fra 2017 e 2018, infatti, con l’amministrazione Trump si diede il via a una guerra commerciale, che continua a contrapporre in maniera feroce le due potenze. Si è giunti a teorizzare un vero e proprio decoupling, ossia un disaccoppiamento economico fra Stati Uniti e Paesi alleati da una parte e Cina dall’altra.
La nuova strategia sembrerebbe fondarsi su due pilastri. Da un lato l’obiettivo fondamentale di ridurre l’interdipendenza con la Cina, soprattutto su settori strategici che comportano un elevato rischio economico, come semiconduttori, minerali rari e componenti per la transizione ecologico. Dall’altro lato rilanciare, con robusti e mirati investimenti pubblici, l’industria interna sfaldatasi negli ultimi decenni, al fine di costruire un’ampia capacità produttiva nazionale nel lungo termine in grado di garantire sicurezza e benessere. Il ruolo dell’Unione Europea e di paesi alleati degli Usa come Corea del Sud, Giappone, Taiwan e India sarà fondamentale per questa fase cruciale, dovendo garantire un’azione corale ed una cooperazione in settori chiave per creare un’alternativa alla guida economica cinese.
Non si può non considerare in questi termini anche la forte pressione fatta dagli Usa sugli alleati storici al fine di annullare a ogni costo la partecipazione al maestoso progetto di penetrazione economica cinese conosciuto come “Via della Seta” (One Belt Road Initiative) e le tensioni in continuo aumento sulla strutturale questione taiwanese, altri fattori che convergono verso il contrasto alla Cina sotto ogni punto di vista.
Non è chiaro dove potranno condurre questi nuovi annunci di politica estera, se in seguito ad essi il mondo diventerà più caotico e pericoloso, o se si produrrà una polarizzazione globale (vista anche la connessione con la guerra in Ucraina e lo scontro geopolitico fra Nato e Russia). Tuttavia, ciò che è evidente è la forte opposizione al multilateralismo: persino i maggiori promotori della globalizzazione sono arrivati a mettere in discussione i principi che loro stessi hanno alimentato e seguito per anni.
FONTE:https://kriticaeconomica.com/e-lora-di-un-nuovo-washington-consensus/
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